martedì 16 giugno 2009

Stato di Emergenza

Nel tempo che ci separa dagli anni Settanta - periodo forse anche pieno di facili semplificazioni ed insufficienze, ma in cui ancora era diffusa l’idea di poter e voler cambiare qualcosa ed il saper pagare un prezzo per questo - molte cose sono successe. Alcune di queste sembravano una contingenza momentanea, ma in seguito hanno preso forma in pianta stabile come colonne (o stampelle?) portanti del sistema in cui viviamo.
Una di queste è certamente la presunzione di trovarsi in uno stato di emergenza, ovvero in una fase, data per momentanea, transitoria ( - certo, forse per un dato tipo di emergenza, salvo che poi ce n’è sempre subito un’altra) in cui si presenta il concreto rischio di perdere ciò che abbiamo (o che crediamo di avere) e che dobbiamo difendere a qualsiasi costo: in cui la difesa di ciò diventa la priorità del momento rispetto alla quale tutto il resto deve passare in secondo piano.
Al termine degli anni ’70 questo ha permesso la stretta repressiva, il controllo sociale e poliziesco, il luogo comune e la facile etichettatura nell’informazione che hanno facilitato l’equiparazione di qualsiasi movimento di lotta radicale con i terroristi e chi li sosteneva: la democrazia era in pericolo e perciò si poteva accettare il divieto di quasi ogni forma di manifestazione di piazza e di opposizione socio-politica in genere se non compatibile con l’oligarchia partitica i cui traffici vennero parzialmente alla luce una dozzina di anni dopo con Mani Pulite. Fino a quel momento si poté bellamente campare di rendita sull’onda lunga dell’emergenza post-terroristica: nel frattempo, falciati via i più irrecuperabili tra eroina, galera e varie emarginazioni, ci si poteva godere il rilassamento di ciò che si è chiamato il periodo del riflusso, durante il quale ha trovato spazio quella superficialità, quella dozzinalità, quell’edonismo/narcisismo da quattro soldi che oggi si chiama nazional-popolare e che è il panem et circenses col quale Berlusconi ha preparato il substrato su cui far crescere la propria ascesa politica e che è il danno di gran lunga più pesante e purtroppo più a lungo destinato a durare che questo personaggio ha potuto fare all’Italia. Danno dalle molteplici conseguenze iniziato appunto negli anni ’80 quando Mediaset ha trovato campo libero per instaurare quella che oggi (che si è estesa ben oltre i limiti delle attività di quell’azienda), con una certa pena, bisogna riconoscere come l’attuale egemonia (pseudo)culturale in Italia.
Da Mani Pulite ad oggi gli specchietti per le allodole delle “momentanee priorità” ci tirano tra due emergenze: da un lato il rischio di perdere ricchezza, privilegi e sicurezza propri dell’Occidente - in un primo tempo a causa del trito e fantomatico pericolo rappresentato dai “comunisti” (chi li ha visti?) ed oggi dalla presenza degli extracomunitari (almeno, questi ci sono) – e dall’altro quello di perdere “la Democrazia” (una di quelle parole che tanto più vengono ripetute quanto meno sono limpide nel loro significato e meno sono presenti e vitali le cose che dovrebbero esprimere ) - essendo l’esistenza stessa di Berlusconi un’emergenza in sé, che giustificherebbe ampiamente ogni otturazione di naso ed ogni accettazione obtorto collo del “meno peggio” pur di appoggiare chi gli si oppone (che finisce così per campare di rendita e nemmeno opporsi più efficacemente).

Anche uscendo dalle asfittiche mura di casa nostra possiamo vedere come, pochi anni dopo la fine dell’emergenza comportata dalla Guerra Fredda, siamo passati prima per quella degli “Stati canaglia” e del dittatore sanguinario (e precedentemente foraggiato) Saddam Hussein, per poi approdare, dall’11 settembre in poi, alla guerra permanente, contrabbandata sotto altre definizioni, ed esportata (insieme alle armi e alla “democrazia”) ora qua ora là, contro il terrorismo…. anzi, il Terrorismo.
Certo - pur senza addentrarci in dietrologie difficilmente dimostrabili e di cui altri hanno saputo argomentare meglio di me - dal punto di vista degli interessi egemonici americani, in un mondo in cui la Russia recupera forza ed orgoglio, la Cina avanza a passi da gigante, l’India e il Brasile anche le stanno dietro bene e l’Europa si distacca alla chetichella, l’11 settembre, se non c’era, bisognava proprio inventarlo – visto che, con un’economia mondiale stagnante ed un indebitamento oltre misura (in buona parte proprio verso la Cina), agli USA rimane essenzialmente la superiorità militare ed il ruolo di autonominatosi ed insostituibile poliziotto globale a giustificare e garantire il mantenimento del proprio dominio internazionale e dello standard di consumi che questo gli permette (ora c’è Obama e vedremo, ma non dimentichiamoci che le cose stanno ancora così).

Adesso è arrivata la Crisi economica: un grande pericolo che avanza e ci soffia sul collo minacciando….. cosa? A ben vedere di farci ridimensionare il nostro esagerato tenore di vita e portarci ad uno stile più sobrio e sostenibile per il pianeta, uno stile che ci potrebbe evitare problemi ben più gravi in un futuro abbastanza prossimo.
Ma noi non abbiamo tempo per guardare a questa prossimità: dobbiamo pensare all’emergenza di turno, che questa volta è veramente grande, è mondiale, ci può togliere stipendio e lavoro se dovesse peggiorare. Può togliere il futuro ai nostri figli – quelli che non stiamo più facendo o quelli il cui futuro stiamo già gravemente ipotecando altrimenti. Questa emergenza è di grande portata e potrebbe essere anche di lunga durata, magari potrebbe diventare permanente…. come la guerra al Terrorismo.
Tutto sommato somiglia un po’ all’11 settembre: non che non sia reale e non che non colpisca duramente, ma anche questa, in un certo senso, se non c’era…. bisognava inventarla.

Negli anni ’70 si diceva “la crisi è strutturale”. Si intendeva che il capitalismo è destinato a crollare come sistema a causa delle contraddizioni interne che porta con sé e nella società. Certo, probabilmente finirà così e forse anche più prima che poi. Però, nel frattempo, la crisi potrebbe diventare un elemento strutturale anche nel senso di una ulteriore stampella ormai permanentemente necessaria per evitare che ci si rivolga ad altre strade; che il disagio crescente e la ristrettezza dei margini ridistribuibili di profitto producano dubbio e sfiducia (e con essi la possibilità di vedere le cose da un punto di vista differente, di immaginare delle alternative); che questa sfiducia giunga a diffondersi in strati sociali diversi da quelli tradizionalmente emarginati. Non si deve dimenticare, in fondo, che il “Socialismo reale” – l’altro polo “postbellico” al quale il Capitalismo è finora sopravvissuto – non è crollato in seguito ad uno scontro militare, né a vere rivoluzioni interne, né alla pianificazione di progetti alternativi di società, ma si è sfaldato da sé nel momento in cui grandi settori della popolazione gli hanno sottratto nei fatti il loro sostegno e si sono rivolti ad altri sistemi di vita e di economia a partire direttamente (ed informalmente) dalle loro proprie vite.
Al sistema capitalista-consumistico oggi serve stringere le fila in vista di una tornata di contraddizioni esplosive, servono compattezza ed efficienza: la globalizzazione del consumo ha globalizzato anche la concorrenza ed i suoi attori, ha ristretto i margini di profitto e soprattutto la possibilità di usarne una parte per mantenere la gente in condizione di svolgere il proprio ruolo essenziale di consumatori. Così, all’interno di ogni nazione (o insieme sovranazionale) serve compattezza ed efficienza per vincere (o sopravvivere) nella concorrenza globale, mentre le stesse compattezza ed efficienza sono funzionali a chi agisce a livello multinazionale quali che siano gli esiti a livello locale. Tutto il sistema complessivamente (come pure ognuno dei suoi elementi) accelera ed è sempre più affamato di risorse mentre funziona in modo da dover costantemente crescere, ma (in una pluralità di agenti e nei limiti oggettivi naturali del pianeta) vede, al tempo stesso, restringersi i margini che possano alimentare questa crescita. C’è inoltre una triplice contraddizione tra le possibilità di sfruttamento dei lavoratori, la giustificazione democratica dell’intero sistema sul piano ideale/culturale (nonché, all’occorrenza, militare) e la necessità imprescindibile della crescita progressiva dei consumi delle masse per i quali queste devono avere comunque disponibilità finanziarie sufficienti. In quest’epoca democratica, ma di gigantismi e concentrazioni di potere, un sistema per essere vincente deve mantenere l’egemonia su vari piani contemporaneamente, in primo luogo quello economico e quello psicologico-culturale, perché il potere oggi non può sostenersi che con il consenso di chi lo subisce: ha bisogno della paura, ma non esercitando una pressione repressiva che crei una frattura tra il sistema e la sua base. Questa frattura è invece così ben cancellata che non sapremmo dire di chi potrebbe essere questa faccia repressiva se mai si mostrasse. La paura che ci tiene attaccati è di perdere qualcosa con cui ci identifichiamo. E’ la nostra idea di noi stessi che ci viene garantita da qualcos’altro a cui pensiamo di non poter rinunciare. Il problema va ben oltre il piano politico, ben oltre l’identificazione di un “nemico” da abbattere, il sistema non è altro da chi lo subisce, per questo la locomotiva impazzita corre così bene anche senza un macchinista.

L’edificio, tutto sommato, tiene ancora abbastanza, ma si sentono alcuni scricchiolii, alcuni granelli di sabbia si ritrovano negli ingranaggi. No, non i gruppi sovversivi o le sempre più frequenti esplosioni di rabbia da parte di quella porzione di società che il sistema strutturalmente non può includere – queste sono cose fisiologiche, già messe in conto (semmai ci si fa un’appendice di G8 ad hoc sulla sicurezza). Si tratta piuttosto di qualcosa che viene da chi ancora sta dentro al sistema, ma non se ne sente più garantito: di crescente astensionismo elettorale (che potrebbe di per sé anche tornare utile, ma anche preludere ad ulteriori dissociazioni), di distacco dalle istituzioni, di dubbio rispetto a “valori” proclamati e non praticati, di sfiducia nell’andamento dei mercati. Si tratta di stanchezza verso ritmi di vita e di lavoro troppo accelerati e competitivi, di certezze e garanzie che non ci sono più, di sfiducia verso gratificazioni e risultati che non arrivano e forse non arriveranno, di delusione per sogni che brillano in tv, ma non così poi nella realtà. Preoccupazioni di chi inizia a domandarsi se non si potrebbe forse fare diversamente, allentare un po’ i ritmi, pensare un po’ ad una diversa qualità della vita. Qualcuno si pone domande su un futuro che va oltre le prossime rate da pagare. Mentre qualcun’altro di rate da pagare ne ha già troppe e non ce la fa. E c’è chi si chiede che senso abbia tutto questo e magari pensa che, visto che ci siamo sviluppati abbastanza, e proseguire così è pericoloso e ci sono pure altri al mondo che comunque un po’ di più si vorranno anche loro “sviluppare”, forse potremmo permetterci il lusso di diminuire un pochino, di decrescere, di lasciar finalmente spazio e tempo alla qualità piuttosto che alla quantità ed alla qualità di un ben-essere, di beni non (solo)economici, non commerciabili, non monetizzabili. Chi si pone queste domande non sta guardando indietro, se non per trovare fonti d’ispirazione, esempi di casi concreti, modelli che hanno funzionato su cui riflettere. Al contrario della mancanza di realismo di cui potrebbe essere accusato, costui è più di altri consapevole del valore e del prezzo (pagato non solo da noi che ne beneficiamo) della strada che ci ha portato fino a qui, solo che lo vede come un punto dal quale andare oltre, molto oltre, verso qualcosa che sia di beneficio per tutti e per tutto e non come qualcosa da tenersi stretto e da difendere ad ogni costo per portarlo con sé nella tomba senza voler sentire ragioni.

Allora, quando ci si comincia a porre troppe domande – quando diventano sempre più evidenti le ragioni di porsele e sempre più persone avrebbero la preparazione sufficiente per farlo - diventa utile che un po’ di paura accompagni costantemente i nostri ragionamenti e li tenga entro i limiti della cosiddetta “ realtà”: ché non si allontanino troppo. Forse la minaccia della Crisi, di perdere ciò che si ha (per chi è più giovane, ciò che si è sempre avuto, e che costituisce l’unico tipo di vita che si conosce) è un buon deus ex machina perché tutti continuino a fare la propria parte, di produttori, di consumatori, perché tutti si identifichino col sistema, senza troppi dubbi. Se l’adesione dei cittadini al sistema sociale non tiene più sulla base della convinzione, di un’identità, di regole ed istituzioni condivise, di un’idea in positivo, una visione del mondo e della Storia, che lo faccia allora su quella della paura e dell’interesse a non perdere ciò che si ha.
Che lo faccia dunque su questa base, povera e negativa, nell’era della ricchezza.

La gente oggi deve capire che nell’atto di comprare e (forse ancor più) in quello di buttare per ricomprare ancora non c’è solo un ovvio aspetto di piacere nell’acquisire qualcosa di nuovo e di simbolicamente significativo, ma ce n’è anche un altro di dovere, di fare la propria parte o, se la si vuol mettere diversamente, di realismo, di interesse personale nel tenere in piedi “la baracca”– che è poi ciò che ognuno ha in comune con gli altri, in una sorta di solidarietà nell’egoismo (che può anche funzionare, fino a che tutto gira comunque abbastanza bene e le vacche son ancora grasse, ma non credo altrettanto in caso contrario).
Si ripropone ancora una volta la solita formula, secondo la quale, per risolvere i problemi causati dallo sviluppo, ci vuole più sviluppo, per quelli del mercato, più mercato, per quelli della tecnologia, più tecnologia…ecc… Non è tempo di scantonare, dunque, ma di concentrarsi sul continuare a camminare (o correre) in avanti, rimandando ad oltranza il momento di chiedersi perché e verso dove si stia andando.
Dev’esser chiaro a tutti che i consumi vanno mantenuti, ed anzi rilanciati, aumentati. Che non venisse in mente a nessuno di diminuirli. Ché nella stessa barca consumistico-tecnologica ci stiamo dentro tutti, nessuno si faccia illusioni di chiamarsi fuori e se questa affonda ci affoghiamo tutti insieme…. ché ormai qui le braccia per nuotare non le sa usare più nessuno.
In altre parole, se qualcuno non capisce l’importanza del consumare agli attuali e crescenti livelli con le (ragioni) buone, deve capirlo con le cattive. Certamente, non lo si può costringere a comprare ciò che, tutto sommato, non gli serve (almeno, a questo non siamo ancora arrivati, se non per una vasta serie di attrezzature e ristrutturazioni obbligatorie per la “messa a norma” , spesso di discutibile necessità, delle varie attività produttive e non). Ma gli si può sempre (anche nel senso di in ogni momento, in ogni TG ecc…) paventare la minaccia – che par venire da null’altro se non l’impersonale ed oggettiva realtà dei fatti e non da qualcuno che la imponga – che le cose potrebbero prendere una piega molto preoccupante se a troppe persone - più che a qualche pazzo marginale - venisse in mente che è arrivato il momento di abbandonare la barca comune dello Sviluppo che ci ha portati fino a qui (trasformatasi ormai in un vicolo cieco) e rendergli il migliore omaggio possibile lasciandocela dietro per imboccare una strada molto diversa, perfino antitetica, ma più sana, sostenibile e capace di futuro. Una strada che ora ci possiamo permettere, anche grazie a quella barca – questo non c’è bisogno di negarlo: non vuol dire ritenere “giusto” ciò che lo sviluppo ha comportato, ma semplicemente riconoscere che le cose sono andate così, che svolgono un loro percorso e che ogni cosa ha sempre diversi lati da cui può esser vista. Ma non per questo dobbiamo continuare sulla stessa via.
Il percorso delle cose non necessariamente segue una linea dritta – anzi, quasi mai. Il momento delle svolte arriva e bisogna saperlo cogliere in tempo. Le cose ce lo indicano quel momento, ma la paura può nasconderci l’evidenza e può spingerci ad identificarci con ciò che ci è dannoso e che è fonte di illusione.

Un’identificazione in cui è facile cadere, non solo per il fatto basilare che questo sistema in crisi è l’ambiente economico che ci circonda e che pervade in mille modi le nostre vite, ma anche perché le notizie e previsioni che su questa crisi possiamo avere hanno un andamento ambivalente: aspetti e fasi ora minacciose ora rassicuranti. Non c’è solo la paura: c’è anche la speranza; ora si affaccia la deflazione, ora invece sembra esserci una certa ripresa, magari non tale da avvertirsi sull’occupazione e sui prezzi, ma che permette agli economisti di presumere un qualche punto percentuale in più a partire dall’anno prossimo…. salvo che poi i calcoli potrebbero dover esser rivisti al ribasso…..ecc..ecc.. Non so: io non ho le conoscenze di “scienze” economiche sufficienti per immaginare cosa effettivamente potrebbe accadere neanche da qui a un anno. Ma il punto è che la stragrande maggioranza delle persone (e temo - seppure a un altro livello – anche degli stessi economisti) non lo sanno, né hanno gli elementi per saperlo. E neppure cosa davvero stia accadendo ora.
In ogni caso, tranne che quando il tracollo non sarà divenuto manifesto, c’è da aspettarsi che le notizie saranno sempre altalenanti, perché sarebbe troppo pericoloso il diffondersi di un pessimismo finanziario e di una depressione consumistica. La minaccia della Crisi non ha solo la funzione di previsione di qualcosa che ha più o meno probabilità concrete di accadere, ma ha precisamente quella di minaccia. La minaccia permanente, alternativamente accompagnata da momenti di speranza di segno opposto, così come il sistema pedagogico del bastone e la carota, hanno proprio l’effetto di alimentare attaccamento ed identificazione in qualcosa da cui altrimenti si potrebbe sentir ormai maturo il tempo per distaccarsi, emanciparsi. Si potrebbe pensare di esser diventati “grandi” e poter finalmente guardare a sé stessi, a ciò che veramente è la propria reale esperienza vissuta e alla realtà. Invece dobbiamo ancora restare bambini e credere alle favole.
Ma di che favola si sta parlando?
Il punto non è se la Crisi sia vera o no (ho già detto che non avrei la competenza per discutere questo), né mi interessa più di tanto analizzare in che misura può o meno trattarsi di una di quelle campagne cosiddette d’informazione orchestrate ad arte. Per chi veramente è in grado di liberare la propria vita non è sempre così necessario individuare un oppressore. Il fatto sostanziale è che la paura di perdere una condizione materiale (un livello di consumi) che viene ritenuta l’unica degna di esser vissuta e il desiderio (necessariamente insoddisfabile) di avere sempre di più e d’altro sono (insieme) elementi strutturalmente portanti del lato interno/vissuto di questo sistema e di questo modello di società.
Del resto, più si ha e più si ha paura di perdere ciò che si ha; più si accede ai livelli privilegiati ed “esclusivi” della società e più si teme di non apparirne all’altezza o di sfigurare in un qualche confronto con chi sta più “su”. Per questa strada incentrata sull’avere (che dovrebbe portare in teoria ad essere più liberi e felici) si diventa nei fatti più dolorosamente dipendenti in quanto è proprio quando sentiamo il rischio di star per perdere una cosa a cui siamo abituati che la sentiamo più necessaria. Magari qualcosa che altrimenti potremmo dare per scontata e, pian piano, perfino pensare di poterne fare a meno, superarla, specialmente se questa ci creasse pure dei gravi problemi e non ci facesse, in realtà, davvero sentire a nostro agio.
E’ un po’ come se, diventati dipendenti da un farmaco palliativo da prendere a vita, ne accettassimo i pesantissimi effetti collaterali anziché cercare un’alternativa meno impattante (o magari anche la salute) perché la notizia che questo farmaco sta diventando scarso, che le riserve stanno diminuendo, ci spaventasse a tal punto da impedirci di considerare ogni altra possibilità.

Così la paura delle conseguenze di una crisi economica profonda può far sì che molte persone si identifichino col sistema, nel proprio stile di vita e in quelli che ritengono i propri interessi, anche se ne danno un giudizio sostanzialmente negativo, subendo la pretesa necessità di sostenerlo nei fatti, anche se non nelle parole. Ma questa identificazione avviene essenzialmente solo in un’ottica passiva: così da non vedere quanto davvero siano la stessa cosa, quanto davvero stia nelle loro mani il crearlo e ricrearlo ogni giorno, come parti dei suoi meccanismi. Quanto, in realtà, questa emergenza e questo pericolo che il nostro “tutto” (ma cosa poi, esattamente?) possa andar perduto siano tali solo nella nostra testa e in quella di chi non sa immaginare altre forme di vita, né vuole che altri le immaginino, agitando così lo spauracchio di una crisi che c’è – nessuno lo nega – ma che, se non ci fosse, bisognerebbe, appunto, inventarla. Proprio per le buone opportunità che può dare a chi ha interesse a mantenere in vita questo sistema.

Come anche le dà – d’altra parte – a chi volesse cogliere delle buone ragioni per abbandonarlo, superarlo, e costruire fin da ora (quale che sarà l’esito di questa paventata Crisi) forme di vita ed economia diverse basate su ciò che veramente abbiamo, come esseri umani, e non sulle molte illusioni che ci sono sempre state vendute.

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