martedì 24 marzo 2009

Sulla scelta di vita in campagna - 2 (e la sua attualita’)

Quando si propone (anche in ambienti ecologisti) la via della vita in e della campagna come alternativa centrale, autentica e possibile al sistema di vita dominante (con le conseguenze che gia’ abbiamo davanti agli occhi e quelle che probabilmente avremo a breve) spesso si assiste a polemiche piuttosto accese fra chi difende quest’idea con toni che a volte sconfinano anche nel romantico-ideologico-utopista e chi sembra rifiutare cio’ che gli sembra un vano sogno impossibile respingendolo con energia degna di fanatici dello sviluppismo; energia che pare quella di chi voglia allontanare da se’ il pericolo di poterci credere davvero ad un tale sogno.
E’ chiaro che si tratta di un argomento che stimola le coscienze perche’ e’ in fondo abbastanza evidente che, se diffusa su percentuali consistenti della popolazione, sarebbe forse l’unica scelta che davvero potrebbe dare una svolta radicale in senso eco(ed umano-)sostenibile alla nostra societa’ ed al suo futuro. Quantomeno l’unica che e’ direttamente alla portata delle nostre decisioni come comuni mortali, mentre ogni tipo di programma politico (per inaspettatamente coraggioso che fosse – e non se ne vede comunque traccia) avrebbe bisogno in ogni caso di tempi e condizioni molto complicate nelle quali possiamo solo sperare, ma purtroppo sempre meno credere, in una economia globale che ha ormai bisogno di crescere continuamente anche solo per sopravvivere.
D’altra parte un basilare principio di realta’ non puo’ non farci riconoscere che in tutto quell’insieme di eventi e trasformazioni avvenuti negli ultimi due secoli, che chiamiamo genericamente “progresso”, c’e’ anche molto di positivo se guardiamo a come era prima la condizione umana in molti suoi aspetti, e dunque una scelta in cosi’ radicale rottura con questa tendenza storica come quella di andare a vivere in campagna, chiamandosi fuori da tutto cio’, puo’ sembrare inappropriata perche’ non terrebbe conto della realta’ delle cose.

Questo e’ comprensibile. Ma che si rilegga in chiave radicalmente critica la modernita’, fin nei suoi presupposti, e che a questa critica se ne vogliano far seguire le conseguenze pratiche, non deve necessariamente significare che si pensi di poter fare come se tutto cio’ che e’ avvenuto dal tempo delle candele, dei carretti, delle fattucchiere e delle scomuniche non ci sia stato ne’ ci sarebbe dovuto essere. E’ sorprendente come in un’epoca in cui sembra trionfare l’idea di liberta’, specialmente di pensiero, si rimanga cosi’ impigliati nell’automatismo di credere nell’alternativa netta “o modello sviluppo-consumista o ritorno al medioevo sotto tutti gli aspetti”. Purtroppo succede pure che anche chi pretende a questo punto di preferire la seconda alternativa finisca per credere a questo bivio mal posto. Non c’e’ questo bivio: indietro nella Storia non si torna, si va solo avanti, anche se non sta scritto da nessuna parte che si vada verso qualcosa.
Per questo motivo non possiamo neanche illuderci che una linea di tendenza storica vada comunque verso il meglio solo perche’ a lungo la si e’ chiamata “progresso”, neanche se in parte e fino ad un certo punto lo si e’ potuto fare con buone ragioni. Se determinate trasformazioni sono avvenute ed hanno avuto il sostegno sentito e partecipe di moltissime persone vuol dire che ce ne erano i motivi. Ce ne erano i presupposti e se ne sentiva il bisogno, cosi’ che quando si e’ presentata una via possibile e comprensibile che rispondeva alle esigenze molti l’hanno seguita, pur se cio’ comportava delle rotture e delle notevoli difficolta’ . E’ miope e limitato pensare semplicisticamente in termini di giusto e sbagliato: esistono piuttosto i percorsi, in cui ci sono passaggi anche necessari, inevitabili. Invece di discutere in termini di andare avanti (avanti in che senso?) o tornare indietro (indietro dove?) sarebbe piu’ sensato riconoscere che cio’ che ci ha portato fino a qui aveva ragione di essere, altrimenti non saremmo dove siamo, ma siamo al punto di poter e dover prendere una strada diversa. Qui sta il bivio: nell’andare avanti in un altro modo grazie all’essere arrivati fino a qui con tutti gli errori che ora possiamo vedere ed a cui possiamo porre rimedio.
La Modernita’, la Scienza e la Tecnologia ci hanno affrancato da superstizioni, fame, malattie, fatalismo….; ci hanno portato a credere a cieche ideologie iperrazionaliste, a vederne le conseguenze e poi a non crederci piu’; a riconoscerci artefici della Storia e del nostro destino sostituendoci a Dio in questo ruolo e a ritrovarci ora in balia di forze economiche incontrollabili e impersonali che muovono questa “Storia” e noi con essa senza che ce ne rimanga alcun significativo controllo salvo la versione “realistica” odierna dell’antica devozione nel ripeterci che (pero’) e’ questo che ci da’ il pane ecc.. (soprattutto eccetera, perche’ se si trattasse del pane e del necessario basterebbe molto meno e ci rimarrebbe tempo anche per un po’ di vita come esseri umani); ci dovrebbero aver dato la capacita’ di vedere i fatti come processi e gli opposti come fasi complementari e successive.
Purtroppo la forma mentale occidentale, concettuale, astrattista, tutta legata alla dimensione del linguaggio, tende a mettere sempre le cose in contrapposizione: per questo la nostra storia si compone di movimenti politico culturali che impiegano enormi energie a combattersi ed estremizzare ognuna le proprie posizioni, a non comprendere l’aspetto di realta’ che c’e’ in quelle opposte e, in definitiva, sempre ad andare un po’ troppo in un senso, in modo che poi la cultura che avra’ successo…..successivamente (appunto si dice cosi’)….dovra’ recuperare tanti errori da finire per andar troppo nel senso opposto in modo da generare movimenti di segno opposto e cosi’ via.

E’ grazie al percorso anche distruttivo e consumistico, e’ grazie agli errori fatti ed alla capacita’ di comprenderli insieme a quanto di buono si puo’ conservare che oggi potremmo voler fare a meno di cio’ di cui non abbiamo bisogno. E’ grazie a questa esperienza che possiamo immaginare altri percorsi per cui non necessariamente tutti su questa Terra debbano ripetere gli stessi errori per capire le stesse cose. E’ grazie alla confusione del superfluo che poi possiamo fermarci all’essenziale.
Prendere concretamente una direzione di vita sostenibile, non consumistica, di non collaborazione col sistema distruttivo, di autoproduzione (e come potrebbe essere altro se non con la base di indipendenza economica ed esistenziale che la campagna puo’ dare?) non e’ un tornare indietro, non e’ un misconoscere la realta’ della Storia e del progresso (quel che c’e’ di vero in questo – e non e’ poco), ma e’ confutarne la mitologia, confutare gli aut-aut pseudorealisti e soprattutto non farsi incastrare dall’abitudine a trasformare sempre tutto in materiale dialettico-polemico. Non si puo’ sapere e definire la giustezza a livello generale o di tendenza storica di un’idea senza metterla in pratica, non lo si puo’ fare senza aver lavorato nella propria vita per aprirgli una strada, una possibilita’. Non si puo’ neanche sapere di cosa si stia parlando se non si accetta di scendere nell’esperienza anche se questo modifichera’ alcune delle nostre visioni.
Ed infine non si puo’, proprio perche’ siamo nella post-modernita’, non dare valore centrale alla nostra vita individuale giocata giorno per giorno, anche senza necessita’ di uno schema teorico a tutto tondo, come particella elementare di quel flusso di massa che chiamiamo “Storia”, che, ricordiamoci, possiamo davvero definire e conoscere solo dopo, guardandoci indietro. Mentre le analisi storiche le faranno gli intellettuali a posteriori, la “Storia” la facciamo oggi con le nostre vite. E non si tratta di agire in base ad una concezione lineare-progressiva piuttosto che circolare-statica della Storia: queste anche sono definizioni che appartengono all’ex-post e che sono soggette anch’esse alle mode e alle fasi culturali. Si tratta invece, concretamente e semplicemente, di capire cio’ che va fatto, data la situazione che ci si trova a vivere, non solo immaginandosi elemento separato, ma riconoscendosi parte del Tutto, e farlo, a partire da se’.

Per questo io credo che la scelta di andare a vivere in campagna, di trovare qui un’alternativa autentica e possibile, e’ una scelta oggi non meno attuale e legittima storicamente almeno di qualsiasi altra, se non, a ben vedere, quella davvero appropriata ai tempi, che richiedono svolte nette e fattive che non possono calare dall’alto ma venire dalla responsabilita’ di ognuno, perche’ dalla responsabilita’ di ognuno si riproduce ogni giorno questo “mostro impersonale” al quale abbiamo delegato (da ex- forse piu’ che da post- moderni) il nostro destino e la realizzazione del nostro posto nel mondo, in cambio di una limitata gamma di ripetitive e sempre piu’ solitarie “ liberta’ ” quotidiane.

Sulla scelta di vita in campagna (e il suo tesoro)

Anche negli ambienti vicini al movimento per la “Decrescita” (nel quale dovrebbero trovarsi persone a cio’ piu’ favorevoli) noto spesso un certo scetticismo “realista” nei confronti della scelta di vita in campagna, dell’adozione di stili di vita, produzione/consumo, in vari modi, neo-contadini e della considerazione di questi come una valida autentica alternativa al sistema (auto)distruttivo imperante.
Si dice che della terra oggi non si puo’ vivere, che al passato non si torna e c’e’ a volte pure chi ama dileggiare coloro che a questa alternativa ci credono davvero volendoli dipingere come persone che amano parlare di agricoltura ed autoproduzione tanto piu’ quanto meno ne conoscono per davvero le fatiche e le privazioni che tutto cio’ comporta o puo’ comportare. Molto meglio, allora, sembra quasi sentir dire, fare francamente solo gli intellettuali della decrescita senza rivendicare una pratica conseguente (che per forza di cose – si da’ per inteso - tanto conseguente poi non potrebbe essere).
Ma… e allora? Viene da dire. Il problema della pratica conseguente, ma veramente, radicalmente, non ce lo poniamo? Siamo anche noi di quelli che credono in una realta’ fondamentalmente solo umana? Per la quale le battaglie sono sempre in primo luogo battaglie culturali? Dibattiti tutti interni a un mondo antropocentrico, sostanziato di logos, in cui mai appare un “oste” naturale ed oggettivo che arriva a presentare il conto riportando tutti ai semplici fatti? Anche per noi il momento di “sporcarsi le mani” dovra’ venire sempre piu’ tardi, quando magari sara’ il turno di qualcun altro?

A me pare ormai molto chiaro che di tempo non ne abbiamo piu’ a sufficienza per rimandare il momento di agire in pratica nel modo piu’ coerente possibile: non sara’ grazie ad un mutamento solo filosofico e neppure legislativo che i terribili mutamenti bio-fisico-chimici e climatici in atto rallenteranno la corsa minacciosa che percorrono in seguito ai nostri comportamenti economici consumistici. Se qualcosa ancora si puo’ salvare e’ rinunciando radicalmente a molti di tali comportamenti e sostituendoli con altri che siano oggettivamente ecocompatibili.
La vita fondamentalmente contadina e’ stata ed e’, in ogni tempo ed ogni luogo, una di dialogo continuo tra esseri umani e Natura su una scala che permette la percezione diretta dell’impatto e del rapporto degli uni con l’altra come di una parte che ha un suo posto nel Tutto, per quanto in un “Tutto” dinamico.
Siamo d’accordo che al punto estremo in cui oggi ci troviamo di “turning point” critico non si puo’ rispondere solo che, pur di salvare qualcosa, basta che adoperiamo comportamenti ecologici e simil-contadini – per quanto piu’ pretesi che reali - e tanto basta al di la’ di qualsiasi approfondimento di consapevolezza della portata sia mondiale-politica che esistenziale dei problemi e delle loro cause. Tutt’altro.
Ma il punto che molti sembrano non capire e’ che la scelta di vita in e della campagna, proprio dentro alla sua imperfezione ed alla sua relativa irrealizzabilita’ nella situazione attuale, e’ il passaggio che trasforma autenticamente anche al livello della coscienza, che porta la consapevolezza a fondersi e trasformarsi nel fuoco di una comprensione che avviene nella pratica, il che e’ proprio cio’ che ci manca oggi.
Perche’, nonostante abbiamo a disposizione una ricchezza di fonti d’ispirazione per immaginare altri fondamenti per altri e sostenibili modi di vivere, ad esempio in molte tradizioni olistiche di tutto il mondo, queste arrivano da noi perlopiu’ come mode superficiali mentre il consumismo dilaga ormai come non-cultura omologante a livello globale, anche nei paesi d’origine di tali stesse tradizioni? Perche’ la vera conoscenza che era propria dell’Oriente e di molti popoli tradizionali non riesce a diventare autentico patrimonio-risorsa nella coscienza diffusa di questa modernita’ in disperato bisogno di aiuto (tanto piu’ grave quanto meno conscio)?
Proprio perche’ si tratta di un tipo di conoscenza che va colto attraverso la pratica piu’ che le parole, come il senso delle cose, come la verita’ della Natura, di una base fondamentale che non solo ci appartiene , ma alla quale soprattutto apparteniamo. Queste forme di conoscenza erano vive e alla portata del senso comune quando erano radicate nella vita concreta delle persone, quando il dialogo ed il legame con la Natura era evidenza quotidiana – ovvero quando la dimensione pratica contadina era l’esperienza comunemente diffusa.

Quando sento le prudenti obiezioni rivolte a chi afferma che (non il tornare, ma il rivolgersi ad) una vita nella e della campagna e’ la soluzione fondamentale autentica e percorribile al pauroso futuro senza futuro a cui ci sta portando il sistema attuale, noto che, al di la’ della verita’ piu’ o meno di fatto che solo della terra oggi e’ molto difficile vivere, il punto e’ che non si coglie, in queste obiezioni, questo fuoco trasformatore della coscienza che e’ dato dalla pratica.
E’ certamente vero, almeno nella maggior parte dei casi, che e’ difficile ai limiti dell’impossibile mantenere oggi una famiglia decentemente (per quanto con standard “decrescenti”) solo grazie alle entrate ed ai prodotti provenienti da un’agricoltura (e biologica) su piccola scala. E’ altrettanto vero pero’ che questo diventa molto piu’ possibile se, da un lato si ridimensionano i propri consumi su standard di autentica decrescita e dall’altro si affiancano al lavoro agricolo altre attivita’ anche non agricole ma che hanno un legame con la vita in campagna se non altro nel fatto che grazie a questa possono essere solo complementari e pertanto scelte tra quelle comunque non necessariamente distruttive (il che gia’ non e’ poco).
Purtroppo si sta spesso a discutere sul fatto che in questi termini non ci si puo’ “arrogare” il titolo di “contadino” e che tale titolo non puo’ essere che in via di estinzione – se non gia’ materia per gli studiosi ed i musei. Questa impossibilita’ di “purezza” sembra ad alcuni essere gia’ di per se’ argomento sufficiente a chiudere il discorso e tornare con preteso “realismo” ad occuparsi solo delle numerose piccole misure compromissorie/palliative (per carita’, sempre utilissime e sacrosante, soprattutto perche’ adottabili oggi dalla vera stragrande maggioranza delle persone) in senso ecologista/decrescente, applicabili in una vita di citta’.
Perche’, dico io? C’e’ forse bisogno di dire che dietro la montagna non c’e’ nulla solo perche’ non si vuole avventurarsi fin lassu’? O forse che se in un posto ci si puo’ arrivare solo a piedi su impervi sentieri e non propriamente con una strada, allora cio’ vale a dire che non vale neanche la pena di partire, o che addirittura il posto non esiste del tutto?
A volte mi sembra si stiano a fare troppi distinguo prima di partire perche’ di partire davvero non ce se la sente ma non lo si vuole riconoscere e si pretende di negare cosi’ la possibilita’ stessa del viaggio.
Oggi non possiamo piu’ essere contadini “veri”? Bene, non c’e’ problema: saremo allora “neo-contadini” o anche “pseudo- o filo-contadini” o parzialmente contadini, se si preferisce. Il punto e’ che cio’ che oggi che cerchiamo di farlo solo in pochi e’ possibile fare al 30% - 50% - 70% e’ cio’ che e’ comunque possibile fare. Che, anche se non quantitativamente, qualitativamente e’ una soluzione, autentica. Che indica una direzione di percorso che e’ ecocompatibile e sostenibile in prospettiva senza limiti e che ha la capacita’ di allargarsi fino ad includere i vari aspetti di una societa’ funzionante.
Il fatto che si tratti, di fatto, di condizioni di vita contraddittorie, a cavallo tra una dimensione di alternativa in parte realizzata e la pur permanente parziale dipendenza verso un sistema radicalmente messo in discussione, non ne e’ un elemento invalidante, ma il segno che si tratta di una cosa viva, reale, un passaggio evolutivo in fieri: avrebbe avuto senso criticare il Neandherthal o l’Homo Abilis perche’ non erano ne’ piu’ autentiche scimmie ne’ ancora Homo Sapiens? Loro di fatto vivevano la loro vita ovvero la loro risposta alla situazione contingente lungo la strada dell’evoluzione: e’ solo a posteriori che poi gli si da’ un nome e si puo’ discutere sulla loro comparsa, la loro estinzione e sulle cause di entrambe.
Oggi siamo di fronte ad un passaggio evolutivo, di quelli che si presentano, a dare la cifra della loro portata, con il rischio dell’estinsione (o quasi) sull’altro piatto della bilancia. Siamo di fronte ad un passaggio che implica il confronto con il funzionamento profondo della nostra mente, del nostro comportamento ed i nostri meccanismi ripetitivi, con la nostra paura nel guardare la realta’.
Questo passaggio evolutivo a cui il percorso stesso della nostra storia ci porta oggi richiede un passaggio che, piu’ che culturale, e’ propriamente di livello di coscienza, ma non potremo farlo rimanendo all’interno dei limiti teorici, astrattisti ed intellettualisti della cultura moderna ed occidentale: dobbiamo evolverci nell’essenzialita’ di quella che e’ la nostra base naturale e dobbiamo farlo attraverso una conoscenza che cresce nella pratica, nella percezione diretta ed intuitiva di qual’e’ il nostro posto nel mondo, nella Natura.
Per questo motivo dico che spesso mi pare non si colga a sufficienza qual’e’ il vero tesoro, pur dentro a contraddizioni ad illusioni ed insufficienze, della scelta di chi va a vivere in campagna e della terra (nella misura in cui ci riesce). Questo vero tesoro e’ la possibilita’ di un cambiamento di prospettiva autentico che si muove organicamente col cambiamento concreto e misurabile del proprio impatto sull’ecosistema. Un cambiamento che avviene attraverso la pratica del fare una cosa impossibile e comunque realizzarla quanto piu’ possibile – aprendo di fatto la strada anche per altri – e chiedendosi costantemente, grazie alle difficolta’, il vero senso ed il vero valore di ripetere ogni giorno questa scelta impossibile.
E capirlo, a mano a mano, al di la’ delle parole.

martedì 29 aprile 2008

Sequoi@


Sulla home page del mio sito, al quale questo Blog è collegato (www.ecofondamentalista.it), ho messo il disegno stilizzato di un grande albero. Potrebbe essere qualsiasi specie di grande albero, per esempio……una sequoia.
Anzi…. una Sequoi@.
Una sequoia virtuale, telematica, utile a comunicare, simbolica.
Come simboliche sono quegli enormi, altissimi alberi di questa specie che si trovano in America. Alte oltre cento metri. Chissà quanto lontano si può vedere da lassù!
Più che alberi devono essere un mondo, per l'ombra che fanno sotto di sé, che crea l'ambiente adatto ad altre piante più basse, per tutti gli insetti, uccelli, mammiferi e rettili che le abitano, per la vita dei microrganismi, per la composizione del terreno cui danno luogo... Perché, se è vero che le radici di un albero corrispondono a più della sua chioma sotto terra, fin dove potranno mai arrivare le radici di una pianta simile ?
Ed anche noi non siamo poi così diversi da loro: anche noi siamo un intero mondo, corpo/mente.
Basta sedersi ed osservare per un po’ la propria mente, sentire il proprio corpo, respiro, sensazioni, stati d’animo. Basta sedersi e subito s’alza il vento che soffia attraverso i nostri pensieri, ricordi, aspettative, giudizi, idee, amori, rancori…. Così come soffia tra i rami e le foglie del grande albero, che lo conosce e sta lì, radicato nella terra e, se abbastanza vecchio, neanche si scuote più.
Sì, perché la vera grandezza di questi alberi è nel tempo, ancor più che nell’altezza.
Com’era il mondo quando son nati come esili pianticelle?
L’Impero Romano, il Rinascimento, invenzioni, rivoluzioni, la “scoperta” dell’America, le vittorie e le sconfitte di innumerevoli generazioni di esseri umani e non: non sono altro che momenti e stagioni per un grande e vecchio albero.
Che tuttavia è anche oggi un essere vivente: contiene ancora cellule morte che hanno respirato l’aria di migliaia di anni fa, ma le sue cellule vive di oggi non sono le stesse di allora: è un processo, un cambiamento lento e continuo che non si è mai fermato. E c’è una vulnerabilità, la possibilità di ammalarsi, di morire oggi forse, la certezza che ciò avverrà un domani.
Così come è per noi, nelle nostre più brevi vite, che non siamo gli stessi di quando eravamo bambini, e neanche di ieri in realtà, ma che crediamo al nostro Io che non sapremmo bene definire in cosa o dove si trovi, ma in cui lo stesso ci identifichiamo e che ci svanirà come nebbia al sole quando moriremo.
Così mi piace, come la Sequoia, guardare tanto più lontano tanto più mi radico nella Terra e su questa commistione dei miei limiti con essa mi baso e mi reggo.
Ma non mi reggo da solo.
Per questo la lettera finale ho voluto scriverla con la @.
Perché, come il monolite vegetale è sostanza organica e tornerà un giorno alla terra, i miei pensieri di contadino dissenziente cercano in una rete in cui diffondersi il loro esito. La rete dei pensanti che, di qualunque forma abbiano le foglie, in ultima analisi affondano le loro radici nella stessa Terra in cui le affondo io.

Per essere sincero per un attimo ho avuto anche un accenno di antipatia all’idea di identificarmi con le grandi sequoie. A dire il vero è il fatto che si trovino a vivere negli U.S.A. che un po’ mi disturba perché credo che la funzione internazionale che svolge quel paese oggi, dal punto di vista ecologico e politico, sia tra i mali più gravi che affliggono il nostro pianeta.
Ma presto mi son consolato, pensando che dal punto di vista di piante millenarie come quelle, l’ “impero americano” non è che un ragazzino turbolento e viziato che ultimamente sta un po’ disturbando la pace della foresta volendo giocare con cose troppo più grandi di lui, ma che presto passerà, come tante altre cose prima…..
Spero che le sequoie possano davvero veder lontano.

martedì 24 luglio 2007

Sulle dimensioni proprie dei sistemi umani

In realtà, di fatto, dentro e sotto a ciò che ufficialmente, nominalmente o apparentemente sono i grandi sistemi in cui si articola la società, la dimensione dell’ambito sociale naturalmente proporzionato all’essere umano è molto più piccolo.
Molto più piccolo è quello a cui arriva la nostra capacità di reale comprensione (una comprensione che non sia esclusivamente astratta e del tutto slegata dall’esperienza), di gestione e soluzione dei problemi, di comprensione e comunicazione con l’interlocutore, di reale interesse e sensibilità per le questioni coinvolte e di piacevolezza/soddisfazione nel rapportarvisi.
Inoltre, di fatto, anche all’interno dei grandi sistemi, il reale ambito sociale col quale siamo davvero coinvolti è quello delle poche persone o decine di persone con cui siamo in contatto e questo è ciò che effettivamente funziona.
Il mondo attuale ci richiede una percezione della realtà su scala globale ed una sensibilità corrispondente, ma ciò è fuori misura per noi esseri umani la cui naturale scala di orizzonte di un ambiente sociale è la comunità, la tribù, il villaggio, il piccolo centro abitato.
L’idea che bisogna “civilizzarci” al punto da ridimensionare di conseguenza la nostra scala di percezione/sensibilità sociale sembra portarci il gioiello evolutivo della modernità occidentale, ma in realtà ne tradisce i presupposti contraddittori.
Eravamo partiti dal trasformare l’ambiente in cui viviamo a nostra misura anziché accettare che fosse l’ambiente a fissare i limiti del nostro modo di vivere.
Ma il fare questo a partire da idee astratte ovvero senza vedere il nesso profondo che ci rende non-altro dalla Natura, ci ha portato all’esito manifesto della contraddizione e dell’ignoranza di fondo per la quale oggi ci troviamo a dover adeguare la nostra natura umana, senza peraltro riuscirci, ad un ambiente artificiale e fuori misura che noi abbiamo creato ma che ci è sfuggito di mano sia nello ‘spirito’ che lo anima (nelle sue leggi di funzionamento interne) sia nelle dimensioni che ha raggiunto.

Contraddizioni del sistema consumistico e globalizzante

Il sistema attuale estende la portata dell’orizzonte sul quale agiscono i propri meccanismi ed effetti (economici, sociali, ambientali, culturali…) a livello mondiale. Questa sua universalizzazione richiede, per gestire il mondo che crea ed i suoi problemi, un livello di istruzione, di consapevolezza e di cultura generalmente diffusa tra la popolazione, adeguato ad una tale portata.
Ma al contempo un tale sistema, per mantenersi nelle sue dimensioni gigantesche di produzione e di consumi, ha bisogno che una grande parte della sua popolazione sia dedita alla produzione-consumo e non all’intelligenza dei complessi fenomeni in atto.
Che questa sia la realtà per una notevole percentuale della popolazione è indispensabile per garantire la ricchezza a sua volta necessaria a finanziare tra l’altro anche il livello e la diffusione della ricerca e della conoscenza richieste agli addetti ai lavori per poter gestire e fronteggiare meccanismi così complessi.
Questo fa sì che in questo sistema i problemi siano sempre più complicati e che, se pure una ristretta cerchia di esperti e intellettuali fossero in grado di venirne a capo (il che è tutto da dimostrare data anche la crescente discrepanza tra esperienza e teorie astratte dovuta sia alla dimensione dei problemi sia alla formazione specialistica degli “esperti”), le loro soluzioni si scontrerebbero con l’indifferenza delle masse che non ne coglierebbero i presupposti, rendendole di fatto inapplicabili.
E tutto ciò diventa ancor più grave se pensiamo che in regime di democrazia mediatica, ovvero nella “società dello spettacolo” ( che è parte integrante di un tale livello di sviluppo) è molto più probabile che a gestire problemi così immensi siano persone prive della competenza necessaria piuttosto che appartenenti a quella ristretta elìte intellettuale.

Contraddizioni dello sviluppo in prospettiva

Il crescente sviluppo economico, la diffusione e l’accessibilità dell’informazione e della cultura, il distaccarsi dal lavoro materiale si basano sull’intensificazione della produttività, dei consumi e dei ritmi di lavoro e richiedono un sempre maggiore coinvolgimento nel processo produttivo da parte dei lavoratori a tutti i livelli. Ma al tempo stesso fanno crescere in essi stessi una maggior voglia di tempo libero, della possibilità di dedicarsi a sé stessi e ad attività non economiche, oltre ad una sempre minore disponibilità a sottomettersi ed adeguarsi alle direttive dettate dai capi ed alle esigenze esterne del sistema di produzione ed ai suoi ritmi.
Il punto massimo di capacità di produzione di ricchezza del sistema potrebbe coincidere col punto massimo di dissociazione motivazionale da parte di coloro che dovrebbero sostenerlo e riprodurlo, cosa forse ancor più evidente infatti tra gli studenti ed i giovani in genere che tra i lavoratori.
L’esito di una tale contraddizione potrebbe essere o (auspicabilmente) una radicale riconversione del sistema in senso eco/umano-compatibile (e perciò non più su base consumistica) o una società divisa fondamentalmente in due ceti. Uno, privilegiato e perlopiù ozioso o dedito ad attività essenzialmente “culturali” che parla un linguaggio e vive in un mondo esclusivo e ripiegato su sé stesso. L’altro costituito da una classe di schiavi-lavoratori; precari a vita senza identità né professionale né territoriale per i quali il primo problema sarà quello di trovare qua e là un qualche lavoro temporaneo – al di là di quanto questo sia pagato – ed il cui scopo (e la cui stessa ragione di esistere dal punto di vista del Sistema) sarà quello di consumare la produzione di merci-spazzatura sul cui mercato si regge la condizione privilegiata degli altri.
Per alcuni di questi ultimi rimarrà tuttavia un po’ di lavoro da fare “a beneficio” della massa: dedicare ancora parte del proprio “impegno culturale” nel convincerla a continuare a credere che stiamo vivendo una condizione di benessere e di progresso.
(Niente paura: come già si è fatto con gli attori di alcuni film, anche presentatori televisivi, giornalisti e politici da talk show potranno presto essere resi virtualmente. Chissà che qualcuno non ci stia già lavorando: la differenza non si vedrebbe di certo)

Dialogo interculturale

Trovo che l’intento della proposta di un dialogo tra le diverse culture sia lodevole, ma propongo un dubbio: non sarà che il problema e’ che, prima che riescano sinceramente a dialogare e riconoscersi reciprocamente, le culture intanto siano scomparse? Esistono ancora le culture? E per quanto ancora? Sono, questo nostro modo di vivere e le sue espressioni, una cultura?
Intendo cultura in senso etno-antropologico, non solo l’insieme delle varie espressioni artistiche, musicali, dell’abbigliamento, del modo di preparare e consumare il cibo ecc…., ma soprattutto l’essere, queste cose tutte insieme, intessute in una visione del mondo, in un sentimento del mondo inclusivo dell’insieme sociale, radicato in un modo di vita – quello concreto, reale, in cui effettivamente si vive – in cui i vari membri di una società, come tali, complessivamente si riconoscono.
Se penso che queste sono sempre state le caratteristiche delle culture dei popoli cosiddetti “altri” (con un eufemismo di moda che vorrebbe forse essere neutro, ma che e’ palesemente culturalmente autoreferenziato) - che sarebbe forse meglio dire tradizionali - ho forti difficoltà a chiamare la nostra una cultura.
Se penso che i molteplici tratti di ogni cultura tradizionale sono (erano?) radicati in una determinata forma economica di produzione/consumo e in un determinato rapporto con l’ambiente naturale comuni a più o meno tutte le persone di una comunità. Che tali modelli economici facevano sì che tutti si sentissero di condividere necessità, speranze e problemi simili. Che la comunanza nelle forme della pratica e delle idee costituiva la base per il senso di appartenenza ad un determinato tipo di soluzione all’”enigma” dell’esistere, del vivere, ovvero ad una identità culturale,….ho forti difficoltà a chiamare la nostra una cultura.
Noi, dalla ricerca della soluzione dei nostri problemi, anziché accomunati, siamo divisi: ognuno per se’ dato che in fondo non si tratta in realta’, il piu’ delle volte, di risolvere veri problemi, ma di ottenere superfluo da aggiungere al superfluo. Precisamente cio’ che chiamiamo sviluppo e che fa si’ che non ci sia aspetto della nostra vita che non sia in modo piu’ o meno diretto o evidente strettamente legato al denaro. E questo piu’ che mai vale per le espressioni piu’ convenzionalmente culturali: qualsiasi tipo di espressione e’ lecito, non ci sono tabu’ di sorta che potrebbero essere infranti. Tranne il fatto che bisogna che ci sia un’audience ovvero che quella data forma di “cultura”, per quanto trasgressiva, antinomica, e per quanto “deviante”, sia vendibile (o che qualcosa di vendibile gli si possa abbinare, almeno, come nella pubblicita’), altrimenti non trova il modo di comunicare, e chi non comunica non esiste, pare (….forse perche’ non e’ consumabile).
E questo denaro che e’ l’elemento regolatore del nostro sistema non e’ certo la merce di scambio del mercato della piazza che passa di mano in mano tra i prodotti delle stesse mani. Niente affatto: non e’ altro che una convenzione in cifre quantomai immateriale, quantomai neutra, uguale identica per tutti (salvo il fatto di poterlo avere o meno).
Al punto che il rapporto si ribalta: davanti a questo tutt’altro tipo di mercato siamo tutti noi ad essere indifferenti, indistinguibili dal punto di vista del denaro. Lontani, nel nostro ruolo di comuni consumatori, dai meccanismi che regolano i suoi flussi quanto e’ lontana l’origine del cibo preconfezionato che compriamo gia’ pronto dal modo in cui passiamo la nostra quotidiana giornata lavorativa nel guadagnarci i soldi per comprarlo.
E’ per questa distanza e per questa indifferenza, questa mancanza di radici (per atrofizzazione, non perche’ non ce ne fossero), che non credo possiamo chiamare la nostra attuale moderna occidentale una cultura : sistema credo sia la parola adatta.
Nel confronto con altre culture, ci possiamo anche presentare come quella che le ha conosciute e studiate tutte, che sa ridefinire se’ stessa di volta in volta come positiva, razionale, laica, democratica, attenta ai diritti umani ( qualche volta verrebbe anche da ridere), in rapporto alle altre. Possiamo illuderci di avere di una certa imparzialita’ paritaria in questa ridefinizione. Possiamo ritenere di presentarci come il modello al quale le altre culture stanno tendendo ad assomigliare (rischiando di venir travolte in quanto tali da una tale tensione).
Ma se all’incontro volessimo approcciarci onestamente, credo dovremmo trovare la misura di una realistica umilta’: che vada anche un po’ oltre il livello paritario, almeno dove possiamo riconoscere di aver perso qualcosa per strada ed aver qualcosa da imparare : l’umilta’ dovuta a chi, per quanto imponente, si riconosce ormai ridotto a sistema e sa di trovarsi davanti a chi e’, con tutte le imperfezioni del caso, ancora, e forse per poco, una cultura.