sabato 16 ottobre 2010

Decrescita e Sviluppo Sostenibile: una con-fusione da rifiutare

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Ho assistito alla tavola rotonda/dibattito che si è svolta sabato 9 a Perugia dopo l’intervento di Maurizio Pallante al meeting su “Progettare il futuro” ed ho potuto constatare quanto sia difficile far passare il messaggio della Decrescita presso interlocutori che – pur disposti al dialogo - sono comunque persone ben inserite nel sistema della crescita e portatori dunque di mentalità ed interessi ad essa legati, politici e non.
La riflessione che ho tratto da questo incontro è la seguente: chi non capisce il vero contenuto del messaggio della Decrescita – o chi ha interesse a “disinnescarne” la potenziale radicalità – cade spesso in con-fusioni ed equivoci che, in buona o in cattiva fede, si presentano solitamente in due varianti: prima di capirla, la Decrescita viene confusa con la recessione e, dopo averla “capita” , con lo “sviluppo sostenibile”. Ai politici e gli amministratori specialmente “di sinistra” - che devono cercare di cavalcare ogni sorta di contraddizioni e rimanere comunque in sella – è soprattutto questo secondo tipo di equivoco ad essere indispensabile, perciò cercano spesso di minimizzarlo riducendolo a una disquisizione nominale, un po’ oziosa ed inutile, come di qualcuno che la usa strumentalmente per distinguersi da chi già è lì a fare il lavoro che va fatto, ovvero il cosiddetto “sviluppo sostenibile”. In quella occasione mi è sembrato ci fosse chi arrivava quasi a rivendicare una sorta di (concettualmente acrobatica) “crescita della Decrescita” pur di non lasciar passare un’accezione negativa del primo dei due termini.

Il fatto, dunque, di lasciar spazio a certi equivoci e confusioni, che siano ad arte o in buona fede, tra Decrescita e sviluppo sostenibile (o varianti simili) non è un punto da poco: ne va, tra l’altro, che la proposta della Decrescita venga recepita col potenziale di alternativa a tutto tondo che ha o che si esponga costantemente al rischio di essere fatta rientrare nei ranghi del sostanzialmente innocuo, del già detto e dunque del sostanzialmente inutile se non del pretestuoso.
Appare dunque della massima importanza, nel considerare la prospettiva della Decrescita, non solo vedere ciò che va fatto nell’immediato, ma anche quale è l’esito verso cui si va a parare, il punto di fuga verso cui si guarda. Anche per non prestare il fianco a spesso strumentali confusioni.

E’ possibile dimostrare, dati alla mano (come puntualmente ha fatto Pallante quella sera), che la crescita non ha mai prodotto nuova occupazione e che potrebbe essere invece proprio la Decrescita a crearne, abbassando la produzione/consumo di merci che non sono beni ed aumentando (nei limiti del necessario) quella di merci che sono anche beni e quella di beni che non sono merci. Non solo non si perderebbero (sul totale) ma perfino si creerebbero nuovi posti di lavoro grazie ad una riconversione del modello di produzione/consumo in senso decrescente/sostenibile a partire dalla ricerca/implementazione di nuove soluzioni tecnologiche per il risparmio energetico nell’efficienza degli edifici, nei consumi termoelettrici e dei carburanti per autotrazione. La via percorribile sarebbe una fase di riconversione tecnico/economica (oltre che culturale ecc…) che durerebbe prevedibilmente alcuni decenni per realizzarsi nelle proporzioni dovute e, se il processo fosse guidato con pianificazione ed accortezza, questo non comporterebbe una recessione, ma, al contrario, un aumento dell’occupazione e del benessere complessivo. Questo, però, non potrebbe essere chiamato “crescita” in quanto non consisterebbe in un incremento nei parametri che misurano il PIL, bensì in una loro diminuzione in quanto si tratterebbe di un risvolto virtuoso di una riduzione nei consumi e dei loro danni collaterali (che anch’essi innalzano il PIL).
C’è un’enorme riconversione da fare e se questo farà perdere numerosi posti di lavoro (per il calo di determinati consumi) ne produrrà possibilmente anche di più in una sorta di soluzione “win-win” in cui saranno sia la società che l’ambiente a guadagnarci e questo con una diminuzione del PIL e non con un suo aumento, confutando così la “superstizione” della crescita.
Benissimo. Però, se il problema non è solo un errato sistema di calcolo e valutazione dello sviluppo/benessere col falso metro del PIL, ma si tratta di qualcosa di ben più sostanziale, allora la citazione di Latouche come fautore del “de-consumo” da parte di un architetto presente al dibattito, pur errata nella lettera (visto che la décroissance di cui parla Latouche è correttamente tradotta in italiano con Decrescita), è vera nella sostanza. Voglio dire che ciò che occorre è, almeno in prospettiva, una riduzione dei consumi in termini assoluti e non solo un cambiamento da un certo tipo di consumi/produzione/occupazione ad un altro.

Mi sembra innegabile che, dopo un periodo, anche relativamente lungo, di riconversione (con tutto il dinamismo economico ed occupazionale che questa può dare), una volta che questa sarà avvenuta, si dovrà necessariamente approdare ad un modello economico più “circolare”, più tendente, se non proprio allo statico, ad una condizione di equilibrio, se si vorrà vivere in una dimensione rispettosa di ritmi propriamente umani e naturali nella quale si trovi effettivamente la “felicità” (a tutto tondo) sostenibile della Decrescita. Se la riconversione sarà stata effettiva, molti dei posti di lavoro da essa creati saranno destinati ad un certo punto ad esaurirsi o a ridimensionarsi notevolmente (a meno che non continuino parallelamente – e in funzione complementare – le attività che abbisognano di riconversione). Se i beni prodotti saranno più duraturi e meno impattanti, i consumi in assoluto diminuiranno (e con loro gli addetti alla produzione e allo smaltimento) e credo che neanche i beni/servizi immateriali potranno fornire occupazione retribuita oltre una certa misura, certo non tale da interessare la gran parte dei cittadini.
In altre parole questo significa che, almeno in prospettiva, bisogna riconoscere che l’occupazione – a riconversione avvenuta e senza un nuovo ciclo di consumismo, magari di un altro genere di prodotti, ma a lungo andare con effetti analoghi – dovrà essere in gran parte una occupazione non retribuita (o solo in parte retribuita) ovvero un’occupazione di autoproduzione. Una occupazione che occupa a tutti gli effetti e che produce beni (anche col forte elemento di creatività e soddisfazione che questo può dare), ma che non dà reddito in termini monetari.
Ora, una società composta in larga misura da persone che si trovano - in un contesto ecosostenibile - in questa condizione (almeno per una parte significativa della loro occupazione) non può essere che una società composta in parte preponderante da contadini o meglio – immaginandola in questa fase post-sviluppo e post-riconversione - di neo-contadini. Il che naturalmente non significa che non sarà anche composta da molte altre figure, ma che l’autoproduzione alimentare ed artigianale (e magari energetica) con tecnologie semplici, alla portata di tutti e tali da mantenere costante e disponibile anche nel futuro il capitale di risorse offerto dalla Natura, sarà l’occupazione largamente più diffusa – eventualmente accompagnata da altre attività che diano una parte di reddito monetario.

Probabilmente questo può suonare a qualcuno come pura utopia, ma è forse piuttosto – e semplicemente - un discorso di prospettiva che oggi vien fatto apparire di fronte al grande pubblico come una di quelle eresie (o anche assurdità) come era il caso, venti o trent’anni fa, di molte delle cose di cui parliamo correntemente adesso.

E, in realtà, per molti neanche si tratta solo di lontane prospettive. L’Umbria, regione dove si svolgeva quel dibattito, non è solo la vetrina verde d’Italia, ma anche una regione dove in tanti (nativi o trasferitisi lì appositamente) abbiamo scelto da decenni di sperimentare forme di sussistenza felice e decrescente che con un po’ di aiuto pubblico (anche solo legislativo e non finanziario) sarebbero alla portata di molti di più. Sono forme di sussistenza che hanno comportato (su scala personale/familiare) un notevole impegno finanziario e lavorativo per un certo numero di anni (come sarebbe – fatte le dovute proporzioni - per una riconversione su scala molto più grande) ma che in seguito sono generalmente in grado di mantenere un livello abbastanza costante ed equilibrato di economia grazie al fatto di reggersi (non del tutto, ma) in parte importante su un’occupazione autoproduttiva, non retribuita e dunque su una ricchezza non monetaria che è cioè non solo denaro risparmiato, ma denaro non-prodotto.
Una ricchezza che è sempre stata (anche nelle forme proprie di epoche precedenti) la ricchezza contadina.
La ricchezza a cui credo la prospettiva della Decrescita dovrà necessariamente approdare e che forse potrebbe essere rivendicata a volte in modo più esplicito come uno importante fra gli elementi che distinguono la Decrescita da prospettive antitetiche di crescita illimitata, per quanto spacciata come sostenibile.

Ci sarebbero molte possibilità di campagne di opinione, disegni di legge (un esempio quello di www.agricolturacontadina.org ), punti programmatici da inserire nel contesto delle proposte della Decrescita che potrebbero essere volti a favorire chi volesse fin da subito (e magari fin da giovane) rivolgersi alla vita in campagna e all’autoproduzione contadina preparando così il terreno per quando questa prospettiva sarà più largamente riconosciuta e credibile. C’è da pensare a normative facilitate per i piccoli produttori agricoli biologici, sia in termini legali/fiscali che di regole igienico-sanitarie, in alternativa a quelle vigenti che attualmente li strozzano mentre favoriscono la grande distribuzione con la qualità che sappiamo; ci sarebbe da istituire una categoria professionale ad hoc per i produttori che per dimensioni di attività e di reddito oltre che per sistemi di lavorazione si possano considerare “ecosistemici” e che andrebbero premiati e favoriti per questo svolgendo un ruolo utile per l’intera collettività rappresentando un “anticipo volontario di riconversione”; ci sarebbe da fare pressioni perché le amministrazioni pubbliche usino il potere che il federalismo demaniale gli conferisce per destinare ad un recupero bio-contadino case coloniche e terreni abbandonati di loro proprietà (un altro esempio: www.ecofondamentalista.it/bozzaproplegge.htm) anziché venderle come si accingono a fare per riaggiustare i loro bilanci di cassa.

La differenza tra la prospettiva della Decrescita e l’ossimoro dello sviluppo “sostenibile” sta anche nel saper distinguere, difendere e riproporre le forme di economia/sussistenza che valgono oggi come varranno domani e come valevano ieri perché esprimono il posto dell’uomo su questa Terra.

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