venerdì 4 dicembre 2015
VIA I CROCEFISSI: AVANTI CON L'IPOCRISIA DEL LAICISMO, RELIGIONE DI STATO
Premetto che non sono cattolico e nemmeno cristiano e che sono indifferente a tutte le varie ricorrenze tradizionali, feste comandate, sia di Stato che religiose, e a tutto questo genere di cose che, fosse per me, potrebbero scomparire domani e quasi non ci farei caso. Anzi, essendo alcune di queste - come il Natale - diventate poco altro che l'occasione per una esplosione periodica di consumismo, francamente, ne farei volentieri a meno. Non è quindi di difendere tali cose che mi interessa: ci tengo piuttosto al principio per cui è un fatto di onestà dire le cose come stanno e non fingere di avere certe motivazioni quando è altro l'obiettivo a cui si punta.
Mi riferisco a tutta questa preoccupazione di eliminare ogni tradizionale celebrazione del Natale dalle scuole, ogni simbolo religioso dalle aule. La ragione che viene addotta è quella di rispettare la sensibilità di bambini e studenti provenienti da culture diverse dalla nostra la quale, ci piaccia o no, ha il Cristianesimo (nel bene e nel male) tra i tratti che tradizionalmente la caratterizzano.
Un fatto che dovrebbe incuriosire, però, è che queste istanze di abolizione di simboli ed usanze cristiane, non provengono, nella stragrande maggioranza dei casi, da musulmani o da appartenenti ad altre religioni, bensì da persone che difendono la laicità come bene supremo che deve informare la linea delle istituzioni in ogni campo culturale. Una laicità così tanto enfatizzata che sembra piuttosto configurarsi come Laicismo. Un altro fatto curioso è che le stesse persone che sostengono questo approccio relativista quando si parla di religioni, si scandalizzano quando, ad esempio, una famiglia islamica decide di non far frequentare le lezioni di musica ai propri figli perché ritiene che queste siano contrarie al proprio credo. Vogliamo trovarlo aberrante? Io personalmente sì. Però, se si vuole essere relativisti non è che lo si possa solo quando piace; se si dice che bisogna rispettare le sensibilità altrui, anche questo strano tipo di (in)sensibilità verso la musica lo è.
In questo caso invece sembra che l'incivile straniero debba essere ricondotto al rispetto di qualcosa che, quanto più è possibile, si cerca di apparentare ai diritti umani, per dissimularne il carattere culturalmente determinato che rivelerebbe il fatto puro e semplice che, sotto le mentite spoglie di una sedicente egualitaria laicità, riemerge la convinzione mai veramente superata che la cultura occidentale sia superiore a tutte le altre. Oggi superiore proprio perché relativista, perché pretende di porsi in una posizione "neutrale" rispetto a tutte le appartenenze culturali particolari. Ma la vocazione dell'Occidente è sempre stata quella di un approccio universalista: le nostre verità son sempre state qualcosa da portare al mondo perché valide ovunque (anche quella oggi più di moda, ovvero che non ci sarebbe alcuna verità). E la presunta "neutralità" di questo laico relativismo non ne è affatto esente, risultando null'altro che la veste attuale attraverso la quale - non tanto l'Occidente (che contiene anche sopravvivenze di elementi tradizionali) ma - la Modernità di matrice occidentale si impone al mondo.
Da questo punto di vista non è l'espressione del Cristianesimo a dover essere cancellata in quanto impositiva sull'Islam o su quant'altro: questa è solo la giustificazione buonista e più facilmente difendibile. È il fenomeno della religiosità in sé stesso che si cerca di spazzare via, imponendo al suo posto il Laicismo come nuova "religione" di Stato. In questo, se non altro, i Francesi sono certo più franchi (è il caso di dire) di noi. Si parla di società multietnica ed interculturale, ma in un quadro in cui le etnìe devono diventare mère apparenze fisiche senza significato se non per quello che culturalmente gli si dà (cosa che peraltro si cerca di fare altrettanto - ed è ancor peggio - con le differenze tra i sessi) e l'interculturalità è piuttosto l'amalgama generale di una a-culturalità in cui ciò che conta è solo l'essere consumatori ed in cui le nicchie culturali hanno legittimità esclusivamente in quanto nicchie di mercato. Se si volesse davvero rispettare la varietà delle diverse sensibilità culturali - e certamente ci si troverebbe così molto più in linea con quelle della maggioranza degli immigrati - non si cercherebbe di cancellare le usanze tipiche della propria tradizione a causa della presenza di un certo numero di cittadini di origine straniera (cosa che peraltro essi, nella loro terra d'origine, giustamente non si sognerebbero neanche lontanamente di fare), ma si riconoscerebbero come festività pubbliche riconosciute anche quelle delle altre religioni presenti nel nostro Paese, lasciando eventualmente la libertà ad ognuno di considerare quella data come giorno di festa o meno. Anziché puntare all'abolizione pura e semplice dell'ora di religione (che certamente oggi, così com'è, non ha molta ragion d'essere - se mai ne ha avuta), si penserebbe di sostituirla con uno spazio formativo di religioni comparate, antropologia culturale, etnologia, storia delle religioni: una componente del percorso educativo che si stenta a credere sia ancora assente mentre ci sentiamo costantemente ripetere che la globalizzazione va presa come una realtà incontrovertibile. È veramente pauroso il livello di ignoranza, diffusa tra gli italiani, delle culture dei popoli extraeuropei, verso le quali abbondano invece pregiudizi e luoghi comuni.
L'operazione che si cerca di fare, invece, è tutta interna alla società italiana ed è tra una fazione di laicisti che si ritengono progressisti in quanto avversi alla religione in quanto tale e che al fine di estrometterla dalla vita pubblica usano una presunta difesa dei diritti degli immigrati (senza considerare che proprio questi danno mediamente più valore alla religione che gli italiani) ed una di conservatori che usano strumentalmente come una bandiera un Cristianesimo che probabilmente non praticano, data la chiusura verso il prossimo che dimostrano. In tutto ciò la gente di origine straniera e che si riconosce in religioni non cristiane presente nel nostro Paese ha ben poca voce in capitolo ed è usata soprattutto come un pretesto.
Tutto ciò non fa, a mio modo di vedere, che accrescere la confusione e l'incomprensione tra autoctoni ed immigrati. Anche perché nell'ottica laicista questi ultimi sono uguali ai primi solo in quanto altrettanto sradicati o sradicabili dalle proprie radici: la "crociata" laicista della Modernità Occidentale è rivolta tanto contro gli arcaismi esotici quanto contro ciò che di tradizionale e premoderno sopravvive e resiste nell'Occidente stesso. Anzi, in primo luogo contro quest'ultimo, perché, una volta estirpato questo, per ciò che di tradizionale vorranno tenersi vivo gli stranieri non ci sarà proprio diritto di cittadinanza.
La crescente confusione - a partire da queste basi - fa credere agli autoctoni dei Paesi europei di essere minacciati nella loro identità e nel loro modo abituale di vivere da un'invasione straniera ed agli immigrati di dover scegliere tra un'assimilazione con abbandono totale dei propri valori (che in linea di massima sono tradizionali e ispirati dalla religione) o un atteggiamento di continua contrapposizione verso il Paese ospitante che varia dal vittimismo all'integralismo. Ciò che non si vede - a causa della confusione creata anche dal far passare delle cose (e delle intenzioni) per delle altre - è che, fuori da tutte le chiacchiere buoniste sulla società multiculturale, la situazione attuale delle grandi migrazioni non è affatto uno slancio spontaneo verso un teorico melting-pot globale (magari sul modello di internet o stimolato da qualche nuova tecnologia). Non c'è proprio nulla di spontaneo in tutto ciò. Si tratta di qualcosa che tutte le comunità e gli attori coinvolti, da una parte e dall'altra dell'immigrazione, subiscono loro malgrado: uno stravolgimento degli equilibri geo-culturali causato da fenomeni squisitamente economici e dagli interessi che gli stanno dietro, da sfruttamento, risorse primarie sottratte ai popoli a cui appartengono, speculazioni finanziarie, delocalizzazioni produttive, dominio delle multinazionali, landgrabbing, imperialismi, dittature sostenute per convenienza, guerre..... Non c'è proprio nulla dell'utopia multiculturale di cui si favoleggia con la coscienza sporca di chi sta dalla parte da sempre avvantaggiata da questi meccanismi, ovvero di quella percentuale del 20% dell'umanità che possiede l'80% della ricchezza.
Il Laicismo, fattosi dottrina del modello unico del disordine mondiale e ben lungi dall'essere quell'elemento di super-culturale imparzialità che millanta di essere, è il volto con il quale la Modernità Occidentale cerca ancora oggi di esercitare quella missione universalista che ha sempre creduto di avere uniformando il resto del mondo alla propria visione.
Per di più - dopo tutti i disastri che l'Occidente ha creato sia al proprio interno che nel resto del pianeta nel corso della sua storia - questa visione ormai (a parte una facciata di parole tese a riaffermare costantemente valori mai rispettati nei fatti) si è ridotta a garantire il diritto-dovere di essere tutti indistintamente consumatori. Uguali di fronte alle vetrine. Diversi alla cassa.
sabato 24 gennaio 2015
Ripensare il lavoro
giovedì 8 gennaio 2015
La libertà, il rispetto e i falsi laicismi nel mondo globale
mercoledì 30 luglio 2014
STOP TTIP!!!
.
Iniziate nel 2013 e con la previsione di arrivare a
conclusione alla fine di quest’anno, in questi mesi stanno andando avanti le trattative sugli accordi TTIP (Transatlantic Trade
and Investment Partnership, chiamato anche TAFTA = Trans Atlantic Free Trade Agreement) per la creazione
di una sorta di mercato unico tra UE ed USA.
I contenuti di questi accordi vengono discussi
praticamente in segreto, lasciando ai margini il
Parlamento Europeo, ma con la partecipazione attiva
ed influente delle Corporations multinazionali.
Insieme a questo accordo transatlantico ne sta venendo discusso un altro
analogo transpacifico,
chiamato TPP (Trans Pacific Partrnership, tra, sempre gli USA e Australia,
Canada, Giappone, Cile, Perù, Messico, Malesia, Singapore, Vietnam, Nuova
Zelanda, Brunei). A partecipare alla discussione sui due trattati sono state
invitate non meno di 600 multinazionali.
SEGRETEZZA
I documenti sui quali si discute sono accessibili solo ai team tecnici
(di cui molti membri fanno parte, appunto, a nome delle multinazionali) e, per
la parte politica, solo al Governo USA ed alla Commissione UE. Non è previsto che i Parlamenti
ed i Governi degli Stati membri dell’Unione siano obbligatoriamente coinvolti
né informati dell’andamento delle trattative ed il Parlamento Europeo (che è
l’unico delle istituzioni coinvolte ad essere eletto direttamente dai
cittadini) avrà solo un voto
finale al termine del processo dei negoziati: un voto “prendere o lasciare”,
senza possibilità di emendamenti.
GEOPOLITICA
Il TTIP è la risposta di un “impero americano” in forte
difficoltà, se non ormai al tramonto, di fronte a ciò che minaccia
nei fatti di sostituirlo nel quadro economico mondiale: l’area Mercosur sta rendendo
progressivamente autonoma l’area delle economie sudamericane dal pluridecennale
controllo statunitense, ma soprattutto l’asse tra Cina e Russia in crescente
integrazione economica diventa un temibile concorrente verso gli USA nel
diventare l’epicentro degli equilibri asiatici e mediorientali con una forte
presa anche sull’Africa e pertanto un candidato più che probabile ad
aggiudicarsi presto un ruolo di leadership mondiale. Si prevede che entro il 2020 la produzione
combinata di Brasile, India e Cina supererà quella di Canada, Germania, Italia,
Regno Unito e Stati Uniti messi insieme e che, entro il 2030,
l’80% della classe media a livello mondiale vivrà in
quelli che sono oggi chiamati i Paesi del Sud del mondo. E’ in questi Paesi che
oggi le economie corrono, ed è facilmente comprensibile il perché, cioè perché
è lì che oggi avviene quel “boom economico” che
c’è stato da noi alcuni decenni fa quando una parte importante della
popolazione è passata da una condizione di povertà al sistema dei consumi di
massa. Così come è facile capire che questo non può essere un fenomeno
prolungabile più di tanto o riproducibile ovunque più e più volte: dove tutto è
stato già comprato e ricomprato, si comincerà necessariamente a comprare di
meno e pensare di più alla qualità della vita: sarebbe una cosa logica, ma non sembra che le multinazionali ed i governi che le sostengano
nell’imporre sempre politiche orientate al consumismo vogliano farsene una
ragione.
In questo contesto di competizione globale gli USA cercano con questi accordi
internazionali di assicurarsi attraverso delle basi legali il controllo
sulle economie del maggior numero di Paesi, almeno di
quelli già sviluppati ( e pertanto più interessanti) o di quelli che mostrano
buone prospettive di diventarlo presto. E, mentre gli USA, perseguono questa
via “aggressiva” di politica commerciale, l’Europa appare rassegnarsi a
farsi terra di conquista, a tutto vantaggio delle sue
elités capitaliste e con gravissime conseguenze per le imprese medio-piccole,
per i lavoratori in generale, per la qualità del suo ambiente e del suo cibo. Il
TTIP non andrà a vantaggio né degli americani né degli europei, se guardiamo ai cittadini, alla gente comune, ma aumenterà di una
certa ulteriore percentuale, secondo stime statistiche probabilmente anche
piccola, ma utile nella competizione globale sempre più serrata, i profitti di
chi ha in mano le fila delle megaaziende e del business finanziario, che è
spesso ancora di origine occidentale, ma che non ha ormai più alcuna
appartenenza geografica o culturale ed ha solo il denaro come suo mondo.
Gli accordi TTIP tendono a realizzare ad
un grado che non ha precedenti il dominio delle multinazionali sul pianeta - o su quella parte di esso che gli si assoggetterà – e ripete così
il tentativo già fatto a livello mondiale con gli accordi MAI (Multilateral
Agreement on Investments) poi falliti in seguito alle
enormi mobilitazioni sociali che gli si opposero in tutto il mondo, insieme a
molti governi di Paesi poveri, che mettevano sullo stesso status giuridico
aziende multinazionali e governi sovrani ed avrebbero imposto a questi ultimi,
se approvati, di difendere gli interessi delle prime, sugli investimenti fatti,
anche contro la volontà e le proteste delle proprie popolazioni.
Gli accordi TTIP rilanciano in Europa il
tentativo già fatto in precedenza con la Direttiva Bolkenstein del 2004 e porterebbero a compimento il processo già avviato di dominio degli
interessi del capitale finanziario attraverso le politiche di austerità e di
smantellamento dello stato sociale indotte con la giustificazione della crisi
del debito pubblico (sulla cui verità non mancano le ragioni di dubbio: invito
ad informarsi sulla Modern Money Theory).
Alcune informazioni comunque sono trapelate
sulle questioni chiave di questi accordi.
CONTENUTI
Il TTIP va nella direzione di una forte
liberalizzazione, abbattimento di barriere, soprattutto delle «barriere
non tariffarie» – sarebbe a dire
tutte le regole e gli standard che che l’UE si è data in materia di normative ambientali, diritti dei
lavoratori, sicurezza e sovranità alimentare, ecc. – che è poi la sostanza
della partita del TTIP (le barriere tariffarie tra UE ed USA sono già a livelli minimi e quindi non sono queste in realtà l’obiettivo di
questi accordi).
Si dice che verranno favorite le esportazioni per le
piccole-medie imprese, ma, stando al OMC (Organizzazione Mondiale
del Commercio – in inglese WTO), delle 210.000 imprese italiane che esportano, il
72% delle
esportazioni è detenuto dalle prime 10, quindi i vantaggi andranno
pressoché del tutto a queste ultime, mentre l’arrivo di molti prodotti
statunitensi (che devono rispettare standard meno
esigenti) potrà penalizzare i nostri.
L’accordo, se approvato, avrà una seri di
pesanti e preoccupanti ripercussioni sull’agricoltura europea e sul cibo che
tutti mangiamo nonché sulla qualità degli ecosistemi nei quali viviamo.
Certamente non solo sull’agricoltura, ma anche sui servizi, su ciò che rimane
del welfare, sui diritti d’autore e sulla proprietà intellettuale, sui diritti
dei lavoratori e molto altro. Ma, per limitarci a vedere da vicino alcuni
aspetti che riguardano l’agricoltura, possiamo dire che:
- faciliterà l’ingresso in Europa degli OGM mettendo in questione
il principio di
precauzione (adottato in Europa dagli
anni ’90 in seguito all’epidemia della “mucca pazza” e non previsto negli
USA perché considerato “non scientifico”. In America
gli è preferita la prova scientifica di nocività dei singoli prodotti e
processi produttivi, la quale, ovviamente, può esserci solo una volta che il
danno è già avvenuto, e se parliamo di contaminazione da OGM negli ecosistemi e
mutazioni genetiche, il danno potrebbe anche essere immenso ed irreparabile.
Detto di passaggio, negli USA, anche dopo del periodo della “mucca pazza” è
rimasto permesso l’uso di grassi derivanti da carcasse di mucca nei mangimi per
bovini). Negli Stati Uniti 70 milioni di ettari di terreno sono coltivati ad
OGM ed il 70% degli alimenti in commercio contiene ingredienti transgenici e
non c’è alcun obbligo di segnalarne la presenza sull’etichetta.
- aprirà il mercato UE alla carne di bovini
alimentati con ormoni ed antibiotici o carcasse di
polli trattate con il cloro (come è permesso negli USA e vietato in Europa dal
1997). Oltre il 90% della carne di manzo USA proviene da animali per la cui
alimentazioni si fa ampio uso di ormoni e promotori della crescita bovina che
in Europa sono vientati dal 1988 perché considerati cancerogeni. Una di queste
sostanze è il cloridrato di ractopamina, un medicinale che serve a gonfiare la
quantità di carne magra nei suini e nei bovini. Gli Usa considerano
ingiustificato il divieto europeo di questa sostanza, sebbene sia stata bandita
da 160 Paesi nel mondo. Altre sostanze analoghe sono gli interferenti
endocrini, sostanze chimiche capaci di alterare il sistema ormonale umano: il
livello massimo di contaminazione da queste sostanze attualmente fissato in
Europa bloccherebbe il 40% di tutte le esportazioni alimentari USA verso il
nostro continente – il che può farci immaginare che verrà alzato in seguito alla
creazione del libero mercato.
- le aziende agricole USA sono in media 13
volte più grandi di quelle europee e devono rispettare molte meno regole di
sicurezza alimentare: sono quindi molto più concorrenziali rispetto alle nostre
(e ciò vale ancor più in Italia dove le aziende sono in media più piccole – 7
ettari - della media europea – che è di 12) e potrebbero così esportare carne a
prezzo certamente più basso per i consumatori ma con la conseguenza della
perdita del lavoro per molti produttori europei e di una alimentazione molto
meno sana per i consumatori.
- Fuori dall’agricoltura, ma con pesanti
conseguenze ambientali, va almeno citata la pratica del fracking per l’estrazione di gas e sabbie bituminose (altrettanto permessa negli USA ma sospettata di causare
avvelenamento delle falde idriche ed in certi casi anche terremoti; negli USA
sono stati aperti in un solo anno 11.000 nuovi pozzi per estrazioni con questo
sistema, in Europa, grazie alle leggi attuali, solo una dozzina),
- Inoltre il TTIP renderà possibile per un
grande investitore fare causa ad un governo per mettere in questione le sue
leggi e politiche nazionali, anche in materia sociale o ambientale, se le ritiene lesive (anche in via presunta) dei propri
investimenti fatti nel Paese (GRAZIE ALLE NORME ISDS
= Investor-State Dispute Settlement). Il processo, secondo quanto è dato di
sapere finora degli accordi TTIP, potrebbe essere intentato presso un tribunale
speciale costituito ad hoc per queste controversie e
con sede presso la Banca Mondiale, il diritto di intentare questo tipo di cause
varrebbe per almeno venti anni mentre le sentenze di questo particolare
tribunale non prevederebbero l’appello. Ci sono casi emlematici nell’ambito di
accordi commerciali internazionali similari come quelli del NAFTA e
dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, come quello della Lone Pine, una
azienda estrattiva californiana che ha chiesto un risarcimento di 191 milioni
di dollari allo Stato del Canada per aver vietato il sistema del fracking per
le estrazioni sul suo territorio al fine di proteggere l’ambiente e la salute
dei cittadini, oppure la Philip Morris che ha una causa in corso con
l’Australia per il divieto di stampare loghi pubblicitari sui pacchetti di
sigarette a fini di prevenzione del cancro, ed ancora quello della azienda di
energia nucleare svedese Vattenfall che vuole essere risarcita di 3,7 miliardi
di euro dalla Germania per mancati profitti da due sue centrali nel Paese dopo
che questa (in seguito alla tragedia di Fukushima) ha deciso di abbandonare
l’uso dell’energia nucleare. E’ chiaro che la paura di trovarsi davanti a
richieste di risarcimenti tanto ingenti da parte di persone a cui di certo non
mancano le risorse per far valere i propri presunti diritti può creare forti
resistenze da parte di molti governi a promuovere politiche di protezione
sociale ed ambientale: questo significa che, per motivi economici, viene messa
in forse e probabilmente limitata la stessa democrazia e la sovranità nazionale
di ogni Paese, lasciando sempre di più il mondo intero ad uso e consumo delle
multinazionali e di chi ne trae profitto.
Gli accordi TTIP hanno la potenzialità di cambiare sensibilmente la vita di tutti gli europei ma qui da noi
se ne parla pochissimo. Quando la democrazia non è
accompagnata da una informazione adeguata e trasparente, ne lle società
complesse come quelle in cui viviamo, di essa rimane poco più che l’apparenza.
Per ulteriori informazioni ed approfondimenti è utile vedere
il sito della Campagna che riunisce una serie di assciazioni che si stanno
mobilitando contro questi accordi:
www.stop-ttip-italia.net
martedì 20 maggio 2014
E' USCITO "TERRA E FUTURO. L'AGRICOLTURA CONTADINA CI SALVERA' "
.
E' USCITO IL MIO LIBRO:
"Terra e futuro. L'agricoltura contadina ci salverà"
(di Sergio Cabras, edito da Eurilink, www.eurilink.it)
Tratta di agricoltura contadina, sostenibile e su piccola scala, della biodiversità delle sementi minacciata dai brevetti sulla vita, di accesso alla terra e ripopolamento rurale, usi civici, beni comuni, delle politiche agricole in atto (nazionali, europee e globali), di land-grabbing, di api, delle leggi che penalizzano la vendita diretta dei piccoli produttori e di una serie di proposte in campo, alcune mie ed anche di altre persone ed associazioni impegnate su questi temi, per costruire soluzioni possibili ed una alternativa reale alla preoccupante situazione esistente.
Il libro si può trovare ed ordinare nelle librerie o sul sito della casa editrice.
Potete trovare aggiornamenti sulle presentazioni del libro che faccio in varie città italiane sulla pagina Facebook dedicata:
https://www.facebook.com/pages/Terra-e-futuro-Lagricoltura-contadina-ci-salver%C3%A0/255503087935711?ref=hl#!/pages/Terra-e-futuro-Lagricoltura-contadina-ci-salver%C3%A0/255503087935711
E' USCITO IL MIO LIBRO:
"Terra e futuro. L'agricoltura contadina ci salverà"
(di Sergio Cabras, edito da Eurilink, www.eurilink.it)
Tratta di agricoltura contadina, sostenibile e su piccola scala, della biodiversità delle sementi minacciata dai brevetti sulla vita, di accesso alla terra e ripopolamento rurale, usi civici, beni comuni, delle politiche agricole in atto (nazionali, europee e globali), di land-grabbing, di api, delle leggi che penalizzano la vendita diretta dei piccoli produttori e di una serie di proposte in campo, alcune mie ed anche di altre persone ed associazioni impegnate su questi temi, per costruire soluzioni possibili ed una alternativa reale alla preoccupante situazione esistente.
Il libro si può trovare ed ordinare nelle librerie o sul sito della casa editrice.
Potete trovare aggiornamenti sulle presentazioni del libro che faccio in varie città italiane sulla pagina Facebook dedicata:
https://www.facebook.com/pages/Terra-e-futuro-Lagricoltura-contadina-ci-salver%C3%A0/255503087935711?ref=hl#!/pages/Terra-e-futuro-Lagricoltura-contadina-ci-salver%C3%A0/255503087935711
giovedì 28 novembre 2013
Pagina Facebook e crowd funding/produzione dal basso per la pubblicazione del mio primo libro
.
Ho aperto una pagina Facebook il cui nome e':
"Terra e futuro. L'agricoltura contadina ci salvera'"
(link diretto: https://www.facebook.com/pages/Terra-e-futuro-Lagricoltura-contadina-ci-salver%C3%A0/255503087935711)
Che e' anche il titolo del mio libro, prossimamente in pubblicazione con l'editrice Eurilink.
Perche' la pubblicazione effettivamente avvenga, pero', e' necessario raggiungere una quota minima di 3000 euro attraverso il sistema delle produzioni dal basso, anche detto in inglese "crowd funding", in cui, chi e' interessato a sostenere il progetto pre-acquista una o piu' copie del libro prima che questo venga effettivamente stampato. In realta' si impegna ad acquistarla dando i dati della sua carta di credito (o prepagata ecc...): l'importo verra' effettivamente prelevato solo se e quando la quota minima verra' raggiunta ed il libro pubblicato.
Per chi vuole darmi una mano a far arrivare il mio lavoro nelle librerie e' possibile aggiudicarsi gia' da ora una copia a prezzo scontato sul sito
Vi prego in questa caso di scrivere "segnalato dall'autore" nello spazio NOTE in fondo al modulo dove si inseriscono i dati per la spedizione: questo, senza alcuna differenza nel prezzo che pagherete (14 euro) permettera' a me di dover contribuire con un minor numero di copie da acquistare per raggiungere il minimo per la pubblicazione (e' cosi' che funziona l'editoria in Italia per gli esordienti purtroppo). E mille grazie di cuore a tutti quelli che vorranno contribuire e leggere il mio libro.
Metto qui di seguito la presentazione del libro secondo la scheda della casa editrice Eurilink:
Descrizione
Un progetto editoriale interessante, per un libro che esplora un tema tradizionale (l’agricoltura) in un modo estremamente innovativo.
Il concetto di Sovranità Alimentare ha ottenuto negli ultimi anni un crescente successo nell’esprimere l’idea della libertà, della sicurezza e dell’indipendenza agricola delle nazioni.
Sergio Cabras, con il suo libro, vuole mettere in evidenza il fatto che non basta esser certi di poter mangiare ma che occorre anche essere in condizioni di produrre autonomamente il proprio cibo a livello locale e in modo sostenibile, scegliendo cosa e come produrre - ciascuna comunità secondo le proprie tradizioni e culture gastronomiche e scegliendo il proprio modello di produzione agricola.
Tutto ciò in modo possibilmente responsabile e lungimirante e non dettato solo da esigenze di competitività sul mercato globale e da programmi “di sviluppo” eterodiretti. La facoltà di scegliere tra una agricoltura localmente centrata e ben integrata con gli ecosistemi e la cultura locale o, viceversa, una uniformata su modelli standardizzati che si vorrebbero applicabili indifferentemente in tutto il mondo è, in sostanza, una questione di sovranità nazionale, oltre ad essere un ottimo metro di verifica della salute del nostro sistema democratico.
Dobbiamo dunque rivendicare che nel nostro sistema vi siano leggi e politiche volte a garantire e favorire la salvaguardia non solo genericamente del “settore agricolo” o agroalimentare ma soprattutto dell’agricoltura contadina; leggi e politiche tese ad impedirne l’abbandono e l’estinzione e che favoriscano, viceversa, la protezione della biodiversità, gli equilibri idrogeologici, i paesaggi, le mille conoscenze tecniche artigianali e di gestione ecosistemica dei territori, le tradizioni gastronomiche...
Queste leggi oggi sono spesso carenti, o del tutto mancanti, mentre ce ne sono molte altre che vanno in direzione diametralmente opposta: quella ispirata dal principio per cui meno contadini ci sono in un paese e più questo è sviluppato (uno dei più diffusi criteri di valutazione, purtroppo, degli economisti).
L’autore, che unisce ricerche indipendenti alla propria esperienza diretta sul campo, affronta questi argomenti basandosi su tre temi centrali: le sementi, la terra ed il lavoro. Discute dei pericoli del monopolio sulle sementi, i brevetti sulla vita, la semi-estinzione delle api, il fenomeno del land-grabbing e la speculazione finanziaria sulla terra, la vendita del demanio agricolo in Italia, le politiche agricole eurocomunitarie, le normative igienico-sanitarie nazionali in materia alimentare che escludono le produzioni contadine e penalizzano i circuiti locali dei mercati a vendita diretta (Chilometro 0).
Per ognuno di questi aspetti, propone alternative praticabili riportando interventi di “leader contadini” da molti Paesi del mondo, interviste inedite con testimonial italiani, un’analisi attenta delle normative vigenti, l’ipotesi Biolinux (brevetti open source sui semi), il miglioramento genetico partecipativo, proposte di legge presentate da associazioni contadine e sue personali ancora inedite. Ne emerge un quadro che, smentendo molti assunti su presunti passaggi evolutivi “necessari” per lo sviluppo, evidenzia tutta la questione politica che sta dietro a questi temi e le azioni necessarie per ripristinare la centralità dei temi per il futuro del mondo
Autore ed Editore
Sergio Cabras nasce a Roma nel 1963. Abbandona la vita di città non ancora ventenne per unirsi al fenomeno di occupazione e recupero di casolari rurali e terreni demaniali abbandonati sul Monte Peglia in Umbria. Dal 1990 conduce una piccola azienda agricola bio di sua proprietà. Ha una formazione etno-antropologica e filosofica acquisita attraverso studi personali e numerosi viaggi in Asia.
EURILINK è la casa editrice di riferimento della Fondazione e dell’Università “Link Campus”. Fondata nel 2006 allo scopo di offrire ai propri studenti e lettori testi innovativi sulle tematiche emergenti e sui dibattiti del nostro tempo, si rivolge soprattutto a coloro che avvertono l'esigenza di una interpretazione della società e del mondo aperta e cosmopolita, pronta ad attingere alle nuove frontiere della conoscenza.
Informazioni
Collana: Eurinstant
Pagine: 500
Formato: 14x21
ISBN: 978-88-97931-22-5
La risata dell'olivo
In questo periodo, di mattina fino a una cert’ora, anche se
non piove, gli olivi sono bagnati di rugiada, dell’umidità della terra e
dell’aria, troppo bagnati per poter raccogliere le olive. I vecchi contadini
che ho conosciuto quando sono arrivato qui trent’anni fa (ormai saranno tutti
morti, pace all’anima loro) dicevano che in questi casi bisogna “portar
rispetto alle piante”, intendendo con questo che non bisognava toccarli, né
raccogliere né (in altra stagione) potarli. Erano abituati all’idea che l’olivo
è una pianta destinata a durare a lungo, non come quelli degli impianti
moderni tutti fitti fitti
programmati per essere espiantati e sostituiti già dopo vent’anni. L’olivo è
una pianta soggetta a diverse malattie crittogamiche e batteriche che con l’umidità
si insediano più facilmente nelle ferite prodotte sulla corteccia dalle scale e
dagli attrezzi per la raccolta. Quindi quando sono bagnati è buona norma non
toccarli.
Allora? Allora bisogna aspettare che si alzino il sole o il
vento ad asciugarli perché noi non lo possiamo fare. Che vuol dire? Vuol dire,
tra l’altro, che la mia giornata lavorativa in questo caso diventa più corta e
minore il suo tempo “produttivo”, cioè destinato a produrre reddito (olio da
vendere, in questo caso). Una giornata intera di raccolta olive normalmente,
tolte tutte le spese e le giornate passate a potare, ho calcolato che mi rende
in media 25-30€, che già non è un gran che, ma in questo caso ancora meno. Nel
frattempo, come in altre situazioni analoghe in cui, per vari motivi, bisogna
aspettare, posso dedicarmi a preparare conserve dall’orto per l’inverno,
cuocere il pane per l’indomani, mettere in ordine la cantina, fare riparazioni,
cercar funghi o leggere libri e, magari, pian piano, forse mi è riuscito anche
di scriverne uno. Del resto, così è: questa condizione da (neo-)contadino che è
la mia qui, non è un “lavoro”, un’occupazione, un impiego; è vita, ed è
un’avventura, in qualche modo. In cui c’è una linea di fondo da seguire, una
falsariga fondamentale che regge tutto, intorno alla quale poi, lentamente,
anno dopo anno, si cerca di mettere insieme tutti i vari pezzi, anche, se la terra
non basta o le risorse scarseggiano, completando il quadro (economico, ma non
solo) con altre attività part-time che possono pure essere del tutto estranee
all’agricoltura. Infatti sono nato in città, nel 1963, sono venuto in campagna
per scelta, e perciò sono un neo-contadino, non uno dei vecchi che erano
qui prima di me e che, purtroppo per loro, difficilmente avrebbero potuto fare
altro, semmai lo avessero voluto. E non di meno sono un neo-contadino e
non un imprenditore agricolo o un agricoltore industrializzato, che è una cosa
molto diversa.
Il rispetto per gli olivi che portavano i vecchi di allora
aveva ben ragion d’essere, lo stesso che erano stati abituati fin da bambini a
rivolgere agli anziani. Certi ricercatori botanici hanno trovato in Sabina
(alto Lazio) piante di olivo tuttora viventi il cui ceppo originario ha 3000
(tremila) anni di età, ma anche senza arrivare a casi di tale eccezionale
longevità (questi erano già vecchi prima che nascesse Cristo) non è raro
incontrare piantoni di olivo secolari e plurisecolari nelle nostre campagne.
Quante cose avranno visto passare queste piante? Com’era il mondo quando loro
erano giovani? Che lingua parlava chi li ha coltivati, e quale era la sua
morale, i suoi valori, come si è sposato? Quanti imperi e rivoluzioni hanno
visto la propria alba e il proprio tramonto durante la vita di questi alberi?
Quest’anno uno di questi olivi dalla lunga storia ha ripreso
a darmi olive dopo non so più quanto tempo che non produceva. Aveva subìto una
forte gelata parecchi anni fa e in seguito devo ammettere che l’ho trascurato a
lungo, era stato assalito e in parte coperto dai rovi. Poi, cinque o sei anni
fa ho ricominciato a prendermene cura, insieme ad altre piante simili poste in
zone marginali del mio campo; l’ho liberato dai rovi, potato per bene e fatto
ogni anno tutto ciò che va fatto per recuperarlo, pur senza raccogliere nulla.
Del resto, un po’ di rispetto glielo dovevo: era qui da un pezzo prima che io
nascessi… e, probabilmente, sarà qui ancora vivo e vegeto molto dopo che non ci
sarò più. Poi, quest’anno, finalmente è tornato a darmi delle olive, e neanche
poche: una bella cassetta da venti chili!
Ho un piccolo Bed & Breakfast a casa ed oggi, mentre
stavo in cima alla scala a cogliere olive proprio da questo albero, l’ospite
che ha preso la camera in questi giorni si è avvicinato per fare due
chiacchiere. Ad un certo punto mi
chiede se secondo me, oggi come oggi, convenga o no fare ancora il contadino su
dimensioni così piccole, poco più che di sussistenza, in modo
semi-tradizionale.
Proprio nel momento in cui pronunciava la domanda, mi è
sembrato di avvertire uno strano fremer di foglie (come dire?) come pieno di
allegria lungo tutti i rami dell’albero.
Arrampicato sopra la scala cerco di rispondergli: per
esempio che, anche se in modi e forme diversi nei luoghi e nei tempi, sempre
aggiornate ed adattate, aggiornabili ed adattabili, è stata comunque l’attività
fondamentale di cui la gente ha vissuto per millenni e non solo qui, ma quasi
ovunque nel mondo e di cui tutt’ora vive gran parte dell’umanità. Gli dico poi
che, per dire se “conviene”, dipende anche se uno si vede come un individuo che
pensa per sé come un’entità isolata (il che non è) o se si considera elemento
di un ecosistema planetario e membro di una umanità che ha quanto mai bisogno
di ritrovare forme di vita sostenibili; che dipende se consideri la convenienza
solo in termini economici o anche di qualità della vita (considerando pure che
ne hai una sola), del cibo che mangi, dell’ambiente in cui vivi, dei ritmi
delle tue giornate, delle tue relazioni personali, del tempo che hai a
disposizione, del senso che trovi in come passi questo tempo; ma, anche se vuoi
considerare solo l’aspetto economico, dipende se lo vedi solo in termini di
denaro o anche direttamente in beni necessari, o almeno utili, che puoi
autoprodurti; ed anche se vuoi considerare solo i soldi, dipende se conti solo
quelli guadagnati o anche quelli risparmiati o dei quali hai eliminato il
bisogno di doverli guadagnare. Poi, alla fine, dipende pure da cosa vuoi nella
vita, da ciò che scegli di considerare per te davvero necessario e ciò di cui
sai fare a meno. E’ sempre una questione di scelte, in fin dei conti. E poi
naturalmente dipende anche dalla società in cui vivi: dalle leggi, dalle
politiche, dal sistema economico e dalla cultura dominante, che potrebbero
crearti condizioni favorevoli a vivere in questo modo, a vivere oggi come
contadino in questa epoca storica o viceversa (come più spesso è il caso)
possono metterti i bastoni fra le ruote ed impedirti in tutti i modi di vivere
e lavorare - per quanto onestamente - come vuoi tu, fino a renderti la vita
impossibile o almeno molto difficile.
Lo vedevo, però, lì sotto alla scala che non era per niente
soddisfatto delle mie risposte fino a che ad un certo punto sbottò: “Va bene,
ma mi pare che ci giri troppo in tondo e che la butti un po’ troppo sul
filosofico così: dammi adesso una risposta semplice e concreta: oggi come oggi,
ad un giovane che deve decidere che lavoro fare nella vita, gli conviene o non
gli conviene secondo te di fare il contadino?”
“Di fare il contadino?”
rispondo riprendendo a cogliere le olive. “No, non gli conviene, lascia
perdere. Ma non è mica un lavoro: è meglio che si trovi un lavoro vero”.
Che domanda stupida!!
L’olivo ancora ride.
Anzi, forse, qua in cima alla scala appoggiata a questo
vecchio albero, a cui basta essere ciò che è, mi sembra di capire: ecco cosa
fanno tutto il tempo gli alberi, mentre espandono i loro rami nell’aria e le
radici nella terra, piantati comunque lì sotto al sole o in mezzo al vento:
stanno da sempre a ridere. A
ridere delle domande come queste che ci facciamo: “mi conviene?”, “ma ci
guadagno?”, o magari perfino “mi renderà competitivo? vincente?
di successo?”
Ah! Ah! Che razza di idee, poveri umani!
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