domenica 31 ottobre 2010

Decrescita, contadini e vegetarianesimo - Uno scambio di opinioni con Filippo Schillaci del Movimento per la Decrescita Felice

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Vorrei rispondere al testo (http://new.decrescitafelice.it/content/un-gruppo-di-lavoro-sulla-transizione-agroalimentare-prima-parte - e seguenti) recentemente apparso sul sito del Movimento per la Decrescita Felice sulla formazione di un gruppo di lavoro sulla transizione alimentare. Non so se si tratta di una base per l’avviamento di un dibattito o se di una posizione già presa e definitiva da parte del MDF. Ad ogni modo voglio esprimere alcune perplessità che mi sono sorte leggendolo, sebbene sulla maggioranza delle cose che vi sono espresse mi trovi sostanzialmente d’accordo.

Mi domando se la Decrescita debba essere un movimento per soli vegetariani, se il tipo di argomenti alla base di una scelta vegetariana siano quelli peculiari della prospettiva decrescente o se invece questa non riguardi essenzialmente un approccio ai modelli economici dotato di un senso della misura che possa ridimensionare tutte le attività umane fino a riportarle a proporzioni sostenibili dagli ecosistemi e che si manifesti altrettanto come un buon-senso comprensibile da molti, evitando posizioni estreme e riuscendo ad aggregare consenso politico.

A dire il vero sono stato vegetariano anch’io, per tre anni, dai 16 ai 19, e considero l’opzione vegetariana una scelta personale nobile e meritevole. Ho smesso, però, quando sono venuto a vivere in campagna: ho trovato che anche l’allevamento e l’uccisione per alimentazione di altri animali rientra nell’insieme del funzionamento della Natura e nel sistema economico contadino (proprio nel senso di ecos-nomia, del rapporto con e gestione de l’ambiente ecosistemico di cui si fa parte secondo le sue proprie leggi). In natura gli esseri, nella misura del necessario, si uccidono tra di loro. In natura il conflitto ed anche la sopraffazione sono elementi della realtà; e lo sono sempre stati anche della realtà umana, che ci piaccia o no. Temo sia impossibile, purtroppo, immaginare un mondo dove questo non esista. Già sperare che si facciano strada le indicazioni per una riconversione decrescente del mondo sembra molto ottimista, ma addirittura puntare al giardino dell’Eden, mi pare un po’ troppo. Migliaia di specie animali si estinguerebbero se tutte dovessero essere vegetariane, moltissime civiltà e culture umane tradizionali (come ad esempio i Mongoli, gli Eschimesi, i Masai…. ) dovrebbero scomparire. Perfino nella lunga storia di una civiltà come quella indiana ci sono stati passaggi cruenti, non privi di vittime, senza i quali essa non avrebbe raggiunto quel livello di benessere tale da potersi permettere di produrre filosofie di non violenza come quella vegetariana. Non riesco ad immaginare bande di primi esseri umani vegetariane: penso piuttosto che mangiassero quel che potevano secondo ciò che, senza troppo sforzo né troppo rischio (laddove possibile) l’ecosistema gli offriva.
Capisco che possa sembrare antropocentrica la posizione di chi si arroga il diritto in quanto umano di uccidere altri animali per mangiarseli, ma non si tratta di un “diritto”: non c’è qualcosa come “i diritti” in natura (e anche tra gli umani la capacità di farne valere dipende in genere dai rapporti di forza). Si tratta di un fatto, un fatto tra i più comuni da che mondo è mondo. L’idea di poter rendere questo mondo pulito da ogni traccia di violenza, conflitto, sopraffazione, di renderlo “migliore”, ad immagine e somiglianza di ciò che ci appare “giusto”: forse proprio questo è antropocentrismo.

Il fatto di essere umani non ci esime da quello di essere animali umani, parte della Natura e funzionanti secondo le sue leggi.
Gli strumenti di comprensione, di saggezza, di autocontrollo che abbiamo come specie umana possono permetterci certamente di ridurre al minimo possibile le occasioni di conflitto, di trovare nella stragrande maggioranza – auspicabilmente nella quasi totalità - dei casi alternative alla violenza ed alla sopraffazione. Non di abolirle dalla realtà. In ultima analisi noi la realtà (e per realtà intendo la Natura) non possiamo “migliorarla”, ma solo comprenderla ed imparare sempre più profondamente il modo migliore (dal punto di vista più ampio possibile) di muoverci dentro ad essa così com’è.
Credo che, se la Decrescita vuole essere una visione veramente eco-centrica, dovrebbe sapersi differenziare da molti approcci ambientalisti-protezionisti che vedono la natura come “altro dall’uomo” - per quanto in positivo – e concepirla piuttosto come ecosistema del quale siamo parte: se vogliamo vedere le cose dal punto di vista ecosistemico, dobbiamo farlo in termini di equilibri ecosistemici, dinamici e funzionanti secondo linee che sono proprie del sistema naturale nel suo complesso e non di un punto di vista umano che su di esso si proietta.
Faccio l’esempio di una polemica che c’è stata in Francia tra José Bové e gli animalisti a causa del fatto che il famoso contadino altermondialista si è espresso a favore dell’autodifesa dei pastori contro i lupi che gli uccidevano le bestie e delle loro ragioni per sparargli per ridurne il numero. Se vogliamo vedere le cose nel senso della difesa della vita (specialmente di una specie selvatica ed affascinante) “senza se e senza ma” possiamo prendere le parti del lupo (peraltro infischiandocene delle pecore – oppure rifiutando il fatto stesso che queste debbano essere allevate per trarne alimenti). Ma, se vediamo la cosa in modo più ampio ed ecosistemico, è certamente un bene se sempre più persone possono vivere come pastori e contadini, autoproducendosi sostentamento e reddito secondo un’economia integrata con la Natura, anche ripopolando terre marginali e montane dove poco altro che l’allevamento può dare di che vivere. Se molte, moltissime persone, potessero sottrarre, col proprio destino economico-lavorativo, il sostegno ad un sistema industriale-consumistico globalmente distruttivo trovando un modo di vivere integrato con la Natura (per esempio) con le pecore in montagna, dal punto di vista dell’insieme dell’ecosistema, questo avrebbe certamente più rilevanza di qualche schioppettata tirata a qualche lupo di troppo.
Chiedo scusa della brutalità, ma a volte sembra di incorrere in una sorta di “ambientalismo da cittadini” che può anche essere lodevole nelle intenzioni, ma che è spesso carente nel sapersi mettere dal punto di vista dell’insieme ecosistemico naturale così com’è, come funziona, al di là di come ci piacerebbe a noi.

Allora, anche nel caso dell’alimentazione carni/pescivora, credo che il punto da inserire in un programma politico da proporre (anche solo come prospettiva di lungo termine) alla società sia riguardo al modo in cui avvengono queste “produzioni” e alla misura di questo tipo di “consumi” (per usare parole già brutte e a maggior ragione in questo caso in cui parliamo di esseri viventi), non puntare alla loro abolizione assoluta – scelta nobilissima che direi appartiene, però, al senso etico individuale, il quale si trova su un piano diverso.
Come è riconosciuto già nel testo, occorre unire all’utopia una misura di realismo, altrimenti si rischia di far discorsi improponibili in termini di proposta politica – se è questo di cui stiamo parlando. E la convinzione sulle ragioni del vegetarianesimo in quanto tale, a me onestamente non sembra sia molto diffusa nel nostro paese, né radicata nella nostra storia e nella nostra cultura. Ma soprattutto mi sembra che le posizioni vegetariane (o meglio vegetarianiste) coinvolgano argomentazioni e considerazioni estranee o almeno non necessarie al discorso complessivo della Decrescita.
Ciò che invece in tale contesto è certamente ineludibile è una critica radicale alle modalità di produzione del cibo di origine animale e alle proporzioni del suo consumo nelle società sviluppate. Questo è un discorso sacrosanto, ma è altro dalla scelta vegetariana tout-court.

Non c’è mai stato un mondo con un’umanità vegetariana, per cui non possiamo sapere quali conseguenze produrrebbe sugli equilibri biologici planetari. Ciò che sappiamo per certo, invece, è che, nella storia del mondo, le società degli attuali paesi ricchi ed emergenti con i loro livelli di consumo di carne e pesce sono una insostenibile anomalia. Nella dieta della generalità dei popoli tradizionali (compresi quelli occidentali prima del “boom economico”) carne e pesce erano (e sono) presenti, ma né ogni giorno, né – per molti – ogni settimana. E normalmente l’uso non è di mangiare un’intera bistecca o un intero pesce a testa, ma pezzetti dell’uno o dell’altro spesso mischiati a delle verdure. Si tratta inoltre di cibi cari e perciò usati in occasioni, se non proprio straordinarie, comunque un po’ speciali e distanziate nel tempo. Certo tutt’altra cosa rispetto ai nostri frigoriferi pieni di confezioni che in percentuale significativa vengono buttate senza neanche aprirle.

Credo che i danni alla salute ed al pianeta provocati da pesca e zootecnia siano dati dalla quantità spropositata dei loro prodotti che vengono acquistati e non dal fatto in sé che esistono persone che allevano o pescano come sempre è stato da millenni a questa parte. Il punto è che sono le tecniche e le quantità che andrebbero strettamente regolamentate e controllate: dovrebbero essere permesse solo aziende di dimensioni contenute con un numero limitato di capi i quali dovrebbero avere spazio sufficiente per pascolare, muoversi ed alimentarsi in modo naturale, fare una vita “dignitosa” per la loro specie; la pesca dovrebbe esser permessa solo ad imbarcazioni piccole dalla limitata capacità di pescato ed anche lì le tecniche dovrebbero essere regolamentate in modo da garantire un impatto facilmente sostenibile dagli ecosistemi.
In sostanza si dovrebbero recuperare le conoscenze e le tecniche tradizionali su piccola scala unendole alle facilitazioni tecnologiche a minimo impatto ed alle attuali conoscenze sul funzionamento e l’autoregolazione degli ecosistemi ed a partire da questo implementare regole del tutto nuove di allevamento e pesca. A ciò andrebbero affiancate misure per un trattamento il più possibile rispettoso ed incruento degli animali – cosa che comunque ogni allevatore che abbia motivo di essere soddisfatto del suo lavoro tende a fare spontaneamente.
Il costo ambientale delle attività di allevamento e di pesca dovrebbe essere accollato alle aziende responsabili.

Tali regole renderebbero zootecnia e pesca industriali impossibili e polverizzerebbero la produzione su un gran numero di aziende piccolissime a livello familiare o poco più. Aziende contadine. I volumi complessivi di produzione si ridurrebbero notevolmente e la qualità aumenterebbe senza paragone, mentre ciò creerebbe anche posti di lavoro dato l’aumento di manodopera necessaria con questo tipo di tecniche; ma senza che questo comporti investimenti eccessivi per avviare un’attività in questo campo trattandosi in questo modo di produzioni a basso impiego tecnologico e forte valore aggiunto di lavoro umano e competenze.
Ovviamente il prezzo della carne e del pesce aumenterebbe notevolmente. Questi prodotti tornerebbero ad essere per le occasioni speciali (ora, senza esagerare: ragionevolmente potrebbe essere un pasto da una volta o due a settimana per una famiglia media) e la qualità diventerebbe un requisito indispensabile. Questo, insieme alla diffusione capillare di aziende piccolissime, agirebbe in controtendenza all’accentramento della distribuzione e favorirebbe il rapporto diretto produttore-consumatore con la conseguenza collaterale di un contatto più diretto con le realtà dove nascono i prodotti e più in generale di un cambiamento culturale.

Si tratta, in buona sostanza, di una riconversione della produzione del cibo – ed ora non mi riferisco più solo a carne e pesce, ma a tutto il cibo – da un modello industriale ad un modello non agricolo-imprenditoriale, ma contadino.
Alcune caratteristiche distintive del modo contadino del fare agricoltura sono:
- l’essere diretto al maggior valore aggiunto possibile,
- la generazione di reddito in maniera indipendente usando, quanto più possibile, risorse autocreate ed autogestite,
- il produrre a partire da una base di risorse limitata di cui dunque deve essere conservata la qualità/salute biologica e che deve essere utilizzata con metodi ingegnosi ed autonomi che tengano conto degli effetti a lungo termine,
- l’avere limiti di sviluppo possibile già contenuti nella misura della base di risorse disponibili,
- l’essere un’agricoltura intensiva e non estensiva ed una produzione rivolta ad una varietà di prodotti diversi,
- il partire da una base di risorse integrata (non divisa in elementi contraddittori come lavoro e capitale o lavoro manuale ed intellettuale…) in cui le risorse materiali e sociali disponibili rappresentano un’unità organica e sono possedute e controllate da chi è direttamente coinvolto nel processo lavorativo,
- la centralità del lavoro e della qualità/cura delle risorse/mezzi di produzione insieme all’inventiva per migliorarle con i mezzi limitati a disposizione,
- il trattarsi di una produzione solo parzialmente rivolta al mercato ovvero, in termini “decrescenti”, di beni che solo in parte sono destinati a diventare anche merci,
- il rivolgersi ad un mercato personalizzato, con un volto, a consumatori con i quali va costruito e mantenuto un rapporto di fiducia.

Nell’Italia di oggi questo modo contadino di produrre cibo è schiacciato sotto una serie di normative fiscali, igienico-sanitarie, di giurisdizione sul lavoro, legali, burocratiche ecc… ecc.. che lo rendono pressoché impossibile, sempre sull’orlo dell’essere fuorilegge e costretto a dipendere da tecnici ed associazioni di categoria che fanno soprattutto i propri interessi. Ciò è perché le normative sono concepite a misura di agricoltura industriale mentre ciò che servirebbe è uno spazio legale – e dunque regole semplificate apposite – per l’agricoltura contadina e la vendita dei suoi prodotti.
Concepire, sostenere e rendere effettiva una tale legislazione – anche in attesa di un clima culturale diverso in cui norme restrittive impediscano zootecnia e pesca distruttive – significa dare spazio di mercato a prodotti di vera qualità che una volta diffusi e facilmente disponibili potrebbero fare una dura concorrenza ai cibi industriali.

Un’altra cosa che occorre è lavorare per una maggiore informazione/consapevolezza della centralità della produzione del cibo fatta in un determinato modo non solo per la qualità di ciò che si mangia (il che già basterebbe), ma per la salvaguardia del paesaggio e del territorio, per la biodiversità, per l’occupazione, le risorse idrogeologiche ecc… ecc… Una tale consapevolezza diffusa dovrebbe far accettare a sempre più persone che il cibo prodotto in un modo (a 360°) sano va pagato per il lavoro (e le rinunce) che costa e che la gente che vive in città e non può lavorare direttamente alla sorgente della riconversione complessiva che l’agricoltura bio-contadina può realizzare dovrebbe sostenerla spostando la propria capacità di spesa dai gadget consumistici tecnologici e modaioli al cibo di qualità - e magari a qualche gita per vedere le mille piccole aziende dalle quali nasce oggi del buon cibo e potrebbe rinascere domani un mondo più sano.



Risposta di Filippo Schillaci (autore firmatario del testo citato)

Nel rispondere vorrei fare alcune premesse. Innanzi tutto, il testo di Cabras tocca per almeno due terzi della sua lunghezza, temi distanti da quello su cui è concentrato il nostro lavoro: la sostenibilità ambientale dell’alimentazione. Le considerazioni a esso più pertinenti sono dunque quelle che si pongono sui due piani pragmatico e tecnico. Quelle, per così dire, filosofiche sono estranee alle tematiche che il nostro gruppo affronterà.
Aggiungo che sul piano pragmatico e nel breve periodo le mie posizioni sono molto vicine a quelle di Cabras, sul piano tecnico e nel medio periodo ne sono divergenti; sul piano filosofico e nel lungo periodo ne sono agli antipodi.

Premetto anche che credo sia il caso di non usare più termini come “vegetarianesimo” o vegetarianismo” che sanno tanto di setta religiosa o comunque di posizioni ideologiche. Non credo sia appropriato definire le mie scelte alimentari come “vegetarianesimo” più di quanto non sia appropriato, poiché ho installato sulla mia casa dei pannelli solari, parlare di “solarianesimo” o, poiché utilizzo l’acqua piovana, parlare di “pluvianesimo”. Una scelta alimentare non è un “…ismo” o un “…esimo”, è una relazione ecosistemica. Con tutte le implicazioni, anche culturali ed etiche del caso, naturalmente, ma innanzi tutto questo: una relazione funzionale fra sé e l’ecosistema di cui si è parte.

Detto ciò, comincio dal primo aspetto (pragmatico e di breve periodo). È evidentissimo che l’ipotesi di una transizione immediata dell’umanità verso un’alimentazione basata sui cibi vegetali è priva di fondamento realistico. Dobbiamo pensare piuttosto a una transizione lenta che passi attraverso fasi intermedie in cui il contributo di cibi animali sia sempre più ridotto fino a divenire residuale. Dunque lo scenario pratico proposto da Cabras nella parte finale del suo testo, se visto come fase di transizione, è esattamente quello verso cui occorre orientarsi. Il quadro generale che egli traccia inoltre è sotto ogni altro aspetto condivisibile e questa è certamente una componente positiva della sua riflessione. Purtroppo è l’unica.
Vorrei a questo punto precisare che pragmatismo non deve mai significare resa. È esatto ad esempio affermare che «la convinzione sulle ragioni del vegetarianesimo in quanto tale» non è «molto diffusa nel nostro paese, né radicata nella nostra storia e nella nostra cultura» infatti 6 milioni appena di vegetariani, di cui solo 800.000 vegani, sono appena il 10% della popolazione. Davvero pochi. Ma allo stesso modo è esatto affermare che è assente la convinzione sull’opportunità di non usare l’automobile, o sull’attuare ogni possibile accorgimento per il risparmio energetico in casa o perfino sulla corretta gestione dei rifiuti. Dunque? Rinunciamo a tutto? Non mi pare il caso.

Passiamo al secondo aspetto (tecnico e di medio periodo). Come disse Alexander von Humboldt, «uno stesso territorio può dar da vivere a un cacciatore, a dieci pastori o a cento contadini». Ora, tralasciando (speriamo) il cacciatore, e soffermandoci sul confronto pastore-contadino, dovremmo domandarci quali razionali considerazioni possono orientarci verso un modo di produrre il nostro cibo così dispendioso in termini di territorio quale è la zootecnia, sia pur praticata su scala ridottissima come lo stesso Cabras auspica. Perché scegliere un metodo produttivo dotato di un’efficienza di conversione delle proteine che è appena del 6% nei bovini e di poco più alta nelle altre specie animali? Perché fare nostra una simile cultura dello spreco? Coerentemente dovremmo accettare la legittimità di sprechi analoghi nel settore energetico, nei trasporti, nella gestione dei rifiuti e dell’acqua. Cosa resterebbe allora della cultura della Decrescita? Oppure dovremmo accettare l’incoerenza: razionali, oculati, ecosostenibili in ogni altro campo, spreconi nell’alimentazione. È autoevidente che entrambe queste alternative sono inaccettabili.

Cabras parla di destinare alla zootecnia contadina territori marginali non altrimenti destinabili. Sia pure. Ma, così come marginali sono questi territori, marginali sono questi discorsi. La realtà è che la gran parte dell’umanità vive nelle zone tropicali o temperate del pianeta, dove l’agricoltura è praticabilissima con buona produttività e l’allevamento pertanto non è necessario.

Metto a questo punto un paletto perché per quanto riguarda le tematiche pertinenti al lavoro del gruppo di MDF sull’alimentazione il discorso si pone esclusivamente in questi termini e pertanto si ferma qui. Chi è interessato a esso e solo a esso può interrompere la lettura a questo punto.
Il testo di Cabras, dicevo, allarga però enormemente l’orizzonte del discorso toccando temi ulteriori che considero prematuro affrontare ma che, essendo stati affrontati, impongono una risposta.

È riduttivo affermare che la Decrescita sia semplicemente un diverso approccio ai sistemi economici. Maurizio Pallante non perde occasione di affermare (e io concordo) che essa parte sì da una critica dell’economia dominante ma la trascende essendovi nella Decrescita implicazioni filosofiche che la rendono potenzialmente in grado di acquisire lo spessore di un nuovo rinascimento culturale. Ecco, sono proprio queste potenzialità quelle che fanno la differenza fra “un altro mondo possibile” e il classico “cambiare tutto affinché tutto resti com’era”.
Ancora Maurizio Pallante, nel rispondere a un lettore che aveva commentato un suo articolo scrisse: «quando si comincia a delineare un nuovo sistema di pensiero (…) le persone tendono a leggerlo in base ai criteri d’interpretazione fondati sul sistema di pensiero precedente e, quindi, a equivocarle».
Ecco, è questo equivoco che io vedo nelle parole di Cabras: il non concepire in termini realmente altri quell’altro mondo possibile di cui da più parti si parla per ridurlo infine a una variazione sul tema di questo stesso mondo.

Parlando di cultura contadina, dobbiamo fare attenzione infatti a distinguere fra un’attenzione analitica e critica nei confronti del patrimonio di esperienze da essa accumulate nel corso dei millenni e una mistica della civiltà contadina che si traduce in un’accettazione acritica di tutto ciò che odora di tradizione, e che è patrimonio più di correnti di pensiero come il Bioregionalismo che non della Decrescita. Questo atteggiamento pacatamente analitico risulta obbligato alla luce di qualche semplice riflessione.
È innanzi tutto irrealistico supporre che gli eventi planetari di cui siamo spettatori, protagonisti e vittime siano frutto di un’improvvisa sterzata dell’umanità, avvenuta senza preavviso in questi ultimi decenni. Non ha molto senso pensare a un’umanità che per millenni si comporta assennatamente e poi improvvisamente impazzisce e distrugge il pianeta. Noi stiamo vivendo in realtà l’esito di un processo storico plurimillenario che ebbe origine nel neolitico e si è andato evolvendo secondo un andamento analogo a quella curva esponenziale che abbiamo imparato a conoscere ai tempi dei primi studi del MIT sulla crescita: una curva che su gran parte del suo dominio cresce lentissimamente, con apparenza quieta e pacioccona, poi improvvisamente si impenna tendendo con incontrollabile rapidità, nell’astratto modo della matematica a proiettarsi verso l’infinito, nel più concreto mondo della biosfera a cozzare contro il muro dell’insostenibilità. Dico tutto ciò per chiarire come le radici di quanto stiamo vivendo oggi siano immerse proprio in certi aspetti di quella cultura contadina che troppi teorici dell’ “altro” mondo oggi osannano incondizionatamente.
È fondamentale in altre parole acquisire una visione storica di lungo periodo della genesi della società della crescita per mettersi al riparo da equivoci grossolani che possono portarci a considerare parte del nostro patrimonio culturale elementi che al contrario non ci appartengono.

Ma, si dirà, la società industriale ha distrutto la cultura contadina. Cito ancora Pallante: «Già negli anni Quaranta Schumpeter definiva “distruzione creatrice” la capacità innovativa su cui si basa la forza del capitalismo. Insomma affermava che per continuare a produrre e vendere sempre di più bisogna distruggere sistematicamente quello che si è fatto in precedenza». Bene, l’argomento di cui parliamo è un esempio di ciò: la società della crescita, proprio per questa esigenza di continua distruzione interna, ha distrutto la sua ormai inadeguata versione contadina e l’ha sostituita con la versione industriale che oggi conosciamo. Era il momento storico in cui la curva esponenziale cominciava la sua impennata, un’impennata già insita nelle premesse storiche.

Un ultimo punto riguarda l’immagine rigidamente statica che Cabras ci offre del cosiddetto ordine naturale: uno stato eterno e immutabile cui noi null’altro dobbiamo fare che adeguarci e soggiacere. E poiché quest’ordine naturale comprende in larga misura la violenza e la sopraffazione… eccetera. Anche questa è una visione vicina, più che alla Decrescita, al Bioregionalismo. Nonché, quando viene applicata anche all’interno della specie umana, al darwinismo sociale. Ripartiamo da zero e andiamo indietro nel tempo quanto basta per assistere alla nascita del primo organismo dotato di sistema nervoso centrale. Insieme a lui apparve sulla Terra quella inedita cosa che è la capacità di operare delle scelte. E poiché l’interazione individuo-ambiente è bilaterale, da quel momento le scelte di innumerevoli individui contribuirono a plasmare l’ambiente e le relazioni fra le sue parti. Ovvero contribuirono a plasmare il cosiddetto ordine naturale. E non hanno mai cessato di farlo; lo fanno ancora. Lo facciamo ancora. Voglio dire con ciò che quel che noi chiamiamo “ordine naturale” è in realtà un’entità dinamica, mutevole e che la sua fisionomia attuale né era a priori inevitabile né è oggi immutabile. E noi, tutti noi esseri senzienti, abbiamo una parte non trascurabile nel determinarne gli assetti futuri. Porre dunque l’esistenza della violenza in natura come fatto giustificatorio della pratica della violenza da parte degli uomini in quanto parte della natura è privo di fondamento. Ma di più: non è atteggiamento diverso da quello del signor Rossi che giustifica il suo inerte concedersi al sistema col dire: «cosa posso farci io? È così che va il mondo.» La differenza fra il discorso del signor Rossi e quello di Cabras è solo nella scala temporale: dalla scala dell’evoluzione sociale a quella dell’evoluzione biologica, ma a parte ciò, una volta di più, è il loro sistema di pensiero insinuatosi sotto mentite spoglie nel nostro.
Non posso inoltre fare a meno di notare che gli appelli all’ “ordine naturale” vengono sempre con riferimento alla presenza in esso di “violenza e sopraffazione”, mai ai numerosi casi di rapporti simbiotici fra le specie o di solidarietà fra membri della stessa specie, pur ampiamente esistenti all’interno dell’ “ordine naturale” presente.
Noi dunque, noi esseri senzienti, noi esseri capaci di operare scelte, possiamo scegliere. Possiamo ad esempio scegliere di somigliare all’oca selvatica, presso la quale è assente ogni forma di solidarietà al di fuori del confine della famiglia mononucleare, oppure ai tanto bistrattati topi i cui legami di solidarietà giungono al punto che le madri di una stessa comunità allevano collettivamente i figli. Entrambi sono esempi di ciò che è l’ordine naturale nella sua fase evolutiva presente. È in nostro potere dare il nostro contributo di specie a far pendere la bilancia nell’una o nell’altra direzione imprimendo così la spinta verso l’una o l’altra via, fra gli infiniti futuri possibili, alla storia a venire della vita sulla Terra. Perché l’ordine naturale, ripeto, siamo noi.

Un’ultima considerazione: il riferimento all’ “altermondista” José Bovè mi ha fatto ricordare che Bovè non è, a quanto si racconta, solo sui lupi che ritiene lecito sparare. Intervenni tempo fa a un incontro romano cui partecipava un suo seguace il quale a un certo punto, raccontando di scontri fra i gruppi francesi di Bovè e la polizia in cui da entrambe le parti si usarono armi da fuoco, deplorò che in Italia tali cose non accadessero. Ancora una volta domando: è questo il mondo che vogliamo?

Filippo Schillaci.







Mia replica a Filippo Schillaci

Caro Filippo,
ti rispondo riprendendo i tre livelli progressivi delle nostre divergenze, che riconosco pienamente.
Limitatamente al piano che definisci “pragmatico e di breve periodo” ti sembra che le nostre visioni siano in realtà sostanzialmente compatibili. Sembra anche a me. E da questo punto di vista direi che il tuo errore principale sia quello di non fermarti qui. Come ti ho detto credo sia della massima importanza fare una chiara differenza fra le scelte etiche personali e ciò che si propone come la posizione programmatica di un movimento, in questo caso quello della DecrescitaFelice, che aspiri ad aggregare consenso per incidere sulla realtà.
Dici bene che pragmatismo non vuol dire resa, ma, pragmatismo o resa, rispetto a quali obiettivi? Quando questi sono troppo ideologici o irrealizzabili, la resa può rappresentare anche il fare spazio ad un principio di realtà.
Nella fase politico-culturale in cui siamo mi sembra che una linea pragmatica sarebbe quella di proporre ipotesi di lavoro condivisibili da chi abbia a cuore in senso ampio la salute del pianeta e non solo da chi si pone su posizioni, forse anche avanzate, ma che suonano abbastanza settarie e che comunque non credo possano passare senza un adeguato dibattito.

Ora, tu rifiuti l’ “-ismo” aggiunto alla parola “vegetariano” e dici che si tratta solo di una scelta alimentare e quindi di una relazione ecosistemica. Bene. Ma, se questo vale per la scelta personale in sé (che, come ripeto, io apprezzo moltissimo anche se non la faccio mia) quando la si rivendica come la presa di posizione propria di un movimento per la trasformazione del modello di società, si passa oggettivamente sul piano dell’ideologia. E ciò è tanto più vero quando sembra che la si voglia far passare come un aspetto necessario di questa transizione mentre non lo è. Perché, se la Decrescita si pone l’obiettivo di riproporzionare le modalità di produzione e le quantità dei consumi a livelli sostenibili, ha certamente senso affermare che zootecnia e pesca industriali come si danno oggi non rientrano assolutamente in tali livelli. Ma se arriviamo a pretendere che allevamento e pesca in quanto tali siano da rifiutare “allo stesso modo delle centrali nucleari “, ci mettiamo su posizioni francamente risibili agli occhi di chiunque non sia ideologicamente predeterminato a far passare questi discorsi insieme ad altri molto più sensati – quelli propri della Decrescita – rispetto ai quali serve un ridimensionamento e un radicale cambiamento di queste attività, ma non necessariamente l’abolizione. Niente affatto, dato che il pianeta – e l’umanità con esso - potrebbe continuare a vivere in ottima salute per un tempo indefinito pur con allevamento e pesca sostenibili, come del resto è stato fino a pochi decenni fa quando per questi ancora erano usate le metodologie tradizionali.

Il problema è che attualmente il sistema sviluppista ha raggiunto una tale egemonia – anche nell’immaginario – che ciò che ne resta al di fuori viene automaticamente ignorato nelle sue specificità. Ed è per tanto facile accorpare queste attività nella loro versione tradizionale a quelle attuali industriali. Come è facile dire che riconoscere il valore di allevamento e pesca come risorsa per le realtà marginali sia esso stesso un discorso “marginale”. Nei fatti, di terre marginali ce ne stanno moltissime anche nei paesi sviluppati come il nostro come ce ne sono, nel resto del mondo, all’interno stesso delle pianure coltivate industrialmente, delle periferie delle città, in tutti gli spazi utilizzabili, piccoli e dimenticati, che sono però una risorsa per moltissime persone, marginali anch’esse, che ne traggono una sussistenza, molto spesso con l’allevamento di qualche animale da latte o da cortile o con un po’ di pesca. Anche nelle zone tropicali e temperate dove spesso si vedono modesti branchi di oche o capre e piccoli stagni autorealizzati per tenervi dei pesci tra una risaia e l’altra. Queste risorse sono importanti, anche dove l’agricoltura è prospera, per molte fasce deboli della popolazione che non hanno terra o quasi, perché la marginalità non riguarda solo i terreni, ma anche le persone. E non si deve dimenticare che gli animali avranno pure una capacità di conversione dei vegetali in proteine molto bassa, ma, allevati a livello familiare, valorizzano sostanzialmente il “nulla” in quanto possono essere nutriti con alimenti di scarto, sottoprodotti che andrebbero buttati, portati a pascolare su terreni altrimenti improduttivi, boschi, savane, rovaie, beni che altrimenti andrebbero persi comunque e sui quali l’agricoltura industriale non ha interesse a mettere le mani e che quindi restano alla portata di chi non ha sufficiente terra buona propria da coltivare (cosa che vale anche qui da noi dove un eventuale neo-contadino senza grandi mezzi finanziari può trovare una possibilità solo in territori ormai abbandonati perché considerati insufficientemente produttivi). Inoltre gli animali o i prodotti derivati (carne, formaggi) una volta venduti sono una fonte di denaro liquido (sempre il bene più difficile da ottenere per i contadini) decisamente superiore alle verdure. E, se vogliamo pensare ad un’agricoltura che sia biologica, gli animali sono indispensabili per l’apporto del letame – che li rende trasformatori di vegetali in una duplice valenza e che permette (gratuitamente) di avere una resa in cibo vegetale (anche vendibile) superiore a parità di superficie coltivata (che non è una differenza da poco per molte popolazioni povere nel mondo). Se poi vogliamo considerare quali sono le zone dove si concentra la maggior parte dell'umanità, oltre (e insieme) alle zone tropicali e temperate, queste sono le coste dove - anche lì – non tutti hanno accesso alla terra il che rende la (piccola) pesca irrinunciabile per milioni di persone.
Il piccolissimo allevamento, dunque, non solo da noi, ma nel mondo (così come la piccola pesca) sono risorse che fanno la differenza per una parte non trascurabile dell'umanità. Che sia costoro sia i terreni che utilizzano (a tutte le latitudini) siano definiti “marginali” è un concetto che appartiene ai criteri di valutazione dell’agricoltura industriale, sviluppista e destinata essenzialmente ad alimentare gli abitanti delle città: al mondo della crescita per il quale un terreno coltivato in maniera contadina è marginale già solo per questo, al di là di dove si trovi. Ed evidentemente anche per chi ha interiorizzato (magari senza rendersene conto) questi criteri, anche i discorsi che si pongono il problema di chi vive su tali terreni, sono ugualmente marginali. Faccio presente che, se oggi il mondo non è ancora andato del tutto in malora, schiacciato sotto il peso del consumismo e dei suoi effetti collaterali, ciò non è tanto perché alcune persone mettono i pannelli solari sul tetto o perché un paese piccolissimo come la Danimarca si sta per produrre tutta l’energia con l’eolico – per ottime, sacrosante, importantissime e necessarie che siano entrambe queste cose e molte altre misure di questo genere (non vorrei esser frainteso) – quanto soprattutto perché metà della popolazione mondiale vive ancora di piccola agricoltura di sussistenza, ovvero perché è composta ancora da contadini (ed anche da pastori e pescatori) che non aderiscono – che sia per scelta o per impossibilità – all’economia consumista. Non riconoscere a questo l’importanza che ha fa parte dell’incapacità propria della visione tipicamente occidentale, positivista e progressista – sempre impegnata nella sua costruzione di “mondi migliori” - di vedere a volte anche il valore semplicemente del non-fare.

Il vero problema oggi non è che nel mondo ci sono troppe persone che mangiano carne o pesce (a parte considerazioni di quantità, modalità di produzione e qualità), ma che ci sono troppe persone che vivono in città e che dipendono totalmente dal sistema consumistico. Dipendono dalla possibilità di sprecare anche solo per sopravvivere.
Dunque a me appare prioritario, di fronte a qualsiasi altra considerazione, che bisogna ci siano le possibilità economiche di sussistenza per chi ancora vive fuori da questi meccanismi per restarci e per chi ne vuole uscire per avere un’alternativa. Quest’alternativa, su scala di massa, la può dare esclusivamente l’economia contadina. Forme di economia che – al di là di come oggi potranno esprimersi esteriormente e culturalmente, e quindi a prescindere da aspetti estetici, ideologici e da qualsiasi tipo di “mistica” - possano essere definiti contadini per le loro oggettive caratteristiche strutturali e funzionali e il loro tipo di interazione ecosistemica. E perciò, se determinate attività di allevamento e pesca a livello contadino possono permettere una sussistenza (relativamente) liberata da questo sistema (e quindi costituire anche elementi di sostegno sottratti ad esso) è importante che queste ci siano, prima e al di sopra di ogni altra considerazione, se vogliamo guardare le cose in un’ottica ecosistemica e planetaria, per l'insieme dei diversi popoli della Terra nelle loro diverse condizioni e, viste le alternative, nell'interesse anche di tutte le specie viventi nel loro complesso.

Se vogliamo rimanere sulle tematiche strettamente attinenti la prospettiva economica della Decrescita, potremmo, come giustamente dici, fermarci qui.
Ma, quando si equipara ogni produzione e consumo di carne e pesce al nucleare; quando si presenta come intrinseca alla Decrescita (che mi sembra essere la via per salvare il pianeta) l'opzione vegetariana (e magari perfino vegana) la posizione è talmente manifestamente ideologica che non credo di tirarcelo io, ma è il discorso che si allarga da sé su altri piani.

Anch’io concordo con Pallante sul fatto che la visione della Decrescita non si riduce all’economia, ma ha la potenzialità di aprire una fase storica nuova al tempo stesso sul piano economico, su quello culturale e per una diversa visione del mondo. Direi anzi che, in realtà, il cambiamento che comporta la proposta della Decrescita si trovi a buon diritto in primo luogo sul piano filosofico. Però, il problema è che, se mettiamo le cose su questo piano nel presentare pubblicamente delle proposte “programmatiche”, cadiamo immediatamente nella debolezza della frammentazione. Perché, sul piano filosofico o, come dici tu, di lungo periodo, ognuno di noi può avere la sua idea – ognuna diversa dall'altra per fondamenti o anche per sfumature, che, in questi casi diventano regolarmente importantissime – ed è giusto che abbia la libertà di avercela. Io, ad esempio, posso essere convinto che la meditazione sia una pratica che, su scala di massa, sarebbe in grado di per sé di cambiare il mondo in meglio; molto più di tante altre cose. Ma non mi sognerei mai di porre questo come un punto necessario tra le proposte di un movimento che cerchi di operare una trasformazione del modello di società. Si tratta di scelte personali, sulle quali ben venga il dialogo e il confronto, ma che su questo piano devono restare. Se vogliamo attenerci ad una linea pragmatica faremmo meglio a limitarci ai punti indispensabili per riconvertire l'economia verso livelli e modalità sostenibili, che siano così oggettivamente tali da poter aggregare un consenso da più parti e poter effettivamente ottenere qualche risultato. Altrimenti staremo a definire con precisione filosofica quali sono i contenuti che appartengono peculiarmente al pensiero della Decrescita distinguendoli da quelli del Bioregionalismo o da quelli (Dio ce ne liberi) del darwinismo sociale o di quant'altro. Ma, all'atto pratico, temo non faremo che ripetere il destino – questo sì che ha una tradizione lunga e inconfondibile – delle Sinistre italiane radicali: quello di essere divise in gruppi e gruppetti, ognuna con una grande visione e mille “distinguo”.... e di contare perennemente come il due a briscola.

E mi ritrovo altrettanto nel riscontrare che, quando va prendendo forma un nuovo modo di pensare molti continuano a interpretarlo con le lenti dei concetti vecchi a cui già sono abituati. Ma il punto è capire qual è questo nuovo pensiero, perché a me pare di riscontrare questo tipo di atteggiamento equivocante proprio nelle tue parole, non nelle mie.

A chi la attribuisci questa “mistica” della civiltà contadina e di tutto ciò che “odora di tradizione”?
Non vorrei che mi proiettassi addosso l’immagine di qualcun altro. Sai, anche con le persone capita di equivocare basandosi su incontri precedenti. Io, se guardi bene, non ho “osannato incondizionatamente” proprio niente, però ho elencato una serie di caratteristiche che definiscono il modo contadino di lavorare in agricoltura (gestire il proprio lavoro indipendente e la propria interazione ecosistemica) che sono tutte di tipo funzionale e non estetico-culturale o mitologico: sono tutte caratteristiche che puoi immaginarle tanto per un contadino antico-etnico-esotico-tradizionale quanto per un neo-contadino che (per ipotesi) ama la musica rock e la sera beve birra con gli amici, divorziato (pure omosessuale se vuoi) e quant’altro. E per sgombrare il campo da altri ed eventuali equivoci ti dirò che se riconosco la realtà della violenza/sopraffazione come una componente della realtà lo dico solo come un dato di fatto e senza alcuna “mistica” di qualunque tipo la volessi immaginare – magari confinante con il darwinismo sociale o qualche altra amenità che non ha nulla a che fare con le cose di cui parlo.

È invece nel tuo modo di vedere che ci trovo, al contrario, un tipo diverso di “mistica”: la mistica del Progresso…..purtroppo un parente filosoficamente molto stretto della Crescita e dello Sviluppismo.
Un’abitudine mentale che rispunta ovunque e che impedisce ancora di andare davvero al di là della dicotomia politico-filosofica destra-sinistra. Forse soprattutto per chi viene da sinistra dato che, mentre per la destra il progresso si è sempre identificato di diritto con la volontà del potere (e quindi si è sempre concentrata – pragmaticamente - sui modi per prenderlo e mantenerlo) per la sinistra il progresso è sempre stato il fine supremo rispetto al quale il potere era solo il mezzo (diciamo, almeno per quelli ideologicamente onesti). Lo sguardo era sempre rivolto a un qualche “sol dell'avvenire”: si è sempre trattato di creare un'umanità migliore, un mondo migliore; qualcosa che andava di molto al di là delle singole piccole questioni concrete sulle quali non ci si poteva unire a chi non aveva uno stesso così nobile obiettivo. Meglio continuare a perseguire quello dunque e non perderlo di vista (la resa).....anche a costo di assistere al mondo che andava da tutt'altra parte.

Per non infrangere il tabù dell’intoccabilità del progresso si finisce troppo spesso per leggere le cose in modo fuorviante.
Ad esempio: è un fatto di facile intuizione che i semi dell’oggi fossero presenti già ieri. Certo, ma dove? Tu dici che il processo storico che porta al sistema della Crescita è iniziato nel neolitico (forse quando gruppi umani originariamente vegetariani, pacifici – ed immagino anche matriarcali, probabilmente? – avrebbero fatto un’improvvisa – questa sì – “sterzata senza preavviso” diventando cacciatori, carnivori e così poi pastori e perciò inevitabilmente guerrieri, conquistatori, monoteisti, patriarcali, fascisti, razzisti, sessisti ecc…?) e che i germi dell’industrialismo consumista attuale erano già presenti nella dimensione di vita contadina del passato. Ma, nella tua visione storica di lungo periodo, tu forse dimentichi che civiltà agricole di ogni altra latitudine nel mondo non hanno dato origine a modelli economico-social-culturali in alcun modo simili a quello dell’occidente moderno e che neanche le stesse popolazioni contadine occidentali lo hanno fatto perché non sono mai state loro ad avere le posizioni di comando né di egemonia culturale nella civiltà occidentale. Una cosa è riconoscere che la dimensione di vita che apparteneva alla gran parte della popolazione in epoca premoderna era la civiltà contadina ed altro è dire che la visione del mondo occidentale moderna e capitalista che dopo una lunga incubazione si è manifestata come sistema della crescita infinita è la fase successiva della civiltà contadina. Sarebbe come dire che un organismo devastato dai vermi è la fase successiva di quell'organismo quando era sano. Non è affatto così: è la fase successiva dello stadio larvale di quel parassita. Se poi vogliamo parlare delle componenti di avidità, inconsapevolezza, egoismo, ristrettezza mentale, aggressività che anche fanno parte della natura umana, vabbé….ma credo fossero presenti anche prima del neolitico, quanto a questo, né, temo, basti essere vegetariani per liberarsene.

Ma se è del sistema della Crescita che vogliamo parlare, questo è nato tecnologicamente dall’industrialismo ed economicamente dal capitalismo – nonché culturalmente dall’illuminismo/progressismo – tutti fenomeni propri delle classi dominanti cittadine. È nato dall’attitudine tutta occidentale, universalistica ed antropocentrica (o, se vuoi, umanista) di vedere l’essere umano come separato dalla Natura, la realtà come creazione culturale dell’uomo e per il resto come mèra materia grezza da trasformare in un mondo “migliore” a immagine e somiglianza delle proprie fantasie, aspirazioni, paure, della propria incapacità di stare anche un po’ in silenzio e contemplazione.

È del tutto falso e fuorviante dire che il sistema attuale della Crescita sia la prosecuzione in modo più “efficiente” di una sua versione precedente che ebbe forma contadina. Bisogna capire che non tutto ciò che è esistito prima di una certa data ed avesse a che fare con l’agricoltura si possa indifferentemente definire “contadino” – senza parlare del resto dell’umanità fuori dall’Europa (quasi tutti contadini anch’essi che certo non hanno “prodotto” il sistema della crescita ma l’hanno totalmente subito). Ed inoltre, di quale periodo della storia contadina dell’uomo stiamo parlando? Gli esseri umani ovunque sono stati (e sono tuttora in gran parte) contadini (e pastori e pescatori) non solo nell’ultimo secolo o due prima della rivoluzione industriale, ma per migliaia e migliaia di anni a dir poco e la loro economia è sempre stata di tipo sostanzialmente “circolare”, senza crescita e tendente al mantenimento delle risorse e degli stili di vita.
Dire che il sistema della Crescita sia la prosecuzione sotto altre spoglie di caratteristiche già insite nella civiltà contadina solo perché quest’ultima l’ha preceduta mi sembra una superficiale semplificazione, come dire che gli USA sono la prosecuzione dell’alleanza tra le tribù Sioux. E neppure si può così facilmente sorvolare sulla fortissima stratificazione sociale che c’era al momento dell’avvio del capitalismo, della rivoluzione industriale e della modernità, per la quale fenomeni che avvenivano nella stessa nazione potevano benissimo avere origini in contesti materiali e culturali propri di una classe (in questo caso quella cittadina borghese) che rimanevano del tutto estranei a quelli di un’altra (quella rurale contadina) che fu letteralmente travolta e colonizzata dai processi in atto. Questo senza “osannare”, idealizzare né misconoscere nulla. Ma - anche senza neppure entrare nel merito di giudizi di valore - non si può mischiare tutto a proprio piacimento e chiamare questo “una visione storica di lungo periodo”.

Né si possono mischiare cose che non c’entrano nulla come il Darwinismo sociale. L’errore grossolano di questa corrente di pensiero familiare al fascismo – ma a ben vedere neanche così estranea al progressismo se la misuriamo su scala mondiale – non è nel riconoscimento che anche tra le società umane si affermano in termini di dominio e di egemonia anche culturale quelle più forti e più adatte a sfruttare le circostanze a proprio vantaggio, perché questo è solo un fatto. Ma nell’attribuire a questo fatto un valore di superiorità oggettiva dei popoli/culture momentaneamente vincenti, quasi fosse il segno di una superiorità naturale e senza tener presente che in Darwin il successo evolutivo è indice di adattamento alle condizioni contingenti e non di una qualche “superiorità” (non c’è “superiorità” nella Natura: nessun “giardino dell’Eden”, nessuna “età dell’oro” né nel passato, ma neanche nel futuro). Confondere la scala temporale dell’evoluzione biologica con quella delle società umane è sempre fonte di grossi guai. Ma, anche restando sul tempo umano, dovremmo prendere atto che solo alcune società/culture tradizionali, tribali e contadine hanno saputo creare e mantenere una forma in grado di sopravvivere e durare davvero a lungo mentre grandi civiltà con i loro progetti di mondi migliori sorgevano e scomparivano. Chi è stato allora il “vincente” sul lungo periodo?
Non so però se tu, nel tirare in ballo il Darwinismo sociale, e denunciarne l’accettazione della violenza/sopraffazione come fenomeno presente nella competizione tra gruppi umani, noti anche quest’altro aspetto, della presunzione di superiorità del vincitore, che lo caratterizza.
È interessante, perché è un tema di fondo dell’ottica progressista, come lo è quello di mischiare ordine naturale ed ordine sociale, nella presunzione – questa davvero antropocentrica, anzi, prometeica – di poter agire sul primo come si può fare sul secondo (e, alla prova dei fatti storici, abbiamo visto che….. pure sul secondo,.. non è così semplice). In realtà il successo evolutivo o la durata dei modelli sociali dipende dalle circostanze storico-ambientali, perché tanto il sistema degli aborigeni australiani che il celeste impero cinese son durati molto a lungo, ma sono finiti quando le condizioni rispetto alle quali rappresentavano un adattamento funzionale sono cambiate. Un saggio modello di società dunque sarebbe quello di organizzarsi in modo da mantenere relativamente stabili (“circolari”) le proprie relazioni con l’ecosistema e con le altre società. Tutt’altra impostazione del progressismo, direi.

Mischiare la possibilità (presunta, ma diamola per buona) di agire sul sociale umano con quella di poter fare lo stesso con l’ordine naturale in base all’idea che entrambi si costruiscano a partire dalla capacità di scelta ed azione conseguente degli individui (non solo umani mi pare di capire) e non in base ai limiti consentiti da condizioni contingenti date, dà luogo, mi sembra, ad un panorama abbastanza fantasioso come in una sorta di “evoluzionismo karmico” in cui forse gli animali carnivori hanno “scelto” di essere tali, l’oca di essere un consorte geloso e possessivo (chiuso in casa con la moglie a guardarsi “Porta a Porta” forse?) e la madre topo di essere una “compagna” solidale e comunitaria e tutti insieme danno forma al mondo e concorrono alle sue tendenze evolutive un po’ come i vari gruppi socio-politico-culturali alla società. Non so… se a questo punto volessimo concludere – perdonami la volgare ironia intesa davvero solo a sdrammatizzare – che le oche saranno pure di destra, ma la topa è di sinistra, mi pare non farebbe una grinza con questo tipo di ragionamento antropomorfizzante.
In questo contesto noi umani dovremmo dunque fare la nostra parte verso il raggiungimento di un qualche progresso – dovremmo fare le nostre scelte. Fare il nostro lavoro “politico” (evolutivo) all’interno della natura: dare la forma migliore all’ordine naturale, che, in fin dei conti, siamo noi.
Ma, dire che l’ordine naturale siamo noi e che possiamo agire su di esso dandogli una forma secondo le nostre scelte (come si farebbe sulla società – sempre che questo sia possibile) equivale a dire che un ordine naturale semplicemente non esiste in quanto tale. E siamo alla solita vecchia storia progressista (ha almeno due secoli: è vecchia anche lei ormai, nonostante il nome) per cui la natura è materiale inerte per la costruzione del progresso, espressione suprema di noi umani – che poi, a ben guardare, siamo noi moderni e occidentali(/zzati), perché gli altri perlopiù se ne infischiano di queste cose.
Dunque noi possiamo migliorare il mondo e pertanto dobbiamo farlo: abbiamo un ruolo salvifico verso un livello superiore, quello del progresso (moralmente inteso).
Come c’è chi crede che per superare la crisi della crescita ci voglia più crescita (magari di un altro tipo) così c’è, a un livello diverso, chi vorrebbe risolvere gli approdi disastrosi della modernità con un nuovo progressismo. Ma mai si coglie l’occasione di capire che è da un piano del tutto diverso che occorre ripartire. Direi che è una storia che ben conosciamo, come ne conosciamo i risultati piuttosto disastrosi, proprio per por rimedio ai quali ultimamente si stanno manifestando nuove prospettive di pensiero, come quella – almeno, secondo come l’ho capita io – della Decrescita. Il tipo di rimedio (ed il tipo di ragioni) che la Decrescita va a porre non va inteso (secondo vecchie ottiche) in termini morali, ma in termini funzionali, oggettivi e pragmatici dati dai limiti fisici del pianeta.
Il pragmatismo, il limitare gli obiettivi dei movimenti e delle loro campagne a singoli temi concreti, in quest’ottica, non è dunque solo tattico, ma significa aver consapevolezza che il punto è soprattutto rimediare ai gravissimi errori umani che agiscono a tanti livelli, non puntare a costruire una qualche utopia comunque sia concepita. Limitarsi ad aggregare sostegno e consenso di diversa provenienza su una serie di punti concreti e strutturali che definiscano e realizzino un diverso modello economico già di per sé darebbe luogo ad una società molto diversa e che avrebbe soprattutto un diverso impatto (una diversa compatibilità) verso il pianeta e le altre società, mentre quanto al modo in cui ne intendiamo il significato filosofico ed i valori fondanti potremmo anche lasciare questo alla dimensione personale e relazionale di ognuno. E questo limitarsi si basa nella fiducia che nell’ecosistema pianeta Terra, nella Natura, una fondamentale sanità e saggezza c’è già, senza bisogno di missioni salvifiche umane. E ci sarebbe anche negli uomini, se un po’ più alla Natura (ed alla pura e semplice accettazione della sua biodiversità si riavvicinassero).

E qui arriviamo al punto dell’ordine naturale che è poi quello sul quale, a mio avviso, si esprime nel modo più chiaro la tua visione fondamentalmente progressista – che, nello spostarsi dal piano sociale a quello biologico/evoluzionistico/planetario si manifesta esplicitamente come una “mistica”.
E’ certamente vero che l’ordine naturale non è qualcosa di statico, dato una volta per sempre. Non c’è nulla di così “fisso” nell’universo. Ma qual’è la sua scala temporale? La Natura, come la conosciamo oggi (e pure quella che vive dentro di noi), i suoi equilibri, le sue leggi e le caratteristiche, i comportamenti – come anche i limiti – propri dei diversi esseri viventi sono il risultato della somma delle esperienze e delle interazioni di tutte le forme di vita che si sono succedute in milioni e milioni di anni condizionate a loro volta dalle leggi fisiche, chimiche, biologiche, dalla struttura del sistema solare e dell’universo ecc… Tutte cose certamente non statiche, ma che esistono (o meglio avvengono) su tempi evolutivi così lunghi che noi dobbiamo rispettarne i risultati come fossero eterni.
Sappiamo pure che la curva del tempo vicino al Sole o a Giove, a causa della loro massa, non sarebbe la stessa che sulla Terra, ma, all’atto pratico, questo ci cambia qualcosa quanto a come vivere qui?
Credo dovremmo uscire un po’ di più dall’astrattismo occidentale e ricordare che la nostra vita è in primo luogo fisica e la nostra esperienza in primo luogo empirica, e diretta.

Ed è senz’altro altrettanto vero che l’ordine naturale siamo ANCHE noi, ma anche; insieme ad un’infinità di altre cose e forme di vita molto diverse da noi – che non tutte possiamo né potremo mai comprendere del tutto. Dobbiamo rassegnarci al fatto che la realtà – nonostante la nostra evoluta intelligenza – va infinitamente al di là di noi. E che perfino al nostro interno la nostra parte cosciente, pensieri, opinioni, aspirazioni, sentimenti ecc… è solo una frazione parzialissima di ciò che siamo. Siamo parte dell’ordine naturale soprattutto come corpo, energia, vita: qualcosa in cui l’aspetto teorico, culturale e ciò che sta nella nostra capacità di scelta e di controllo è limitatissimo e non riguarda le cose fondamentali. È veramente un’ingenuità moderna e progressista credere di poter trattare con l’ordine naturale delle cose come con le nostre analisi sulla società.
Non è un caso che ogni sorta di utopia sociale non si sia mai realizzata. Perché, non solo erano insufficienti i presupposti al livello dell’analisi dell’ordine sociale, ma anche quelli (spesso del tutto assenti) relativi al nostro posto nell’ordine naturale. Forse è proprio questione in primo luogo di mettere un po’ d’ordine: noi umani apparteniamo alla Natura e non viceversa, tanto è vero che potremmo benissimo scomparire senza danno per l’insieme del pianeta (anzi)….e figuriamoci poi per l’universo. Bisogna riconoscere che la nostra condizione di base è un ordine naturale che ci comprende e che ha preso forma – dinamicamente – in un tempo immensamente più ampio della nostra comprensione (quella reale, non quella teorica della curva del tempo su Saturno). Quando condizioni e risposte si sono ripetute funzionalmente fino a diventare una costante si sono manifestano delle “leggi” o caratteristiche della realtà che sono quelle della vita su questo pianeta. Per noi umani queste cose sono fondamentali, eterne – anche se sulla scala dell’universo possono essere momentanee e potranno cambiare. Quel giorno noi, anche come specie – e probabilmente il nostro stesso pianeta – non ci saremo più da un pezzo.
Queste “leggi” ci assegnano certi “limiti” solo all’interno dei quali - è evidente che a questo punto siamo molto al di là del discorso vegetariani o meno - possiamo vivere armonicamente con il mondo e con noi stessi. Queste “leggi” dobbiamo comprenderle, vederne l’impersonale intelligenza intrinseca e ad esse imparare ad adeguarci. Non c’è altro da fare.
Poi, sulla base di questo – cosa per la quale occorre prima sapersi fermare e cercare di capire – possiamo agire e lavorare per cercare di modificare le nostre società nel modo più giusto ed equilibrato secondo il punto di vista di noi umani (o quantomeno della maggior parte possibile). Ma si tratta di una cosa che – a parte i danni che altrimenti potremmo fare e che stiamo facendo – non è di così grande rilevanza per l’insieme della vita sul pianeta.
Qui sta la “piccola” differenza tra il mio atteggiamento e quello del sig.Rossi, caro Filippo, la cui equiparazione, scusami, ma mi sembra sia una cosa che sta, come si suol dire, “fuori dalla grazia di Dio”. E’ come equiparare un monaco zen che medita in un monastero ed un autistico grave in un ospedale psichiatrico perché entrambi passano delle ore immobili senza cambiare posizione.
Laddove il proverbiale sig.Rossi si adegua ad un ordine che lo danneggia, ma che in certa misura gli appartiene, lo riguarda direttamente e che lui di fatto contribuisce a creare e/o a mantenere e dunque effettivamente potrebbe cambiare (almeno per l’effetto che ha su sé stesso), l’ordine naturale è qualcosa a cui noi apparteniamo, che è la nostra stessa natura – che ce ne rendiamo conto, e che ci piaccia, o no – che si trasforma su una scala temporale sulla quale noi non possiamo intervenire se non a livelli inconsci, genetici, su quel piano in cui il corpo e la mente sfumano l’uno nell’altra e ai quali ci possiamo cominciare ad avvicinare solo quando cominciamo a fermarci, porre fine ai danni che creiamo con i nostri sogni prometeici e a pensare un po’ alla qualità della nostra vita reale attuale (e non quella di un radioso domani) e cambiare in essa ciò che va cambiato a partire dalla base di un riconoscimento profondo nella Natura e nel suo ordine.

Possiamo riconoscere ed onorare l’infinita serie di esperienze ed interazioni e dunque la saggezza della quale è forma, cercare di capirlo per quanto possiamo ed interagire con esso nel modo meglio armoniosamente inserito possibile adeguandoci alle sue caratteristiche.
Sulla base di questo fondamentale adeguamento, limitatamente a ciò che può essere “inventato” all’interno del nostro mondo sociale e culturale – che è la forma di adattamento evolutivo propria della nostra specie umana – possiamo esercitare la nostra ampia facoltà di scelta che non è piccola, a cui non dobbiamo rinunciare e che certo non va sprecata.
Non senza seguire il principio che ha prodotto sempre tutte le forme di questa storia evolutiva senza direzione: quello di rispondere alle circostanze e rispettare un senso della misura e delle proporzioni.
Non solo per limitare il “peggio”, ma anche per limitare le pretese di “meglio”, che hanno fatto – proprio con le migliori intenzioni – già troppi danni.
Essere appieno ciò che già siamo realizzando noi stessi all’interno dei limiti del posto che ci è proprio secondo l’armonia degli equilibri ecosistemici.
E vivere, senza metterci dell’altro sopra, è l’ordine naturale.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Dico subito che in questo interessante dibattito declino dalla parte di Cabras, per varie ragioni.

Rinvengo infatti in Schillaci la volontà di tracciare un segno netto nelle azioni sociali, nella prefigurazione del "dover essere" collettivo. Un desiderio di discrimine chiaro e assoluto, insomma una tensione purista (che capisco) ma che trovo errata. Funzionale alla nostra costituzione identitaria e per questo
autogratificante, ma perciò pericolosamente seduttiva. La vissi pure io in tempi andati (su altri temi).

L'idea che possano esistere confini netti, barriere impermeabili che segnino un confine sicuro, la seprazione assoluta da un bene e da un male (e - peggio - tra il Bene e il Male) è bella. Troppo bella: è accativante, gratificante: è proprio
questo la renderla sospetta.

Conviene lasciarsi contaminare.
Abbiamo i canini, che non servono per triturare verdure e cereali. Siamo frutto di una storia che non possiamo negare. E il futuro non può stare in una scatola. Le galline raccolgono frammenti di energia altrimenti irrecuperabili. Certo, anche i lombrichi hanno il diritto di vivere.
Ma tra le mandrie di McDonald e i tacchini dell'aia c'è una bella differenza.

Anche tra l'esser vivi e l'esser morti c'è una bella differenza, benché tra le due condizioni non ci sia un confine.
Cose, entità, condizioni, stati possono essere radicalmente diversi pur in assenza di confini definiti.
Non è un paradosso, è la complessità che rende impossibile tracciare confini.
E nulla è più complesso della bio-psicosfera.

Suggerirei di stare lontani dal purismo se e in quanto proiettato nel sociale.
Individualmente si può praticare qualsiasi autodisciplina, per quanto durissima.
Grazie dell'ospitalità.

Rino DV