domenica 25 ottobre 2009

La Misura Necessaria

Uno dei tanti aspetti per i quali possiamo sentirci a disagio in questo mondo moderno è la sempre crescente deriva individualista e di perdita di senso. Ciò che viene meno, dunque, è al contempo il senso profondo del vivere e quello di appartenenza e di lealtà verso una comunità di simili e ciò che ci rende tali le altre persone. Due aspetti, uno più sul piano spirituale, l’altro più su quello sociale/psicologico, di uno stesso fenomeno. Due aspetti dei quali possiamo trovare una radice comune ad un livello più basilare.
Durkheim, in “Le forme elementari della vita religiosa” individuava la sorgente del senso umano del “divino” nel sentimento di comunità, nel senso dell’appartenenza a questa come forza trascendente la condizione individuale e peritura del singolo e come “salto di condizione” che lo elevava oltre il quotidiano apparente e che era al tempo stesso matrice di ogni valore culturale. Ed anche religioso, in quanto questa “essenza” della comunità veniva caricata di significati corrispondenti alla sensibilità condivisa ed ipostatizzata in forme più o meno antropomorfe di divinità.
Sia che vogliamo accettare questa analisi delle origini della religione o meno, non è difficile notare come ci sia un forte legame tra l’identificarsi con una comunità di appartenenza (riconoscendovi le proprie radici e rispettando una lealtà verso le sue tradizioni) ed il sentimento religioso, il credere negli insegnamenti etici e morali e nel loro discendere da qualcosa di “superiore”. Come non è difficile notare che entrambi questi aspetti siano stati travolti allo stesso modo dagli stessi passaggi storici.
Molti considerano questo come una liberazione, altri come una tragedia di cui portano il lutto e a cui vorrebbero porre riparo. Per tutti non può che essere comunque una realtà di fatto, e la condizione forse più problematica è quella di chi, pur avvertendo innegabile il senso di liberazione, si sente purtuttavia orfano di qualcosa di importante e di necessario.
W. Reich insegnava che, quando due fenomeni si presentano insieme in forme specularmente opposte e complementari, bisogna andare a cercarne un altro che sta alla loro base funzionale come origine comune e che questa ricerca avviene attraverso l’osservazione imparziale del modo in cui queste due realtà di fatto si producono.
Una cosa innegabile è che la crisi sia dell’identità che della solidarietà comunitaria, così come dei loro valori condivisi - compresi quelli religiosi - è avvenuta in seguito allo sviluppo tecnologico ed economico, al capitalismo e alla monetarizzazione (ovvero alla messa in vendita) del tempo dedicato al lavoro, separandolo così dal resto della vita (inventando così il “tempo libero”, ma rendendo in tal modo alienato sia questo che quello “lavorativo”). Il lavoro, non più elemento di interazione (spesso comunitaria) con la natura nel produrre il necessario (com’era nel mondo contadino), ma ora diventato merce interscambiabile, ha progressivamente perso legame con il luogo e con altre forme di caratterizzazione specifica e, con ciò, le comunità sono state disgregate in individui e sradicate dalla condizione concreta e necessaria che le aveva formate e le teneva insieme dando pure un senso ai loro valori e ai loro déi. Il senso di comunità, il rispetto verso di essa, la solidarietà interna che la legava non erano qualcosa di strumentale/utilitaristico: erano autentici, ma non per questo esistenti ed autoperpetuantisi come valori astratti, validi in quanto tali. Vivevano del nutrimento di un terreno reale, fatto di povertà comune, di autoevidente bisogno reciproco (oggi o domani, ma sempre latente) di darsi una mano, di orrore di esser messi al bando in seguito a comportamenti contrari all’interesse collettivo. Quando io non ho più bisogno di te e tu te la cavi benissimo senza di me ed entrambi viviamo di salario o profitti che ci vengono da totali estranei in cambio di transazioni economiche (vuoi della nostra proprietà come pure del nostro tempo/forza lavoro), perché dovremmo mantenere un “sentire comune” che ieri ci proteggeva ed oggi ci limita?
I “valori” non stanno scritti in cielo: questo non significa che abbiano un valore solo utilitaristico (come vorrebbe una visione superficialmente materialistica): significa piuttosto che non sono una parte “superiore” e separata della realtà. Possiamo dire che sono l’essenza idealizzata dell’aspetto mentale della realtà nel suo vivere come esperienza in noi. Non sono però separabili da ciò che effettivamente, storicamente, avviene, e lo stesso si può dire delle visioni del mondo ed eventualmente, per chi ci crede, degli déi che delle stesse cose sono una versione ipostatizzata in forma personale.
Dunque, come non sta scritto da nessuna parte che la storia debba comunque volgere in una certa direzione (che sarebbe un’altra versione dell’idea del progresso, anche se volessimo connotarla in senso opposto), così non son mai bastate parole, insegnamenti e prediche a far sì che la gente capisse e seguisse certi comportamenti. Perché l’essere umano non è per natura così razionale né così spirituale e neppure così ossequioso verso le tradizioni in quanto tali: egli agisce secondo le condizioni date ed essenzialmente cerca di vivere e, per quanto gli riesce (e secondo la sua comprensione) il meglio possibile (ragione, spiritualità e tradizioni – come pure il rispetto di esse – sono vie attraverso le quali questo percorso cerca di prender forma).
In ultima analisi il senso della vita è solo quello di vivere e questo, a seconda delle condizioni più o meno favorevoli, può significare dal sopravvivere al realizzare pienamente la propria vera natura e trasmettere ad altri questa realizzazione.
Probabilmente persone con un livello di consapevolezza particolarmente evoluto possono trovare una “via illuminata” anche in contesti socioculturali molto svantaggiati (come per certi versi è quello attuale), ed anzi potrebbero perfino trovar vantaggio proprio da questa disgregazione dei legami sociali, delle relative convenzioni ecc… Ma per la grande maggioranza delle persone le condizioni di vita determinano (spesso in modo ampiamente inconsapevole) la percezione della realtà ed i comportamenti conseguenti.
Oltre un certo livello di sviluppo le ragioni concrete che sono sempre state alla base del tenersi delle comunità così come del mantenersi delle credenze culturali e religiose che ne fondavano la vita, vengono meno (oltre un certo livello di libertà ed indipendenza individuali, anche le relazioni interpersonali ed il rispetto per esse diventano molto precarie, inconsistenti): non c’è una base necessaria per riconoscersi un’appartenenza e una solidarietà reciproca e gli ideali, se sono ideali puri, non bastano – e non sono mai bastati di per sé, neanche quando (apparentemente) bastavano.

Ora, dunque, di fronte a ciò che abbiamo davanti agli occhi e nelle nostre esperienze, due sono gli atteggiamenti possibili: o credere che tutta questa disgregazione generale sia la liberazione definitiva dell’individuo e della sua ricerca egoica di soddisfazione - salvo poi dover riconoscere che questa ricerca senza limiti non può che concludersi in una (auto)distruzione generale - o riconoscere che avere un orizzonte sociale di appartenenza/relazione che vada al di là di sé, ma che abbia pure dei limiti percepibili, è un’esigenza naturale di ogni essere umano, necessaria a creargli un ambiente che ha aspetti materiali ed immateriali quali quelli emotivi, psicologici, culturali, di visione ed orientamento nel mondo e nella vita, di scelte da fare e valori a cui ispirarsi.
Questi aspetti, però, non sono scindibili da quelli materiali che sono la comunità stessa ed il tipo di vita/modello economico di produzione-consumo ed interazione con l’ambiente su cui fonda la propria sussistenza e la forma che prendono le giornate e le attività dei suoi membri.
Pertanto, non è possibile immaginare di recuperare l’etica propria di una comunità integrata al proprio interno (e con l’ordine che regola l’ambiente naturale in cui essa vive) ispirandosi ai valori propri di quelle che furono, senza riportare anche (non la forma in modo letterale, che sarebbe impossibile, ma) le funzioni portanti di una tale comunità alle condizioni che esse stesse producevano quei valori.
Per andare più sul concreto, dunque, è solo entro un livello di sviluppo (o entro un livello di
“povertà” – concetto molto relativo al tipo di società in cui si vive) che le persone, muovendosi sulla base della necessità, riconoscono legami e bisogni reciproci, rispettano il valore complessivo dei comportamenti integri e della lealtà. E’ solo quando non siamo tutti liberi, mobili (“liquidi”?) ed intercambiabili che dobbiamo tener fede ai nostri impegni e dire sì come sì e no come no. Dobbiamo percepire la necessità di avere dei valori per rispettarli e questo può avvenire solo entro una certa misura di sviluppo, di ricchezza (o povertà) e di consumi. Entro comunità legate al territorio e perciò ad uno specifico tipo di adattamento all’ambiente e le cui dimensioni non superino un limite contenuto. E’ necessario rispettare una misura in tutte le dimensioni su cui un insieme sociale può crescere perché il “senso” che la riunisce possa radicarsi e preservarsi su basi concrete e vitali (riunire e preservare sono anche il significato etimologico della parola”religione”).
E’ per questo motivo che le proposte che oggi vanno sotto il nome di Decrescita (ammesso che non degenerino nell’ennesima moda spennellata di verde), sebbene possano guardare solo ad alcuni aspetti di ciò che in un’ottica più ampia potrebbe far parte di ciò che alcuni chiamano
l’ “antimodernità”, hanno un’importanza prioritaria, decisiva, senza la quale non si va da nessuna parte.
Il recupero di un senso fondante del vivere non verrà perché “è giusto che ci sia”, e neanche perché qualcuno vorrà fare una crociata per restaurarlo, ma solo se sarà radicato in una condizione materiale che lo renda necessario.
Non perché esista solo la materialità ed il resto siano fantasie utili a giustificare degli interessi, ma perché, al contrario, nella realtà, nel darsi fattivo delle condizioni, c’è sempre un aspetto di intellig-enza, di illuminazione, che è ciò che troviamo quando comprendiamo che la Realtà, di cui siamo parte, esprime sé stessa, ma non secondo una logica umana, bensì una molto più ampia e impersonale.
Se è vero – come è vero – che ritrovarsi in comunità di simili è un’esigenza umana, tanto è vero che si cerca sempre di crearne quando si è giovani (e che un’infinità di movimenti dai localistici alle nicchie subculturali esprimono questa esigenza su piani che vanno dal politico al vandalistico) ;
se è vero che una volta queste comunità (con tutta la loro cultura di senso) accompagnavano gli esseri umani lungo tutto il corso della loro vita, morte compresa;
se è vero che ciò accadeva quando si trattava di piccoli insiemi sociali legati dalla condivisione di economie di piccola scala, molto spesso agricole e comunque basate sull’autoproduzione e l’autoconsumo in cui il denaro liquido aveva una parte accessoria/complementare e certo non assoluta come oggi, mentre oggi le pseudo-comunità (senza radici) che i giovani cercano di creare si sfaldano proprio non appena questi incontrano il mondo del lavoro (ormai del tutto sradicante e tutt’altro che a misura d’uomo);
se ciò è vero, non ci è difficile capire come la disgregazione socio-etico-culturale presente abbia una madre che è la fine della dimensione di vita contadina e la sostituzione di questa con quella prima industriale ed ora consumista-globalizzata: l’avvelenamento e poi lo sradicamento definitivo di ogni radice.
A questi processi storici in cui milioni di persone si sono gettati perseguendo il sempre più grande-sempre più ricco-sempre più potente non si può opporre una carica contro i mulini a vento in nome del sempre più giusto-sempre più sacro-sempre più puro. Perché anche questa, al pari di quelli, non ha radici nella Realtà.

La Realtà, la Vita, non si divide in qualcosa di “inferiore” e di “superiore”, ma abbraccia tutti gli aspetti (sembra contraddittoria proprio perché è vasta e viva). Il suo solo senso (di “scopo”davvero non si può parlare) è quello di vivere: complessivamente (quindi non solo da un punto di vista umano) ed in armonia. Per questo il solo principio, la sola saggezza sempre valida è il senso della misura: è concretamente da questo che bisogna ripartire nel costruire su basi strutturali nuove reti umane, nuove comunità e con esse il senso della loro esistenza, del nostro vivere. Ripartire da semplici condizioni strutturali sostenibili ed accettabilmente “povere” con la comprensione e la fiducia che la misura (e la capacità di comprendere quella giusta di volta in volta) sia un valore in sé, perché la Realtà – che ce la mostra questa misura – non è semplice “materia”, ma è, al tempo stesso, intelligenza autoregolantesi. Per capire questa intelligenza non dobbiamo fare un passo indietro ancora verso un antropocentrismo, per quanto depurato, ma uno avanti verso un punto di vista più ampio.
Ed è per questo che possiamo coniugare il recupero dell’origine/essenza fondante delle tradizioni con la liberazione dalle loro forme restrittive, il cui rifiuto continua tutt’oggi ad alimentare la modernità.

mercoledì 16 settembre 2009

Prove generali di influenza M(ediatica)

Viviamo in un mondo così ricco di informazione da esserne perfino inflazionato. Essa costituisce in sé un settore sempre più importante dell’economia e dell’occupazione e molti degli altri settori produttivi le sono legati a doppio filo in un modo o nell’altro.
Crediamo che ciò ci dia la possibilità di essere più avvertiti della realtà in cui viviamo e di poter fare le nostre scelte in base a considerazioni razionali, certo più razionali di quanto avveniva in epoche precedenti. Molti di noi sono anche convinti che l’informazione sia la via maestra per sconfiggere le varie forze di potere che sfruttano ed opprimono i popoli e per creare una società più equa e democratica. Non senza ragioni, senza dubbio: se le cose non si conoscono non si possono neppure criticare, né contrastare, né combattere. Ma i fatti dimostrano che l’informazione di per sé non è sufficiente o che non è il punto decisivo e forse che il suo effetto in un senso o in un altro dipende molto dal contatto diretto con la realtà che le condizioni pratiche di vita delle persone permettono o meno: una cosa che è molto ridotta proprio dal sistema che informa questa civiltà virtuale dell’informazione.

Senza voler suggerire letture dietrologiche e ipotizzare improbabili teorie del complotto, grandi fratelli e quant’altro, l’attuale fobìa di massa per la nuova influenza A(/H1N1) dimostra come ormai il potere che i media hanno sulla mente delle persone è ampiamente al di là della dicotomia tra informazione e disinformazione: non è più neanche necessario diffondere notizie false o manipolarle ad arte per ottenere l’effetto voluto. Le notizie vere e proprie, quanto ai fatti, che vengono date su questa malattia sarebbero in effetti tali da non destare grande preoccupazione: si parla di un virus che si diffonde facilmente ma non particolarmente pericoloso, si contano un numero di vittime limitatissimo, alcune delle quali risultano poi non dovute con certezza ad esso.
Nonostante questo è sufficiente il tono allarmistico con cui si diffondono le notizie, perfino nel momento in cui si mostra di voler prevenire possibili ondate di panico incontrollabili (come secondo effetto collaterale proprio anch’esso di una “vera” pandemia) per far sì che la sensazione dell’emergenza di turno regni sovrana nelle breaking news dei notiziari di tutto il mondo per mesi e che misure di sicurezza anche visibilmente irrazionali vengano accettate come risposte sagge e dovute ad una situazione che non permetterebbe alternative. Così come viene accettato l’immenso esborso di risorse pubbliche che in seguito ad una tale campagna si stanno trasferendo nelle casse delle grandi compagnie farmaceutiche che arrivano puntuali col loro nuovo vaccino (spacciato per indispensabile) all’inizio della stagione ed alla maturazione dei frutti della semina mediatica nell’opinione pubblica.
Semina (terroristica) di informazioni che, quanto ai fatti, non possono essere accusate di falsità, dato che – immaginiamo – non riportano morti che non ci sono o studi medici inventati, ma solo informazioni. Come tali esse formano non una “opinione”, ma una “informazione” pubblica e pertanto si presume trattarsi di qualcosa di fondamentalmente razionale.
Purtroppo però non si tiene conto della velocità con cui il fiume di innumerevoli notizie di ogni genere scorre davanti ai nostri occhi, della distrazione con cui le percepiamo nel mezzo della nostra vita indaffarata, dell’incompetenza della quasi totalità del pubblico quanto ad argomenti scientifici (e non solo) in un mondo in cui sempre più sono richieste conoscenze specifiche per poter valutare le problematiche contenute nelle notizie. Non si tiene conto di fattori emotivi (tutt’altro che razionali) che agiscono in modo decisivo in chi recepisce notizie allarmanti su potenziali rischi per la vita propria e dei propri cari e su pericoli ed emergenze che sono al tempo stesso occasioni di una sorta di protagonismo in una chiamata a raccolta planetaria per essere pronti tutti insieme a combattere la minaccia di turno.

Probabilmente questa “bolla” sanitaria (ci sono anche queste oltre a quelle finanziarie – ma per chi ha investito tempestivamente in azioni farmaceutiche sarà durata il tempo giusto a trarne il suo guadagno) sarà stata gonfiata al solo scopo del profitto derivante dai vaccini e business collegati, senza una vera regìa che voglia verificare la potenza dei puri e semplici toni con cui vengono diffuse le notizie: per questo si dovrebbe ipotizzare un regista globale che saprebbe molto di fantapolitica.
Ma più importante di chi guida la macchina è come la macchina si muove ed oggi abbiamo di fronte la dimostrazione di quanto pandemie planetarie di paure ed illusioni siano producibili e manovrabili facilmente senza neppure esporsi all’accusa di manipolare i fatti. Esporsi ad una tale accusa sarebbe troppo pericoloso oggi che l’informazione e la verifica delle notizie è alla portata di tutti. Ma è la gestione del loro effetto che rimane alla portata esclusiva di chi ha il maggiore “volume di fuoco” mediatico e non ci rimane grazie all’oscuramento degli elementi di conoscenza che fonti alternative possono portare, bensì in base alla presa emotiva di cui è capace, tanto più potente quanto più, nel muoversi sul piano dell’ “informazione”, riesce così bene ad occultare la sua natura irrazionale.
Se poi davvero, alla guida della macchina non c’è nessuno….forse la situazione è perfino peggiore.

giovedì 6 agosto 2009

Un articolo dal sito della DecrescitaFelice (www.decrescitafelice.it)

Faccio una eccezione al mettere sul Blog solo cose scritte da me per riportare questo intervento di Roberto Spano al convegno del IRS in Sardegna che ho preso dal sito www.decrescitafelice.it e che trovo pienamente condivisibile e da diffondere.



di Roberto Spano

Di seguito il testo dell’intervento presentato da Roberto Spano a Milis (OR) il 25 Luglio scorso durante Festa Manna, l’appuntamento annuale organizzato da IRS, il movimento indipendentista sardo di ispirazione gandhiana e pacifista.

- Buongiorno a tutti, grazie per avermi invitato a questo evento e vorrei subito fare le più sincere congratulazioni a IRS e a tutti gli organizzatori di questa bellissima Festa Manna, e in particolare per aver voluto introdurre nel calendario dei dibattiti e degli incontri anche il tema delle “Economie Differenti”.

Mi chiamo Roberto Spano, sono di Orroli e in questa sede rappresento MDF, il Movimento per la Decrescita Felice che si pone lo scopo di introdurre nel dibattito politico il tema appunto della Decrescita economica, cioè di quel nuovo paradigma culturale che va a proporsi come una concreta alternativa e soluzione ai disastri (economici, occupazionali,ambientali, sociali e climatici) causati dal mito della crescita economica e dell’aumento del PIL.

Prima di entrare nel merito della proposta di MDF vorrei subito portarvi i saluti di Maurizio Pallante, fondatore e attuale presidente del Movimento per la Decrescita Felice, che non ha potuto materialmente essere presente oggi qui per altri impegni, nonostante il grande interesse che nutre per la Sardegna e per le possibilità che la nostra terra possa divenire davvero un laboratorio politico e pratico della Decrescita. Pallante conosce bene la nostra terra per esservi venuto molte volte partecipando a dibattiti e convegni sulla Decrescita. Anche recentemente è stato in Sardegna due volte, una a fine maggio per una serie di conferenze organizzate dall’Università di Cagliari e di Sassari e poi ancora a fine giugno a Gavoi, invitato dagli organizzatori del Festival Letterario per commentare assieme ad Ermanno Olmi il documentario “Terra Madre”, l’ultimo lavoro del grande regista bergamasco.

Ora proverò ad introdurre il concetto della Decrescita Felice, partendo anche dalla mia esperienza personale, ma vi invito ad approfondire il tema leggendo le pubblicazioni di Pallante e gli altri lavori editi da MDF che rappresentano le fonti principali di questo mio intervento.

La base teorica del concetto di Decrescita Felice muove dalla consapevolezza che il PIL è uno strumento assolutamente incapace di misurare il benessere (o se vogliamo… la felicità) delle persone.

Che il PIL non misuri la felicità delle persone non è certo un’idea originale di MDF, se pensiamo che già nei primissimi anni ’60, pochi mesi prima di essere assassinato, J.F. Kennedy pronunciava il suo famosissimo discorso dove affermava a chiare lettere che “…il PIL è in grado di misurare di tutto ma non quello che è davvero importante per noi come esseri umani.”

Allora chiariamo subito: il PIL non misura la ricchezza di uno Stato, non misura il benessere della popolazione, non misura la qualità della vita di una comunità. Il PIL misura solo la quantità di merci e servizi scambiati per denaro in un dato territorio per unità di tempo (in genere un anno).

Ma cosa significa questo? Significa che se ad esempio si realizza una speculazione edilizia su una pianura fluviale fertilissima come quella di Capoterra, cementificando selvaggiamente ottimi terreni agricoli e trasformandoli in schiere di villette e quartieri residenziali e dormitori… noi stiamo aumentato il PIL perché i guadagni dei proprietari dei terreni che hanno venduto, i profitti dei palazzinari che hanno edificato e i salari degli operai che hanno lavorato, risultano maggiori rispetto alla resa economico/monetaria di quelle stesse terre se fossero state invece coltivate per produrre cibo fresco, sano e vicino alla città.
Se poi Cagliari e tutto il Campidano hanno perso migliaia di ettari di terreno agricolo e per sfamare tutta la popolazione residente si deve ricorrere all’importazione di cibo da fuori … bhè il PIL cresce ancora. Se poi si è anche deviato il corso naturale di un fiume e si è costruito anche sopra i nuovi argini artificiali (il terreno edificabile vale tanti soldi e non se ne può sprecare neanche un metro quadro) e succede una alluvione che fa straripare il fiume, che abbatte gli argini e, riprendendosi il suo corso naturale, distrugge, allaga e rende inagibili centinaia di abitazioni e rende “senza tetto” migliaia di persone…. bhè… grande soddisfazione perché il PIL cresce ancora e tantissimo!!! Basti pensare alle enormi somme che verranno spese in movimento terra, ricostruzioni, ristrutturazioni, riurbanizzazioni, impiantistica, alloggio negli alberghi degli sfollati, riacquisto di tutte le suppellettili, mobili, elettrodomestici, vestiti, automobili e quant’altro andato distrutto nell’alluvione. Che pacchia per il PIL!!! Pensate se il comune di Capoterra nel ’69 avesse resistito alle pressioni degli speculatori e avesse negato l’urbanizzazione di quei terreni… quanta ricchezza avrebbe fatto perdere!!!

O ancora: se una petroliera rovescia il suo carico di petrolio in mare… il PIL cresce con le operazioni di bonifica. Se a causa del traffico eccessivo nelle strade accadono incidenti… il PIL cresce col lavoro dei carrozzieri (e col trasporto dei pezzi di ricambio, visto che ormai non si ripara più nulla, ma si sostituisce tutto). Se poi grazie al traffico si creano ingorghi che ci tengono incolonnati in fila col motore acceso a fare pochi metri all’ora… il PIL cresce col consumo di carburante. E se poi a causa di tutto il veleno che respirano, molte persone si ammalano di bronchiti croniche e tumori…. dobbiamo festeggiare perché il PIL cresce tantissimo col lavoro degli ospedali e i profitti delle casa farmaceutiche.

Gli esempi possono continuare all’infinito e ognuno di noi può “divertirsi” a trovarne tanti, ma il concetto è sempre lo stesso: nonostante quello che viene ripetuto in continuazione, il PIL non misura il benessere della popolazione ma solo (ripetiamolo) il valore monetario della somma delle merci e dei servizi scambiati sul mercato.

E qui arriviamo a un concetto che invece questo si è una elaborazione originale di MDF: la differenza profonda che vi è tra Beni e Merci.

Le merci come abbiamo visto sono manufatti o servizi che hanno un valore monetario ma a cui non corrisponde automaticamente un corrispettivo benessere delle persone. Anzi, anche dagli esempi appena fatti e da quelli che state divertendovi a immaginare, capiamo che troppo spesso le merci corrispondono invece a una diminuzione della qualità della nostra vita.

I beni invece sono quei manufatti, quei prodotti e quei servizi che soddisfano direttamente un bisogno o un desiderio delle persone, senza necessità di un’intermediazione monetaria. I pomodori autoprodotti nel mio orto (è un esempio reale) soddisfano il bisogno e il desiderio di cibo sano e gustoso per me e la mia famiglia, ma non ho avuto bisogno di comprarli con denaro. Quando il mio bambino gioca con i nonni perché i genitori sono impegnati nel lavoro e nell’autoproduzione, e quando i nonni hanno bisogno di assistenza perché gli acciacchi dell’età arrivano per tutti, noi non abbiamo bisogno di spendere soldi ne per l’asilo nido ne per la badante, perché siamo autosufficienti e ci scambiamo vicendevolmente servizi (di qualità sicuramente superiore rispetto agli stessi servizi svolti da professionisti che lo fanno in cambio della parcella) in una dimensione conviviale e di dono reciproco.

Ecco quindi due elementi fondanti la proposta della Decrescita Felice: l’autoproduzione e lo scambio comunitario, conviviale e quindi non mercantile.
Poi è chiaro che ci sono beni che non posso ne autoprodurre ne scambiare, pensiamo agli occhiali per noi miopi, a un computer, o a una visita medica specialistica, che devo quindi necessariamente procurarmi sotto forma di merci. Ma appunto capiamo che la sfera mercantile è si necessaria, ma non “necessariamente” invasiva e totalizzante come la nostra società che si basa sul mito della crescita ci ha praticamente costretto a credere.

Se volessimo visualizzare graficamente questi concetti potremmo pensare a tre cerchi concentrici, in cui quello più interno è costituito dall’autoproduzione, quello intermedio dal dono e dallo scambio non mercantile e infine, quello più esterno dagli scambi mercantili. Cosa è successo, diciamo negli ultimi due secoli, con un’accelerazione impressionante negli ultimi 50 anni? È successo che il cerchio più esterno ha fagocitato quasi del tutto gli altri due cerchi interni. Per cui oggi, a parte la preparazione dei pasti (ma con quali cibi?), la pulizia della casa e i servizi essenziali ai figli, praticamente una famiglia mononucleare, che viva in un condominio urbano, con magari entrambi i genitori occupati, dipende totalmente dal denaro per procurarsi il necessario (e il superfluo) per vivere. Non c’è tempo per lavare l’insalata (e la si compra a prezzi altissimi già lavata e plastificata, assieme a salti in padella e pane gommato nei centri commerciali) figuriamoci per autoprodurla! E in quali terreni poi, se la speculazione cementizia, fondamentale per la crescita del PIL, ha lasciato giusto qualche striminzito giardinetto pubblico dove crescono rigogliose solo le siringhe usate?

E tutto questo perché? Perché nella società che si basa sulla crescita economica e quindi sulla necessità di comprare con soldi tutto quello che serve… le persone “devono” essere occupate solo a “vendere” il loro tempo/capacità in cambio di denaro per poter comprare sotto forma di merci (di qualità inferiore) quei beni e servizi che non hanno il tempo e la possibilità di autoprodursi o di scambiarsi convivialmente perché… devono lavorare! Non sembra anche a voi che ci sia un corto circuito logico?
E se consideriamo che questa folle quantità di attività economiche, necessarie alla crescita è la prima causa dello sconvolgimento planetario del clima (con l’iper produzione di CO2) e del deterioramento gravissimo dell’ambiente naturale, non vi sembra che il corto circuito logico sia ancora più grave?
E se consideriamo che facciamo una vita stressante, soffocante, mangiamo cibo precotto e importato di nessun sapore e ancora minori capacità nutritive, passiamo ore e ore in auto in mezzo al traffico, lasciamo i nostri figli e i nostri genitori con estranei salariati, ci ammaliamo di più e consumiamo quantità record di antidepressivi e ansiolitici…. Non vi sembra che il corto circuito logico assomigli sempre di più alla bottiglia di Tafazzi?

Ma, qualcuno potrebbe obiettare, la crescita economica ha portato occupazione per tutti… A parte il fatto che inviterei quel qualcuno ad andare a dirlo ai cassintegrati di Porto Vesme, di Porto Torres, di Ottana. Ai minatori del Sulcis. Ai laureati con 110 precari nei call center. Agli artigiani e ai commercianti che chiudono bottega e attività. Ai giovani e meno giovani disoccupati e ciondolanti nelle strade e nei bar dei paesi e delle città, attenti solo a non perdersi il mese di “Lavori Socialmente Utili” benevolmente finanziati da sindaci e consiglieri in fregola elettorale… Che ci vada a dirlo che la crescita economica ha dato occupazione a tutti… non garantiamo certo per la sua incolumità! Ma aldilà degli esempi empirici (che però sono sotto gli occhi di tutti) sono proprio i numeri ufficiali dell’Istat a smentire questa menzogna. In Italia (mi perdonino gli amici di IRS se faccio quest’esempio…) dal 1960 al 2000 il PIL (calcolato a prezzi costanti) è più che triplicato passando da circa 400mila miliardi di lire a circa 1.400mila miliardi, la popolazione è aumentata del 15% (da 50 a 60 milioni), ma il numero di occupati è rimasto identico intorno ai 20 milioni! In pratica, un aumento così alto del PIL (il triplo), non solo non ha fatto crescere l’occupazione in termini assoluti (ferma a 20 milioni), ma addirittura l’ha fatta diminuire in percentuale, dal 41,5 (1960) al 35,8 (2000) della popolazione. In pratica si è avuto solo un passaggio di occupati dall’agricoltura all’industria fino agli anni ’70 e un ulteriore passaggio dall’industria ai servizi dagli anni ’80 a oggi. Bel progresso… così adesso invece del grano coltivato in Pianura Padana o in Trexenta, mangiamo grano transgenico prodotto industrialmente in Cina o in Ucraina, trasportato con enorme consumo di petrolio, e coltivato sfruttando vergognosamente manodopera locale che, da piccoli contadini autonomi e autosufficienti, sono stati trasformati in braccianti agricoli salariati e incapaci ormai di provvedere dignitosamente alle esigenze della loro famiglia. Che quindi lasciano le loro terre e preferiscono affrontare i rischi della clandestinità (e oggi anche delle pene inflitte dal governo italiano per il reato omonimo) sperando di trovare occupazione salariata in quelle fabbriche e quei capannoni della Pianura Padana, o della Trexenta, o di Perd’’e Cuaddu a Isili che hanno si preso il posto dei terreni agricoli… ma che adesso sono chiusi (con tutte le conseguenza di inquinamento ambientale che sappiamo) per la saturazione del mercato che non è più in grado di assorbire la folle corsa alla produzione infinita che esige la società basata sulla crescita economica.

Allora stiamo cominciando a metterci almeno il dubbio che la crescita economica sia l’inevitabile strada da percorrere per il nostro benessere, così come politici, banchieri (ad eccezione dell’amico di Banca Etica) e speculatori, col supporto massiccio dei mass-midia e delle istituzioni, si affannano a farci credere?

Iniziamo a capire che l’attuale crisi economica non è un evento congiunturale, dovuto a cause accidentali che può essere superata con l’incoraggiamento a “spendere e consumare di più per dare slancio all’economia”? Lo stiamo capendo che questa crisi è strutturale e che le sue cause sono tutte interne proprio al suo caposaldo della crescita infinita? Questa crisi, non è solo una crisi della finanza come vogliono farci credere minimizzando il problema e spostando l’attenzione sulle virtù auto rigeneratrici della c.d “economia reale”. Cioè sull’economia del mattone e del bullone, cioè sull’economia della produzione e vendita di merci. Questa crisi è prima di tutto una crisi proprio dell’economia reale dovuta alla sovrapproduzione di merci rispetto alle capacità di assorbimento di un mercato ormai saturo. I cosiddetti mutui “subprime” che sarebbero secondo gli analisti la causa scatenante della crisi, scaricandone le responsabilità solo sulle banche che concedevano mutui per l’acquisto di case anche a soggetti incapaci di restituirli e poi rivendevano il titolo drogato ad altre banche più ingenue, sono in realtà dovuti alle pressioni del mercato edile americano che stava rallentando perché nessuno comprava più casa, perché non ce era più bisogno. Gli Stati Uniti sono il territorio più cementificato del mondo. Ma.. se non si comprano più case… l’economia rallenta, il PIL scende e i profitti degli speculatori diminuiscono! Prospettiva terrificante in una logica di crescita. Ecco quindi le pressioni sulle banche per “facilitare” le concessioni di mutui che avrebbero fatto ripartire ruspe e cantieri. E la globalizzazione ha fatto il resto.

D’altronde non servono complicati calcoli con logaritmi di terzo grado, ma basta l’aritmetica che si studia in terza elementare per capire che, in un sistema a risorse limitate come il nostro pianeta, non è possibile una crescita infinita. Ma forse proprio perché così evidente, è un concetto difficile da accettare.

La crisi attuale è una crisi assieme economica, ma anche ambientale e climatica legate assieme. Cioè stiamo correndo follemente verso il baratro dell’autodistruzione planetaria, continuando per giunta ad accelerare!

Quando si fanno paragoni e paralleli con la famigerata crisi di Wall Street del ’29 dobbiamo sapere e capire che sono paragoni inadeguati… ma per difetto!!! Cioè la crisi del ’29 era una crisi infinitamente meno grave di quella che stiamo attraversando oggi, perché si limitava solo alla sfera economico/finanziaria e non coinvolgeva anche l’ambiente e il clima. E quindi anche le soluzioni non possono essere le stesse. Se nel ’29 fu possibile mettere una toppa con interventi macroeconomici di ispirazione keinesiana, oggi non è più possibile, nonostante che i governi (specie quelli di destra, dall’attuale italiano al precedente americano) invochino ora (ma la destra non era per il libero mercato???) interventi statali e assistenziali per finanziare con soldi pubblici la ripresa dell’economia a partire dall’edilizia (abitativa e infrastrutturale come le c.d. Grandi Opere) e dall’industria automobilistica.

Oggi questi interventi non sono più possibili. Mettiamocelo bene in testa. Chi sostiene questi interventi è un folle (perché sarebbero inutili) e un criminale (perché produrrebbero solo un accelerazione verso la distruzione del pianeta e della vita nella biosfera).

Oggi la popolazione mondiale consuma con le proprie attività economiche un terzo in più delle risorse che il nostro pianeta sia capace di riprodurre in un tempo dato. Cioè ogni anno noi consumiamo un terzo di pianeta in più di quello che potremmo permetterci. È come se una famiglia di quattro persone, con un reddito mensile di €1000 ne spendesse regolarmente 1.300 ogni mese. Noi tutti capiamo che quella famiglia, continuando a intaccare così pesantemente i propri risparmi (invece di vivere delle sue risorse rinnovabili) andrà ben presto in rovina. Quindi, se spostiamo l’ordine di misura dal singolo nucleo familiare, all’intera popolazione mondiale, capiamo che per la prima volta dall’esistenza dell’uomo sulla terra, stiamo mettendo a gravissimo rischio la nostra stessa possibilità di sopravvivenza. Ma non è tutto! La situazione è ancora più grave di quello che si possa credere, se consideriamo le vergognose disuguaglianze che si celano dietro a questo dato aggregato. In realtà è come se dei € 1.300 che la nostra famiglia di quattro persone spende ogni mese… 1000 li spendesse da solo un unico componente, mentre gli altri tre ne spendessero assieme appena 300. E’ una follia vero? Eppure questa è la realtà! Il 25% della popolazione mondiale (noi occidentali sviluppati tanto per capirci) consuma da sola il 75% delle risorse totali, mentre il restante 75% di popolazione (più di 4 miliardi di esseri umani) accede appena al 25% delle risorse.

Cosa fare allora? È possibile secondo voi proporre come soluzione che anche gli altre 3 familiari consumino € 1000 ciascuno portando il fabbisogno della famiglia a € 4000/mese (ricordiamo che le risorse utili sono sempre 1000/mese)? Chiaramente no!! Qualunque persona di buon senso capisce che questa soluzione non farebbe altro che accelerare la rovina economica di quella famiglia. Eppure, per quanto incredibile, per quanto folle, per quanto criminale, questa è la soluzione che governi, partiti di destra e di sinistra, istituzioni, banche, organizzazioni sindacali, datoriali e Ong, mass media e lobby economico/finanziarie continuano a chiedere a gran voce per risolvere la crisi economica della “famiglia/mondo”.

Il Movimento per la Decrescita Felice propone invece come soluzione, immediatamente attivabile, facile da realizzare e soprattutto efficace, l’uscita dalla prigione concettuale della crescita infinita e omnicomprensiva per ridurre (non eliminare!!) la sfera degli scambi mercantili (e quindi del PIL) e aumentare di dimensione ed importanza le sfere dell’autoproduzione (a partire dal cibo e dall’energia) e degli scambi non mercantili o del dono.

Avere meno bisogno di denaro per comprare tutte quelle merci che invece mi posso autoprodurre (ad esempio con l’orto/frutteto in terra e col fotovoltaico sul tetto) o scambiare sotto forma di dono reciproco nella mia comunità o di organizzazioni conviviali come i GAS, significa avere meno bisogno di svolgere un lavoro retribuito e quindi avremo un alleggerimento della pressione occupazionale.
Facciamo un esempio pratico: in Sardegna risultano “occupati” (comprendendo sia i lavoratori dipendenti pubblico/privati che i liberi professionisti e gli imprenditori) circa 520/550mila persone, mentre i “disoccupati” risultano essere circa 150/180mila. È facile capire che se appena 200mila “occupati” potessero permettersi di lavorare part-time perché la metà dei loro fabbisogni li soddisfano con l’autoproduzione e col dono reciproco… ecco risolto facilmente (e a costo zero) il problema della disoccupazione in Sardegna che invece sindacati, partiti, chiesa e istituzioni fanno apparire come angosciante, irrisolvibile, difficilissimo e gravissimo. E necessitante di ingenti investimenti, arditi piani di sviluppo, folte commissioni d’inchiesta e parcelle d’oro a “think tank” di consulenti cervelloni che, magari dal ritiro dorato di convegni in lussuosi resort della costa a spese di Mamma Regione (cioè di noi poveri indigeni/indigenti), sentenziano che l’unico modo per uscire dal grave sotto sviluppo che attanaglia (secondo loro geneticamente) noi poveri sardi.. è quello di far crescere il PIL con forti iniezioni di cemento per nuove case vuote e hotel super accessoriati da usare due mesi all’anno, e per nuove zone industriali con tanti capannoni di ferro ed eternit che, oltre agli ingenti finanziamenti pubblici concessi ai generosi imprenditori milanesi, arabi e americani che graziosamente accettano di venire in Sardegna a “creare lavoro”, produrranno tanti cassintegrati che così avranno il diritto di protestare, guidati dagli eroici sindacati, a chiedere anche loro un bel posto pubblico in Regione, magari in uno dei tanti enti parassitari che si era cercato di chiudere e che pare invece stiano riaprendo i battenti.

Riusciamo a capire quanto sia folle questa soluzione? Ma lo capiamo che, rimanendo dentro la sfera drogata dell’imperativo alla crescita costante e infinita del PIL, è l’unica soluzione che riescano a dare? Ma allora dobbiamo spezzarla questa sfera maledetta. Romperla in mille pezzi e liberare le energie pulite, sane e rinnovabili della Decrescita. Partendo dal risparmio e recupero degli sprechi che invece oggi rappresentano una delle voci più importanti nella formazione del PIL. Pensiamo solo agli sprechi energetici delle nostre case mal coibentate e riscaldate con combustibili fossili. In Italia per riscaldare gli edifici si consumano 200 chilowattora al metro quadrato all’anno. La normativa in vigore nella provincia di Bolzano e in altri paesi europei (freddi come la Germania e la Svezia!!!) non consente di costruire nuovi edifici o di ristrutturare gli edifici esistenti se il loro consumo ne richiede più di 70 (quindi appena 1/3), ma già oggi le tecnologie più avanzate permettono di costruire case che non richiedano più 15 kwh (quindi 1/15)! Questo vuol dire che noi sprechiamo (quindi paghiamo, e quindi abbiamo “bisogno” di lavorare per procurarci i soldi) almeno i 2/3 dei combustibili che bruciamo per riscaldare la nostra casa. Cioè paghiamo fior di quattrini, procurati magari con un lavoro odioso e usurante, per qualcosa di cui non godiamo perché 2/3 dei combustibili che bruciamo, invece di riscaldare la nostra casa vengono dispersi nell’atmosfera e riscaldano il cielo sopra di noi (oltre ad aver prodotto 2/3 di Co2 in più del necessario). Questo spreco di calore non ci porta alcun vantaggio, anzi ci danneggia perché ci sottrae risorse economiche che potremmo usare per altro… ma… aumenta il PIL!!! Pensiamo solo alle somme spaventose che l’Italia (ma anche la Sardegna) deve spendere (e i ricatti che deve subire) per comprare dall’estero i combustibili fossili necessari… a riscaldare l’aria intorno alle nostre case!!! Ma non sarebbe meglio investire quei soldi in ricerca e stipendi (e quindi occupazione) per sviluppare e applicare massicciamente le tecnologie esistenti capaci di ridurre a 1/3 i consumi delle nostre case a parità di comfort? Ma non è meglio investire in risparmio energetico (che crea nuova occupazione qualificata nell’edilizia, nell’impiantistica e nelle fonti rinnovabili) invece che in produzione e importazione di combustibili fossili e in edilizia convenzionale, settori che perdono occupati al ritmo crescente che conosciamo? Certo che è meglio… ma le lobby petrolifere, del gas e del carbone (cioè i veri poteri forti che dominano la politica e l’economia della crescita) vedono come fumo negli occhi (e a loro il fumo da fastidio…) politiche e pratiche che mirano a una diminuzione del consumi di fonti fossili.
E lo stesso discorso lo possiamo fare per la gestione dei rifiuti puntando, prima di tutto, alla loro riduzione e poi al loro riciclo tramite la raccolta differenziata e alla produzione delle c.d materie prime secondarie, tutte pratiche che diminuiscono il PIL ma accrescono il nostro benessere, la nostra salute e l’occupazione, invece della politica di lasciar aumentare i rifiuti per poi destinarli agli inceneritori che producono veleni mortali e diminuiscono l’occupazione perché sempre più automatizzati.

Vorrei concludere con un ultimo punto, per lasciare spazio alle domande e al dibattito. La Sardegna è davvero, come dice anche Pallante, un possibile laboratorio politico e pratico della Decrescita, perché siamo appena 1.620mila abitanti per una terra di 24mila kmq (la Sicilia ha il quintuplo di popolazione e la Lombardia 8 volte tanto) ma sono necessarie politiche coraggiose e lungimiranti.
È chiaro che autoproduzione di cibo con orto, frutteto e qualche piccolo animale da cortile, e autoproduzione di energia con fotovoltaico e mini-eolico da istallare sul tetto della propria casa, sono molto difficili da attuare in un contesto urbano dove si vive circondati da cemento e in condomini plurifamiliari. Eppure, nonostante l’enorme disponibilità di spazio esistente nella nostra isola, la devastante cultura della crescita ha concentrato più di 1/3 di tutti i residenti in Sardegna (550mila sul totale) a vivere ammassati in un semicerchio di appena 15 km di raggio intorno a Cagliari. E lasciando spopolati i paesi delle zone interne, con le loro decine di migliaia di case vuote e abbandonate e di ettari di terreno coltivabile lasciati ai rovi e ai topi.
Col risultato che l’interland di Cagliari (formato da ottimi terreni fertili e irrigui) è stato trasformato in una squallida periferia/dormitorio cementificata e priva di identità e rapporti sociali e comunitari, che ormai non riesce più (se mai ci è riuscita) a “dare lavoro” nelle fabbriche e negli uffici a tutti i nuovi poveri super-accessoriati che la cultura della crescita ha prodotto, e dall’altra parte a svuotare i paesi che per millenni hanno vissuto di agricoltura e artigianato e che oggi chiudono i battenti a partire dalle scuole per mancanza di bambini.

Perché questo esodo “quasi biblico” dalle terre della propria identità, della propria cultura, della propria famiglia, della propria comunità, dove abbiamo case spaziose, ampi cortili e terre fertili, per andare a rinchiuderci nei loculi della “città necropolitana” (leggete il profetico libro di Eliseo Spiga, Placido Cherchi e Cicitu Masala “Manifesto del Comunitarismo in Sardegna”), dove si diventa automi e ingranaggi di un sistema spaventoso? Perché il lavoro della terra se è vero che produce cibo sano e gustoso… produce però meno denaro del lavoro salariato che è invece indispensabile per poter comprare sotto forma di merci (più scadenti e nocive) quei beni che prima non avevo bisogno di comprare perché me li autoproducevo o li scambiavo nella mia rete comunitaria. E il cerchio si chiude.

Ho detto che servono scelte politiche coraggiose e lungimiranti per poter invertire il senso di questa marcia folle verso il baratro della distruzione planetaria. Al momento, diciamolo subito, nessun partito, ne di destra ne di sinistra, ne in Italia, ne in Europa, ma io credo neppure nel mondo, ha scelto la Decrescita come suo paradigma culturale fondante le proprie politiche economiche. Tutti i partiti, di destra e di sinistra (così come tutti i sindacati), che sembrano darsi feroce battaglia, sono in realtà d’accordo sulla necessità della crescita economica e del PIL. Magari divergono sugli strumenti da usare tra Stato e Mercato (anche se stiamo assistendo sempre più spesso a scambi culturali che, ad esempio nelle recenti elezioni regionali, hanno visto contrapposte la sinistra liberale di Soru con la destra statalista e assistenziale di Cappellacci). Ma a parte la scelta degli strumenti, Destra e Sinistra sono d’accordo che l’obiettivo della politica deve essere quello di far crescere il PIL a qualunque costo. Compresa la morte per asfissia e avvelenamento del genere umano.

E allora che fare? Chi mi conosce sa bene che non faccio mistero di auspicare che IRS, col coraggio e la passione che li contraddistingue, faccia la scelta rivoluzionaria di essere il primo partito al mondo a scegliere chiaramente e coerentemente il paradigma della Decrescita come base di un nuovo Rinascimento per il nostro popolo e la nostra terra, che divenga un esempio luminoso per tutti i popoli di tutta la terra.

Il fatto è che la decrescita ci sarà comunque, perché le risorse del pianeta stanno finendo. La scelta se subirla con sofferenza o viverla con felicità dipende solo da noi. Grazie.-

Roberto Spano – Portavoce MDF Sardegna

venerdì 24 luglio 2009

Gli avanzi del "Nuovo"

Subito dopo Mani Pulite si parlava tanto del “Nuovo che avanza”; si pensava ad una nuova stagione della politica in Italia, alla fine dell’assuefazione al regime corrotto del “mi manda il dott. Tale…”, “sono amico di…”, degli amici degli amici ecc… Si sperava che, non avendo le inchieste colpito significativamente la Sinistra, questo, insieme alla fine della Guerra Fredda, avrebbe finalmente aperto le porte del governo per quest’altra parte politica che tanto pazientemente aveva aspettato per oltre quarant’anni. Si credeva, insomma, di voltare pagina, come s’è detto, da una “prima” a una “seconda” repubblica.
Nel decennio craxiano, i partiti si erano ritrovati finalmente liberi dalla fase del ’68 e degli anni ’70, in cui per l’ultima volta – almeno finora – il confronto/scontro politico verteva veramente su progetti alternativi di società ovvero in cui si trattava davvero di cambiare le cose e quindi c’era ancora un’ampia partecipazione popolare di tesserati e militanti a cui i leader dovevano rispondere. Finalmente liberi, dunque, questi hanno potuto dedicarsi alla “stabilità”, intesa come spartizione del potere e dei suoi vantaggi distribuiti con precisione, prima proporzionale e poi maggioritaria (anche se, poi, all’interno di schieramenti e coalizioni, ancora proporzionale: …alla fine ci si aggiusta sempre e qualcosa ci dev’essere per tutti).
La fase paludosa del sistema di cui Craxi fu il simbolo, collassato con Mani Pulite, diede il via a quella disillusione e tendenza “antipolitica”, la cui onda lunga va crescendo ancora oggi, per la quale molti credono che un requisito necessario per essere un buon politico sia quello, sostanzialmente, di non esserlo affatto.
Questa credenza (e la delusione post anni ’70 che la alimenta) è stata abilmente sfruttata sia da Berlusconi, accreditatosi al rango di statista per il fatto stesso di essere un uomo d’affari “sceso in campo”, che – meno abilmente – dai leader della Sinistra, impegnati nel frattempo a diluire l’identità e la forza del più grande partito comunista dell’Occidente in misura tale da farne rimanere ormai (nell’attuale ultimo stadio di diluizione, detto PD) solo una quantità omeopatica – che, in quanto tale, come è noto, serve ad ottenere l’effetto opposto a quello della sostanza originaria.
Anche la Sinistra, occupando progressivamente ampie fette di potere locale, si è fatta in parte impresa: una rete di imprese cooperative e non dalle quali dipendono molte persone, carriere ed interessi e così, i leader, sempre più liberi da uno scomodo confronto sul piano schiettamente politico con una base non più partecipante – e vivendo di rendita del presunto pericolo berlusconiano e relative derive autoritarie – hanno portato la loro politica su un piano sempre più tecnico.
Da questo punto di vista ciò che emerge come “nuovo” nella Sinistra è essenzialmente l’equazione tra la semplice capacità di vedere e dire le cose come stanno (e poi agire coerentemente) e l’ideologismo (dato come anticamera certa della violenza). L’assumere (nei fatti) questa equazione come credo ufficiale avrebbe dovuto (nelle loro intenzioni) accreditarli come affidabili governanti agli occhi degli elettori di centro e far di loro i leader di un paese finalmente diventato “normale” dopo tanta lunga attesa.
Nei fatti questi leader sono attualmente, con la loro – peraltro fallimentare – attenzione ad eliminare tutto ciò che dal proprio interno potrebbe allontanarli dall’accesso al governo – salvo dimenticare ciò che lo fa dall’esterno – i più diretti eredi della prima repubblica, tutti attenti agli equilibri e alle percentuali come materia di competenza per addetti ai lavori e convinti che le etichette di “destra” e “sinistra”, di “democratici” e non so cos’altro debbano bastare alla massa dei votanti. Della prima repubblica la cosidetta Sinistra attualmente riunita nel PD (ultimo approdo di questo “realismo” che avrebbe dovuto portare a sostituirsi alla DC nella guida del paese – dopo un quarantennio di opposizione fissa – ed ha finito per fondersi con ciò che ne restava fino quasi a tentare di resuscitarla) ha mantenuto l’attitudine alla politica come a un impiego a vita e la logica delle bandierine sui posti da occupare e del bilancino nei conti sul dare e l’avere per accontentare quanti più possibile (avversari compresi) e mantenere lo status quo.
Il vero fenomeno nuovo (ma non per questo tale da costituire un miglioramento) sulla scena dopo Mani Pulite – e colui che sull’antipolitica ha inventato una forza di governo – è Berlusconi (la Lega è anche nuova, a modo suo, ma per sua natura necessariamente complementare, a livello nazionale, a chi può veramente costituire un governo, e Fini – l’unico politicamente presentabile all’interno del suo partito - fa da quasi un ventennio come le remore, quei pesci che si attaccano al dorso dei grandi squali e si fanno trasportare fino al punto in cui vogliono arrivare – in questo caso il momento in cui bisognerà trovare un nuovo capo per una forza del 40% rimastane priva – non male per uno che era partito dal 10% del MSI).
Però, se la mitologia fondante della cosidetta “seconda repubblica”, con Mani Pulite, dipingeva un mondo in cui il malaffare non avrebbe più sostenuto la politica, il salto di qualità che effettivamente c’è stato, è andato decisamente in direzione contraria. L’era Berlusconi ha dimostrato come ciò che l’ha preceduta fosse ancora in una fase dilettantesca in cui si dava un colpo al cerchio dell’interesse del partito ed uno alla botte delle proprie tasche. Mentre l’esito maturo del passaggio che stava avvenendo allora (certo, in direzione opposta alle intenzioni dei magistrati allora protagonisti) si mostra oggi come una fase ben più professionale ed avanzata, in cui, l’intreccio improprio tra affari e politica, da occasionale – ancorché frequente - è diventato sistemico, fino all’attuale ribaltamento per cui è il partito-azienda ad essere lo strumento operativo di una politica diventata mezzo per sostenere i propri interessi, anche quelli non possibili, dato che li si rende tali, eventualmente, cambiando le leggi.
Ciò per cui il vero “nuovo” è stato Berlusconi, è che ha incarnato e reso esplicito quello che, prima dissimulato pudicamente dietro ideologie di facciata, è sempre stato il sogno di molti italiani, “buoni” per tutte le stagioni, che ragionano di panza e di orgoglio, bramosi di successo (o, almeno, di essere gli spettatori di quello di qualcun altro in cui si identificano e che cercano di imitare, per quanto nel loro piccolo). Gente che intende la “concretezza” non come attinenza alla realtà pratica, ma come qualcosa che dia un ritorno immediato, senza curarsi di ciò che verrà.
Il trionfo di tanta pochezza – tale da far rimpiangere (per lo stile, se non altro) gli Andreotti e persino i Fanfani (fino a i Cossiga il rimpianto non arriva: c’è un limite a tutto) anche a chi era abituato a considerarli il diavolo in persona – ha però un presupposto e cioè la disillusione e il venire meno di riferimenti ideologici autentici o, più ampiamente, di qualcosa di forte e fondante in cui credere.
Non si può imputare questo solo a Berlusconi – che ha pure sprofondato la sensibilità culturale degli italiani con le sue reti Mediaset (cosa che rimarrà come il suo danno più duraturo) – anche perché non è certo il volare alto ciò che lui ha mai venduto.
Stava alla Sinistra proporsi come contraltare richiamando e richiamandosi ad una pregnanza di significato di fronte alla quale la pochezza dell’avversario sarebbe dovuta apparire per ciò che era. Non era sul piano della diluizione dei contenuti che si poteva contrastare Berlusconi: lui era già un bel pezzo avanti in partenza quanto a questo.
Era su un ben altro tipo di concretezza che bisognava sfidarlo, anziché richiamarsi a moralistici valori tra i quali la moderazione ad oltranza e l’incapacità nell’opporsi seriamente a nulla sono diventati, col “buonismo veltroniano”, degli ideali in sé stessi, segni distintivi del cittadino maturo, politicamente corretto, che vive nel progresso realizzato, pluralista e pacificato del paese finalmente “normale”. Non essendoci più – in un tale paese – alternativa sulle questioni di fondo… non c’è neppure più bisogno di una Sinistra. L’accettazione del modello (pseudo)bipartitico panmoderato americano è di fatto il pensionamento della Sinistra e delle sue ragioni. E’ forse il destino di tutte le società capitaliste avanzate da un certo grado di sviluppo in poi (e fino a che le contraddizioni spostate fuori dai loro confini non arriveranno a presentare un conto non onorabile).
Ma ciò che (nel frattempo) non è accettabile è che i leader di una parte politica, che essi stessi hanno portato al pensionamento, restino attaccati al posto che occupano grazie alla forza d’inerzia di un passato rinnegato nei fatti, del timore di un futuro presentato a tinte fosche, ma che si cerca solo di stemperare e non di impedire alla radice, e soprattutto grazie al non essere conseguenti con le nuove ere di apertura alla partecipazione della “società civile” ripetutamente annunciate (ad ogni cambio di nome e nuova versione del partito) ma mai veramente praticate (tanto è vero che i nomi sono sempre gli stessi – non parliamo dei programmi per non entrare in nebulose indecifrabili buone a dire e/o a non fare tutto e il suo contrario, secondo i casi).
Il recente tentativo di candidatura alla segreteria del PD da parte di Beppe Grillo è una provocazione che arriva a togliere l’ultima foglia di fico rimasta a coprire un re (democratico) ormai nudo. La motivazione con cui questo tentativo è stato impedito, ovvero quella di appartenere ad un’altra forza politica, è chiaramente pretestuosa (vedi pure: “L’autodistruzione del PD” di Marco Travaglio su www.beppegrillo.it), specie di fronte al panorama del mercato politico italiano in cui il nomadismo transpartitico è all’ordine del giorno all’insegna della ferma coerenza con l’unico principio non negoziabile: quello di non rimanere mai senza poltrona.
Se il PD, e il seguito di cui godono i suoi leader, è qualcosa che esiste, Grillo perderebbe clamorosamente la gara, dimostrando così la lontananza delle sue proposte e della sua figura dall’elettorato di centro-sinistra. Se, viceversa, il comico genovese dovesse vincere o ottenere un ottimo risultato, il cambiamento che ne risulterebbe potrebbe essere l’autentica salvezza per il PD e soprattutto per il tipo di forza che dichiara di voler rappresentare.

In assenza di un quantomai necessario ripensamento profondo e rifondante che restituisca una base teorica seria sulla quale poter costruire progetti politici alternativi al sistema dominante, una “concretezza” valida ed utile, può essere quella proposta da Grillo e i suoi meetup, che si limitano a puntare su una serie di punti chiari e praticabili sui quali può convergere l’appoggio di persone “di buona volontà” provenienti da diverse tradizioni politiche.
Invece, e purtroppo, si sente ancora discutere se Beppe Grillo è “di sinistra” o no e lo si etichetta di “antipolitica”, mentre non ci si rende conto che, in quest’epoca di scarsissima motivazione e partecipazione popolare, la politica si divide sempre più tra, da un lato, quella ufficiale e di potere, per la quale basta in sostanza un solo schieramento – e non serve che sia “di sinistra” – dato che deve essenzialmente dar seguito alle linee guida dettate dagli interessi dei grandi gruppi della finanza internazionale e, dall’altro, quella dei vari gruppuscoli e movimenti che raccolgono la rabbia di chi in queste linee guida non è contemplato: i necessari emarginati e le inevitabili vittime delle frequenti “ristrutturazioni”. Non più proletari dotati di una coscienza di classe radicata nell’essere una indispensabile forza-lavoro, ma diseredati, superflui perché perfino troppo scarsi come consumatori, a cui non resta che un senso di inutilità e di inadeguatezza di fronte agli obbligatori sogni patinati a cui non hanno accesso. Anche per incanalare la loro rabbia non servirà – a quel punto – una Sinistra: perché nel dare risposte semplici ed immediate (per non dire elementari e primitive) a situazioni complesse, l’estrema destra fascistoide è e rimarrà sempre insuperabile.

Per chi una volta si riconosceva in quella che era la Sinistra, la situazione attuale è grave (non c’è bisogno che lo dica io).
E’ tempo di ripensare integralmente i propri presupposti. E di non dare più la propria fiducia a chi crede di meritarla solo per “diritto acquisito”, non più a questi avanzi di un “nuovo” mai arrivato.

martedì 16 giugno 2009

Stato di Emergenza

Nel tempo che ci separa dagli anni Settanta - periodo forse anche pieno di facili semplificazioni ed insufficienze, ma in cui ancora era diffusa l’idea di poter e voler cambiare qualcosa ed il saper pagare un prezzo per questo - molte cose sono successe. Alcune di queste sembravano una contingenza momentanea, ma in seguito hanno preso forma in pianta stabile come colonne (o stampelle?) portanti del sistema in cui viviamo.
Una di queste è certamente la presunzione di trovarsi in uno stato di emergenza, ovvero in una fase, data per momentanea, transitoria ( - certo, forse per un dato tipo di emergenza, salvo che poi ce n’è sempre subito un’altra) in cui si presenta il concreto rischio di perdere ciò che abbiamo (o che crediamo di avere) e che dobbiamo difendere a qualsiasi costo: in cui la difesa di ciò diventa la priorità del momento rispetto alla quale tutto il resto deve passare in secondo piano.
Al termine degli anni ’70 questo ha permesso la stretta repressiva, il controllo sociale e poliziesco, il luogo comune e la facile etichettatura nell’informazione che hanno facilitato l’equiparazione di qualsiasi movimento di lotta radicale con i terroristi e chi li sosteneva: la democrazia era in pericolo e perciò si poteva accettare il divieto di quasi ogni forma di manifestazione di piazza e di opposizione socio-politica in genere se non compatibile con l’oligarchia partitica i cui traffici vennero parzialmente alla luce una dozzina di anni dopo con Mani Pulite. Fino a quel momento si poté bellamente campare di rendita sull’onda lunga dell’emergenza post-terroristica: nel frattempo, falciati via i più irrecuperabili tra eroina, galera e varie emarginazioni, ci si poteva godere il rilassamento di ciò che si è chiamato il periodo del riflusso, durante il quale ha trovato spazio quella superficialità, quella dozzinalità, quell’edonismo/narcisismo da quattro soldi che oggi si chiama nazional-popolare e che è il panem et circenses col quale Berlusconi ha preparato il substrato su cui far crescere la propria ascesa politica e che è il danno di gran lunga più pesante e purtroppo più a lungo destinato a durare che questo personaggio ha potuto fare all’Italia. Danno dalle molteplici conseguenze iniziato appunto negli anni ’80 quando Mediaset ha trovato campo libero per instaurare quella che oggi (che si è estesa ben oltre i limiti delle attività di quell’azienda), con una certa pena, bisogna riconoscere come l’attuale egemonia (pseudo)culturale in Italia.
Da Mani Pulite ad oggi gli specchietti per le allodole delle “momentanee priorità” ci tirano tra due emergenze: da un lato il rischio di perdere ricchezza, privilegi e sicurezza propri dell’Occidente - in un primo tempo a causa del trito e fantomatico pericolo rappresentato dai “comunisti” (chi li ha visti?) ed oggi dalla presenza degli extracomunitari (almeno, questi ci sono) – e dall’altro quello di perdere “la Democrazia” (una di quelle parole che tanto più vengono ripetute quanto meno sono limpide nel loro significato e meno sono presenti e vitali le cose che dovrebbero esprimere ) - essendo l’esistenza stessa di Berlusconi un’emergenza in sé, che giustificherebbe ampiamente ogni otturazione di naso ed ogni accettazione obtorto collo del “meno peggio” pur di appoggiare chi gli si oppone (che finisce così per campare di rendita e nemmeno opporsi più efficacemente).

Anche uscendo dalle asfittiche mura di casa nostra possiamo vedere come, pochi anni dopo la fine dell’emergenza comportata dalla Guerra Fredda, siamo passati prima per quella degli “Stati canaglia” e del dittatore sanguinario (e precedentemente foraggiato) Saddam Hussein, per poi approdare, dall’11 settembre in poi, alla guerra permanente, contrabbandata sotto altre definizioni, ed esportata (insieme alle armi e alla “democrazia”) ora qua ora là, contro il terrorismo…. anzi, il Terrorismo.
Certo - pur senza addentrarci in dietrologie difficilmente dimostrabili e di cui altri hanno saputo argomentare meglio di me - dal punto di vista degli interessi egemonici americani, in un mondo in cui la Russia recupera forza ed orgoglio, la Cina avanza a passi da gigante, l’India e il Brasile anche le stanno dietro bene e l’Europa si distacca alla chetichella, l’11 settembre, se non c’era, bisognava proprio inventarlo – visto che, con un’economia mondiale stagnante ed un indebitamento oltre misura (in buona parte proprio verso la Cina), agli USA rimane essenzialmente la superiorità militare ed il ruolo di autonominatosi ed insostituibile poliziotto globale a giustificare e garantire il mantenimento del proprio dominio internazionale e dello standard di consumi che questo gli permette (ora c’è Obama e vedremo, ma non dimentichiamoci che le cose stanno ancora così).

Adesso è arrivata la Crisi economica: un grande pericolo che avanza e ci soffia sul collo minacciando….. cosa? A ben vedere di farci ridimensionare il nostro esagerato tenore di vita e portarci ad uno stile più sobrio e sostenibile per il pianeta, uno stile che ci potrebbe evitare problemi ben più gravi in un futuro abbastanza prossimo.
Ma noi non abbiamo tempo per guardare a questa prossimità: dobbiamo pensare all’emergenza di turno, che questa volta è veramente grande, è mondiale, ci può togliere stipendio e lavoro se dovesse peggiorare. Può togliere il futuro ai nostri figli – quelli che non stiamo più facendo o quelli il cui futuro stiamo già gravemente ipotecando altrimenti. Questa emergenza è di grande portata e potrebbe essere anche di lunga durata, magari potrebbe diventare permanente…. come la guerra al Terrorismo.
Tutto sommato somiglia un po’ all’11 settembre: non che non sia reale e non che non colpisca duramente, ma anche questa, in un certo senso, se non c’era…. bisognava inventarla.

Negli anni ’70 si diceva “la crisi è strutturale”. Si intendeva che il capitalismo è destinato a crollare come sistema a causa delle contraddizioni interne che porta con sé e nella società. Certo, probabilmente finirà così e forse anche più prima che poi. Però, nel frattempo, la crisi potrebbe diventare un elemento strutturale anche nel senso di una ulteriore stampella ormai permanentemente necessaria per evitare che ci si rivolga ad altre strade; che il disagio crescente e la ristrettezza dei margini ridistribuibili di profitto producano dubbio e sfiducia (e con essi la possibilità di vedere le cose da un punto di vista differente, di immaginare delle alternative); che questa sfiducia giunga a diffondersi in strati sociali diversi da quelli tradizionalmente emarginati. Non si deve dimenticare, in fondo, che il “Socialismo reale” – l’altro polo “postbellico” al quale il Capitalismo è finora sopravvissuto – non è crollato in seguito ad uno scontro militare, né a vere rivoluzioni interne, né alla pianificazione di progetti alternativi di società, ma si è sfaldato da sé nel momento in cui grandi settori della popolazione gli hanno sottratto nei fatti il loro sostegno e si sono rivolti ad altri sistemi di vita e di economia a partire direttamente (ed informalmente) dalle loro proprie vite.
Al sistema capitalista-consumistico oggi serve stringere le fila in vista di una tornata di contraddizioni esplosive, servono compattezza ed efficienza: la globalizzazione del consumo ha globalizzato anche la concorrenza ed i suoi attori, ha ristretto i margini di profitto e soprattutto la possibilità di usarne una parte per mantenere la gente in condizione di svolgere il proprio ruolo essenziale di consumatori. Così, all’interno di ogni nazione (o insieme sovranazionale) serve compattezza ed efficienza per vincere (o sopravvivere) nella concorrenza globale, mentre le stesse compattezza ed efficienza sono funzionali a chi agisce a livello multinazionale quali che siano gli esiti a livello locale. Tutto il sistema complessivamente (come pure ognuno dei suoi elementi) accelera ed è sempre più affamato di risorse mentre funziona in modo da dover costantemente crescere, ma (in una pluralità di agenti e nei limiti oggettivi naturali del pianeta) vede, al tempo stesso, restringersi i margini che possano alimentare questa crescita. C’è inoltre una triplice contraddizione tra le possibilità di sfruttamento dei lavoratori, la giustificazione democratica dell’intero sistema sul piano ideale/culturale (nonché, all’occorrenza, militare) e la necessità imprescindibile della crescita progressiva dei consumi delle masse per i quali queste devono avere comunque disponibilità finanziarie sufficienti. In quest’epoca democratica, ma di gigantismi e concentrazioni di potere, un sistema per essere vincente deve mantenere l’egemonia su vari piani contemporaneamente, in primo luogo quello economico e quello psicologico-culturale, perché il potere oggi non può sostenersi che con il consenso di chi lo subisce: ha bisogno della paura, ma non esercitando una pressione repressiva che crei una frattura tra il sistema e la sua base. Questa frattura è invece così ben cancellata che non sapremmo dire di chi potrebbe essere questa faccia repressiva se mai si mostrasse. La paura che ci tiene attaccati è di perdere qualcosa con cui ci identifichiamo. E’ la nostra idea di noi stessi che ci viene garantita da qualcos’altro a cui pensiamo di non poter rinunciare. Il problema va ben oltre il piano politico, ben oltre l’identificazione di un “nemico” da abbattere, il sistema non è altro da chi lo subisce, per questo la locomotiva impazzita corre così bene anche senza un macchinista.

L’edificio, tutto sommato, tiene ancora abbastanza, ma si sentono alcuni scricchiolii, alcuni granelli di sabbia si ritrovano negli ingranaggi. No, non i gruppi sovversivi o le sempre più frequenti esplosioni di rabbia da parte di quella porzione di società che il sistema strutturalmente non può includere – queste sono cose fisiologiche, già messe in conto (semmai ci si fa un’appendice di G8 ad hoc sulla sicurezza). Si tratta piuttosto di qualcosa che viene da chi ancora sta dentro al sistema, ma non se ne sente più garantito: di crescente astensionismo elettorale (che potrebbe di per sé anche tornare utile, ma anche preludere ad ulteriori dissociazioni), di distacco dalle istituzioni, di dubbio rispetto a “valori” proclamati e non praticati, di sfiducia nell’andamento dei mercati. Si tratta di stanchezza verso ritmi di vita e di lavoro troppo accelerati e competitivi, di certezze e garanzie che non ci sono più, di sfiducia verso gratificazioni e risultati che non arrivano e forse non arriveranno, di delusione per sogni che brillano in tv, ma non così poi nella realtà. Preoccupazioni di chi inizia a domandarsi se non si potrebbe forse fare diversamente, allentare un po’ i ritmi, pensare un po’ ad una diversa qualità della vita. Qualcuno si pone domande su un futuro che va oltre le prossime rate da pagare. Mentre qualcun’altro di rate da pagare ne ha già troppe e non ce la fa. E c’è chi si chiede che senso abbia tutto questo e magari pensa che, visto che ci siamo sviluppati abbastanza, e proseguire così è pericoloso e ci sono pure altri al mondo che comunque un po’ di più si vorranno anche loro “sviluppare”, forse potremmo permetterci il lusso di diminuire un pochino, di decrescere, di lasciar finalmente spazio e tempo alla qualità piuttosto che alla quantità ed alla qualità di un ben-essere, di beni non (solo)economici, non commerciabili, non monetizzabili. Chi si pone queste domande non sta guardando indietro, se non per trovare fonti d’ispirazione, esempi di casi concreti, modelli che hanno funzionato su cui riflettere. Al contrario della mancanza di realismo di cui potrebbe essere accusato, costui è più di altri consapevole del valore e del prezzo (pagato non solo da noi che ne beneficiamo) della strada che ci ha portato fino a qui, solo che lo vede come un punto dal quale andare oltre, molto oltre, verso qualcosa che sia di beneficio per tutti e per tutto e non come qualcosa da tenersi stretto e da difendere ad ogni costo per portarlo con sé nella tomba senza voler sentire ragioni.

Allora, quando ci si comincia a porre troppe domande – quando diventano sempre più evidenti le ragioni di porsele e sempre più persone avrebbero la preparazione sufficiente per farlo - diventa utile che un po’ di paura accompagni costantemente i nostri ragionamenti e li tenga entro i limiti della cosiddetta “ realtà”: ché non si allontanino troppo. Forse la minaccia della Crisi, di perdere ciò che si ha (per chi è più giovane, ciò che si è sempre avuto, e che costituisce l’unico tipo di vita che si conosce) è un buon deus ex machina perché tutti continuino a fare la propria parte, di produttori, di consumatori, perché tutti si identifichino col sistema, senza troppi dubbi. Se l’adesione dei cittadini al sistema sociale non tiene più sulla base della convinzione, di un’identità, di regole ed istituzioni condivise, di un’idea in positivo, una visione del mondo e della Storia, che lo faccia allora su quella della paura e dell’interesse a non perdere ciò che si ha.
Che lo faccia dunque su questa base, povera e negativa, nell’era della ricchezza.

La gente oggi deve capire che nell’atto di comprare e (forse ancor più) in quello di buttare per ricomprare ancora non c’è solo un ovvio aspetto di piacere nell’acquisire qualcosa di nuovo e di simbolicamente significativo, ma ce n’è anche un altro di dovere, di fare la propria parte o, se la si vuol mettere diversamente, di realismo, di interesse personale nel tenere in piedi “la baracca”– che è poi ciò che ognuno ha in comune con gli altri, in una sorta di solidarietà nell’egoismo (che può anche funzionare, fino a che tutto gira comunque abbastanza bene e le vacche son ancora grasse, ma non credo altrettanto in caso contrario).
Si ripropone ancora una volta la solita formula, secondo la quale, per risolvere i problemi causati dallo sviluppo, ci vuole più sviluppo, per quelli del mercato, più mercato, per quelli della tecnologia, più tecnologia…ecc… Non è tempo di scantonare, dunque, ma di concentrarsi sul continuare a camminare (o correre) in avanti, rimandando ad oltranza il momento di chiedersi perché e verso dove si stia andando.
Dev’esser chiaro a tutti che i consumi vanno mantenuti, ed anzi rilanciati, aumentati. Che non venisse in mente a nessuno di diminuirli. Ché nella stessa barca consumistico-tecnologica ci stiamo dentro tutti, nessuno si faccia illusioni di chiamarsi fuori e se questa affonda ci affoghiamo tutti insieme…. ché ormai qui le braccia per nuotare non le sa usare più nessuno.
In altre parole, se qualcuno non capisce l’importanza del consumare agli attuali e crescenti livelli con le (ragioni) buone, deve capirlo con le cattive. Certamente, non lo si può costringere a comprare ciò che, tutto sommato, non gli serve (almeno, a questo non siamo ancora arrivati, se non per una vasta serie di attrezzature e ristrutturazioni obbligatorie per la “messa a norma” , spesso di discutibile necessità, delle varie attività produttive e non). Ma gli si può sempre (anche nel senso di in ogni momento, in ogni TG ecc…) paventare la minaccia – che par venire da null’altro se non l’impersonale ed oggettiva realtà dei fatti e non da qualcuno che la imponga – che le cose potrebbero prendere una piega molto preoccupante se a troppe persone - più che a qualche pazzo marginale - venisse in mente che è arrivato il momento di abbandonare la barca comune dello Sviluppo che ci ha portati fino a qui (trasformatasi ormai in un vicolo cieco) e rendergli il migliore omaggio possibile lasciandocela dietro per imboccare una strada molto diversa, perfino antitetica, ma più sana, sostenibile e capace di futuro. Una strada che ora ci possiamo permettere, anche grazie a quella barca – questo non c’è bisogno di negarlo: non vuol dire ritenere “giusto” ciò che lo sviluppo ha comportato, ma semplicemente riconoscere che le cose sono andate così, che svolgono un loro percorso e che ogni cosa ha sempre diversi lati da cui può esser vista. Ma non per questo dobbiamo continuare sulla stessa via.
Il percorso delle cose non necessariamente segue una linea dritta – anzi, quasi mai. Il momento delle svolte arriva e bisogna saperlo cogliere in tempo. Le cose ce lo indicano quel momento, ma la paura può nasconderci l’evidenza e può spingerci ad identificarci con ciò che ci è dannoso e che è fonte di illusione.

Un’identificazione in cui è facile cadere, non solo per il fatto basilare che questo sistema in crisi è l’ambiente economico che ci circonda e che pervade in mille modi le nostre vite, ma anche perché le notizie e previsioni che su questa crisi possiamo avere hanno un andamento ambivalente: aspetti e fasi ora minacciose ora rassicuranti. Non c’è solo la paura: c’è anche la speranza; ora si affaccia la deflazione, ora invece sembra esserci una certa ripresa, magari non tale da avvertirsi sull’occupazione e sui prezzi, ma che permette agli economisti di presumere un qualche punto percentuale in più a partire dall’anno prossimo…. salvo che poi i calcoli potrebbero dover esser rivisti al ribasso…..ecc..ecc.. Non so: io non ho le conoscenze di “scienze” economiche sufficienti per immaginare cosa effettivamente potrebbe accadere neanche da qui a un anno. Ma il punto è che la stragrande maggioranza delle persone (e temo - seppure a un altro livello – anche degli stessi economisti) non lo sanno, né hanno gli elementi per saperlo. E neppure cosa davvero stia accadendo ora.
In ogni caso, tranne che quando il tracollo non sarà divenuto manifesto, c’è da aspettarsi che le notizie saranno sempre altalenanti, perché sarebbe troppo pericoloso il diffondersi di un pessimismo finanziario e di una depressione consumistica. La minaccia della Crisi non ha solo la funzione di previsione di qualcosa che ha più o meno probabilità concrete di accadere, ma ha precisamente quella di minaccia. La minaccia permanente, alternativamente accompagnata da momenti di speranza di segno opposto, così come il sistema pedagogico del bastone e la carota, hanno proprio l’effetto di alimentare attaccamento ed identificazione in qualcosa da cui altrimenti si potrebbe sentir ormai maturo il tempo per distaccarsi, emanciparsi. Si potrebbe pensare di esser diventati “grandi” e poter finalmente guardare a sé stessi, a ciò che veramente è la propria reale esperienza vissuta e alla realtà. Invece dobbiamo ancora restare bambini e credere alle favole.
Ma di che favola si sta parlando?
Il punto non è se la Crisi sia vera o no (ho già detto che non avrei la competenza per discutere questo), né mi interessa più di tanto analizzare in che misura può o meno trattarsi di una di quelle campagne cosiddette d’informazione orchestrate ad arte. Per chi veramente è in grado di liberare la propria vita non è sempre così necessario individuare un oppressore. Il fatto sostanziale è che la paura di perdere una condizione materiale (un livello di consumi) che viene ritenuta l’unica degna di esser vissuta e il desiderio (necessariamente insoddisfabile) di avere sempre di più e d’altro sono (insieme) elementi strutturalmente portanti del lato interno/vissuto di questo sistema e di questo modello di società.
Del resto, più si ha e più si ha paura di perdere ciò che si ha; più si accede ai livelli privilegiati ed “esclusivi” della società e più si teme di non apparirne all’altezza o di sfigurare in un qualche confronto con chi sta più “su”. Per questa strada incentrata sull’avere (che dovrebbe portare in teoria ad essere più liberi e felici) si diventa nei fatti più dolorosamente dipendenti in quanto è proprio quando sentiamo il rischio di star per perdere una cosa a cui siamo abituati che la sentiamo più necessaria. Magari qualcosa che altrimenti potremmo dare per scontata e, pian piano, perfino pensare di poterne fare a meno, superarla, specialmente se questa ci creasse pure dei gravi problemi e non ci facesse, in realtà, davvero sentire a nostro agio.
E’ un po’ come se, diventati dipendenti da un farmaco palliativo da prendere a vita, ne accettassimo i pesantissimi effetti collaterali anziché cercare un’alternativa meno impattante (o magari anche la salute) perché la notizia che questo farmaco sta diventando scarso, che le riserve stanno diminuendo, ci spaventasse a tal punto da impedirci di considerare ogni altra possibilità.

Così la paura delle conseguenze di una crisi economica profonda può far sì che molte persone si identifichino col sistema, nel proprio stile di vita e in quelli che ritengono i propri interessi, anche se ne danno un giudizio sostanzialmente negativo, subendo la pretesa necessità di sostenerlo nei fatti, anche se non nelle parole. Ma questa identificazione avviene essenzialmente solo in un’ottica passiva: così da non vedere quanto davvero siano la stessa cosa, quanto davvero stia nelle loro mani il crearlo e ricrearlo ogni giorno, come parti dei suoi meccanismi. Quanto, in realtà, questa emergenza e questo pericolo che il nostro “tutto” (ma cosa poi, esattamente?) possa andar perduto siano tali solo nella nostra testa e in quella di chi non sa immaginare altre forme di vita, né vuole che altri le immaginino, agitando così lo spauracchio di una crisi che c’è – nessuno lo nega – ma che, se non ci fosse, bisognerebbe, appunto, inventarla. Proprio per le buone opportunità che può dare a chi ha interesse a mantenere in vita questo sistema.

Come anche le dà – d’altra parte – a chi volesse cogliere delle buone ragioni per abbandonarlo, superarlo, e costruire fin da ora (quale che sarà l’esito di questa paventata Crisi) forme di vita ed economia diverse basate su ciò che veramente abbiamo, come esseri umani, e non sulle molte illusioni che ci sono sempre state vendute.

venerdì 12 giugno 2009

LEZIONI DI CHIAREZZA
(Sulla visita di Gheddafi)

Un contrasto che davvero appare evidente e significativo nel confronto tra la presenza e le parole del leader libico e quella delle varie voci politiche del paese che ne ospita la prima visita dalla fine del colonialismo italiano nella sua nazione è la differenza, stridente, tra la chiarezza dell’uno e la confusione delle altre.
Gheddafi dice chiaramente che ha accettato di venire perché l’Italia ha chiesto scusa per ciò che ha inflitto alla Libia in passato e si è impegnata a dare un risarcimento materiale cospicuo (che peraltro, come è stato già appropriatamente rilevato da varie voci, verrà pagato dalle casse dello Stato - che sono i soldi pubblici dei cittadini - ma darà al contempo cospicue commissioni di lavoro ed affari a ditte private italiane ed aprirà la strada agli affari futuri di altre ancora).
Dice inoltre che il colonialismo dell’Occidente su ciò che di conseguenza si ritrova adesso ad essere il “Terzo Mondo” ha rubato con la forza a questa parte (maggioritaria) dell’umanità le risorse che avrebbero potuto dargli altre condizioni di vita facendone invece il presupposto della propria bulimica ricchezza.
Non è forse vero?
Dice che, se si son trovati tanti soldi da pompare in banche già praticamente fallite, fino a rimetterle in piedi, se ne potrebbero trovare pure per restituire a molti paesi oggi poveri il futuro che gli è stato tolto (il che sarebbe pure di beneficio all’economia e alla sicurezza globale, oltre a contenere i problemi dell’immigrazione, probabilmente).
Non è forse vero?
Dice che anche le cause prime del terrorismo internazionale di oggi vanno cercate in questa disparità di condizioni economiche tra Nord e Sud del mondo (niente affatto corrispondente alla quantità di risorse naturali e materie prime disponibili nelle rispettive zone, dato che queste sono molto più presenti nei paesi poveri che in quelli ricchi) iniziata col colonialismo e così scandalosa da “gridar vendetta”.
Non è forse vero?
Dice che le azioni militari degli USA che vanno a bombardare e uccidere per minaccia o ritorsione secondo le proprie decisioni e convenienze unilaterali di dominio mondiale facendo vittime civili in abbondanza e spesso servendosi strumentalmente anche di gruppi che perseguono i loro scopi finché gli servono per fare il “lavoro sporco” non sono nulla di sostanzialmente diverso né di più legittimo (se non secondo un criterio di legittimità basato solo sull’imposizione della forza) di quelle di Al Qaeda/Bin Laden (in passato tra i gruppi suddetti) e delle altre cellule terroristiche.
Non è forse vero?

Gheddafi può non piacere, ma ha il pregio di parlare chiaro e tondo. Si presenta senza né la vergogna di essere ciò che è né il provincialismo di voler essere ciò che non è: pianta la sua tenda beduina dove che sia ed è lì che gli ospiti devono andare a trovarlo ed essere ricevuti. E li fa pure aspettare, tanto per rimarcare che non sta correndo dietro a nessuno.
Sarà pure un dittatore, certo, ma se questo non piace si poteva anche non invitarlo.
E sarebbero invece democratici i governanti cinesi, quelli della Russia di Putin, dell’Arabia Saudita, dell’Iran e di molti altri paesi arabi ed africani?
Se si dovessero chiudere i rapporti con tutte le dittature ed i governi che non rispettano i diritti umani la politica internazionale di qualsiasi paese dovrebbe essere drasticamente cambiata. Forse sarebbe anche un bene, ma non si possono trattare queste questioni in modo semplicistico basandosi superficialmente sull’etichetta di “democratico” o “dittatoriale”. Contesti socio-economici e culture diverse trovano forme diverse per rispondere alle situazioni concrete sul piano della politica e delle strutture di potere. Non in tutti paesi e per tutte le mentalità l’idea che abbiamo noi della democrazia rappresentativa (che a sua volta non sempre corrisponde poi alla realtà dei fatti neppure da noi) è il sistema di governo più desiderabile. Ci sono popoli che hanno sinceramente fiducia ed apprezzamento per la figura di un capo e per una visione gerarchica della società: questo può piacerci o meno, ma è un fatto. Un fatto che sarebbe giusto rispettare, probabilmente.
Le cose non sono le stesse in nazioni che possono permettersi (e vediamo storicamente come lo hanno potuto) una alta percentuale di laureati – ed anche sussidi di disoccupazione, fino alla pretesa del “salario garantito”, se questi non trovano poi impiego – e nazioni popolate da una stragrande maggioranza di analfabeti e contadini: soprattutto non lo sono se tutte queste nazioni si trovano costrette a correre e competere insieme sulla stessa pista obbligata dello “Sviluppo”. Avrebbe potuto la Cina degli anni ’50 diventare quello che è oggi in condizioni di democrazia? Avrebbe potuto Cuba resistere ai vicinissimi USA se avesse permesso il multipartitismo?
E’ più che giusto che noi abbiamo le nostre idee sui sistemi vigenti in altri paesi fino eventualmente ad interrompere ogni relazione diplomatica. Ma ciò rimane quanto attiene alla nostra parte. Quanto però agli altri paesi dovremmo invece, come ben dice Massimo Fini, lasciare che i vari popoli “si filino da sé la propria storia”. Possiamo sperare che questo filo finisca per arrivare dove crediamo sinceramente sia meglio anche per loro e credo sia pure legittimo eventualmente sostenere a distanza indirettamente e politicamente una certa parte (laddove si conoscano bene – concretamente e non secondo etichette ideologiche applicate a contesti ai quali sono estranee - le situazioni reali del paese), ma non dovremmo entrare negli affari interni di un'altra nazione. Se vogliamo indicargli la strada che noi riteniamo da seguire faremmo molto meglio ad incarnarne un esempio realizzato così che altri possano vederne da sé i vantaggi…se ne siamo capaci.
La considerazione che possiamo avere di un governo/capo di Stato straniero dovrebbe guardare essenzialmente al ruolo che questo svolge sul piano internazionale: su questo abbiamo titolo ad esprimerci, perché ci riguarda direttamente, non su quello interno. Ed il ruolo che questi personaggi “maledetti” (e senza dubbio discutibili) come Gheddafi (e come pure Fidel Castro, Diego Morales, Chavez, – e, a un altro livello e solo qua e là in alcune delle cose che hanno detto anche Ahmadinejad, Bin Laden, Saddam Hussein) svolgono sul piano internazionale è, quantomeno, quello di opporsi senza mezzi termini all’unilaterale versione/lettura ufficiale della realtà che viene regolarmente contrabbandata come quella della “comunità internazionale” e che è poi quella funzionale agli interessi dell’Occidente e degli USA in primo luogo. E’ il ruolo di qualcuno che, almeno per quanto riguarda ciò che avviene fuori dal loro paese - ed anche se spesso strumentalmente e a fini di propaganda pro domo sua - dice finalmente molte cose come stanno. Ma è questo ciò che fondamentalmente interessa in un consesso internazionale come pure una visita di Stato.

Infine, Gheddafi è certamente un dittatore, però non è che lo nasconda mascherandosi dietro eufemismi stile “intervento umanitario” dal sapore politically correct : può andar bene o no, ma questo è. Ed è inoltre il personaggio che cerca l’effetto che si conosce, tale da arrivare nella sua prima visita in Italia con al petto la foto del martire dell’indipendenza libica tra i soldati italiani che lo dovevano “giustiziare”.
Se un tale personaggio non piace, se lo si considera un quasi-terrorista senza ragioni per esserlo, se è un assassino, credo che la cosa più lineare sia non invitarlo e non dargli spazio per parlare.

Invece l’Italia, dopo aver fatto la cosa più giusta che un paese ex-coloniale possa fare cioè chieder ufficialmente scusa e soprattutto accompagnare questo gesto con un risarcimento – almeno per rimanere sul piano ufficiale e simbolico, a parte poi gli interessi sulla realizzazione dell’autostrada Tripoli-Bengasi che ci saranno dietro – si scandalizza se il leader libico dice quello che ha da dire non solo al nostro paese, ma a tutto l’Occidente, a partire dal capofila USA che gli ha bombardato casa e famiglia. Invece di rivendicare l’aver fatto ciò che tutti i paesi che si sono arricchiti con le colonie e a spese di altri popoli dovrebbero fare – e gli USA con gli indigeni americani (e con buona parte del resto del mondo) in testa - l’Italia è già impaurita di aver fatto brutta figura col “principale” e di non essere bene accolta nella prossima visita che Berlusconi andrà a fargli a Washington.
I politici italiani e gli imprenditori che li sostengono, chi a destra chi a sinistra, non vogliono perdere i cospicui affari che si possono fare con questo dittatore, ma neppure vogliono rinunciare all’occasione di gridare all’assassino, all’oppressore, al calpestatore dei diritti umani, alla “canaglia internazionale”….. E’ dunque solo un rospo da mandar giù in vista dei profitti che verranno, del gas da comprare, delle infrastrutture da costruire? Non c’è l’ombra della capacità di cogliere l’occasione di immaginare la portata di un autentico riconoscimento? Di una collocazione più equilibrata sul piano internazionale, stavolta tra Nord e Sud e non più Est-Ovest (piano dato per finito se serve a dire che il Socialismo ha fallito, ma non se si tratta di tenere in piedi la NATO o vivere sempre nell’emergenza di un nemico pericoloso che ci minaccia oggi come islamico piuttosto che comunista)? Quindi di riconoscere quanto anche di vero hanno le parole di Gheddafi?

E il trattamento che la sua polizia riserva per gli immigrati da respingere, non nevogliamo parlare? Certamente!
Però occupiamoci anche della nostra e del fatto che, se si è trovato l’accordo per far fare il lavoro sporco di repressione e “smaltimento” dei poveracci da cacciar via ad una polizia straniera, il nocciolo del problema rimane e sta proprio nella disuguaglianza mondiale di cui parla Gheddafi e nella sua origine nel colonialismo che continua sotto altre forme, nel fatto che i paesi ricchi avrebbero tutti i mezzi necessari per riequilibrare le cose ed invece li usano per fare tutt’altro. Occupiamoci del fatto che, se il nocciolo reale di questo problema rimane lì dove non lo vogliamo seriamente affrontare, gli sfortunati del mondo continueranno ad arrivare in masse sempre più numerose e, se la nostra torta non la vogliamo condividere, qualcuno a fare il lavoro sporco ci dovrà pur essere per mantenere il più a lungo possibile un equilibrio insostenibile.
Gheddafi ha detto che se sempre più immigrati clandestini dovessero arrivare ci servirà un dittatore in Italia per gestire la situazione. Vedremo: qui abbiamo governi che campano più alla giornata di quello libico, alle cose future ci si penserà….intanto il dittatore lo abbiamo trovato per pestare per nostro conto gli immigrati di troppo. Salvo poi rinfacciargli di esserlo quando lo invitiamo a firmare alcuni accordi commerciali piuttosto utili per noi, che non abbiamo certo il tasso di sviluppo oltre l’ 8% che ha la Libia di oggi.

Altri paesi non riconoscono il dovere delle scuse e si tengono la loro posizione “vecchia Europa” di occidentali dominanti – almeno finché dura. L’Italia mostra un’altra faccia, che potrebbe fargli onore nell’indicare la volontà di mettere le cose su un piano diverso, effettivamente paritario, sinceramente dialogante. Ma subito ci si accorge della malcelata molla opportunistica che la spinge ad accontentare le pretese di chi comunque sia porta buoni affari, però senza rinunciare a denunciare il dittatore, a dissociarsi dalle sue critiche agli USA, a rinfacciargli la violenza contro gli immigrati diretti da noi e che i nostri accordi gli hanno lasciato da “gestire” e, con Alemanno (proprio lui poi), a dirgli che non accettiamo lezioni di democrazia da nessuno.
Gheddafi sembra avere nozioni confuse sull’etimologia della parola “democrazia” (secondo lui di origine araba anziché greca): dice che ha a che fare col rimanere della gente seduta sulle sedie(?).
Però su come la democrazia funziona qui da noi sembra avere delle buone intuizioni: ha subito capito che, per riequilibrare la propria immagine - attaccata essenzialmente per una spesso opportunistica political correctness - qualche frase sui diritti delle donne negati nel mondo arabo ci sta sempre bene. Ma soprattutto questa storia dell’attaccamento alle sedie appare come una descrizione azzeccata (pertinente, come direbbe Di Pietro) di ciò che anima la vita politica italiana, per la quale il colonnello ha anche immaginato la possibilità che la gente potesse essere così stanca di avere questo sistema dei partiti confuso, inconcludente ed oligarchico, fino quasi quasi a preferirgli qualcuno che si avviasse ad essere un po’ simile a un dittatore,…..per volontà del popolo, naturalmente.
Non è forse vero-simile?

martedì 24 marzo 2009

La Crisi della Provvidenza

Che la Provvidenza sia in crisi? Non so, non me ne intendo, può darsi
che si sia stufata anche Lei di star dietro agli affari di una banda
di pericolose creaturine viziate, presuntuose e dalle vedute a volte
anche ampie, ma troppo spesso corte, che si ostinano a trattare il
pianeta come il loro giocattolo.
Bisognerebbe forse chiederlo al papa, trattandosi forse di una cosa piu’ di sua competenza – certo piu’ dei sistemi che le persone usano per avere una vita sessuale senza, possibilmente, prendersi malattie (del resto, se uno ci tiene tanto alla difesa della vita, non potrebbe bastargli che qualcuno trovi il modo di non rischiare la propria? E’ la vita vivente, quella che bisogna proteggere, o quella che potrebbe teoricamente esserlo?).
Ad ogni modo non e’ del papa che mi interessava parlare, ne’ della Provvidenza, ma della crisi… se poi ce l’ha mandata Lei, be’, tante grazie: forse era ciò che ci
voleva.
Ci voleva perché, come diceva il buon Giorgio Gaber (ed a proposito
degli argomenti di competenza del papa) “…gli schiaffi di Dio
appiccicano al muro”. Ed è forse proprio di questo che avevamo
bisogno: di un bello schiaffo di quelli di Dio (o chi per lui….magari
la Realtà), che lasciano senza parole, che non è facile indicare da
che parte vengano, che difficilmente si possono rappresentare sulla
tela consunta della politica corrente, dipinta con i soli due colori
della Destra e della “Sinistra”, sempre più indefiniti e sempre meno
distinguibili all’atto pratico.
Uno schiaffo di Dio ancora di quelli minori, limitato all’economia -
una creazione umana, per quanto importante - ma ancora solo un
avvertimento se pensiamo a quali altri potrebbero seguire, se
dovessero venire dai sistemi climatici, biologici, bio-patologici,
dalle strutture vitali che preesistono all’umanità e che ne permettono
l’esistenza.
Gli schiaffi di Dio hanno la caratteristica che, quando arrivano, non
c’è più troppo tempo per riciclarli nel tritatutto del dibattito in
cui ogni cosa diventa metafora di qualcos’altra a cui rimanda e così via
permettendo sempre di far girare la giostra di nuovi consumismi (anche
culturali) magari mascherati o trasformisti. Gli schiaffi di Dio
appiccicano al muro: bisogna finalmente stare ai fatti ed agire,
salvarsi la pelle, magari dandosi una mano, se possibile, su basi
concrete.

Che si creda a una qualche idea di Dio o meno, non abbiamo certo
bisogno di scomodarne la figura per vedere da dove nasce la crisi che
ogni giorno sentiamo avanzare dalle notizie dei media: molto
semplicemente, la “società dei consumi”, come l’abbiamo conosciuta per
qualche decennio, non è che un accidente storico che si è potuto
verificare grazie ad una serie di circostanze (fortunate per alcuni e
tragiche per altri). L’economia da “boom economico” è un fenomeno
apparentemente possibile, ma in realtà solo per un breve periodo. E’
stato sufficiente, però, perché due o tre generazioni ci si
abituassero e vi si sviluppasse sopra un immenso sistema
economico-finanziario. Un sistema che ha bisogno, per sua stessa
natura di crescere senza fine e di progressivamente velocizzare questa
crescita; se non che, come scrive Stephen Jay Gould, “gli alberi non
crescono fino in cielo”. La base autenticamente economica, produttiva,
della crescita ha smesso da tempo di essere sufficiente ad un tale
ritmo e si è dunque dovuti ricorrere al “doping”, alla virtualità: a
dare la possibilità di spendere a chi non la si era data di guadagnare
per sostenere i consumi ancora un po’ al livello proprio delle fasi di
forte sviluppo e di lasciare che il mondo degli economisti e degli
speculatori si avviluppasse su se stesso rendendo terreno di
speculazione anche le proprie stesse supposizioni e scommesse su ciò
che avrebbe dovuto (?) essere.
Mi vengono in mente qui cartoni animati di Bip-Bip e Willy il Coyote
in cui il coyote insegue il bipede fino a superare l’orlo di un
precipizio e, non accorgendosene, per alcuni passi continua pure a
correre nel vuoto…. finché, rendendosi finalmente conto di non avere
in effetti nulla sotto piedi…. precipita.

Ora cominciano ad andare di moda le cose semplici, naturali…ecc.., ma, per
favore, cerchiamo di non banalizzare e non finire a creare nuove forme
di consumismo solo aggiungendo qualche nuovo colore alla limitatissima
tavolozza del mercato politico attuale: la crisi che sembra
affacciarsi adesso deve essere un’occasione da non perdere per
rendersi conto a fondo di ciò che ci ha portato fino a qui.
Il consumismo ha profonde radici nella nostra mente e nella nostra
psiche e l’incapacità di trovare senso nelle basi naturali di una
semplice esistenza armonica con le altre specie viventi e gli altri
popoli ha basi ben fissate nei presupposti della cultura occidentale e
moderna. E’ a questo livello, anche, che dobbiamo valorizzare la
“provvidenzialità” di questa crisi, che arriva ora che i danni sono
già, evidentemente, in fase abbastanza avanzata da portarcela, ma,
speriamo, forse non ancora così avanzata da portarci di peggio.
Sebbene a trarre i maggiori vantaggi da un sistema economico
consumista sia un’esigua minoranza di privilegiati ai vertici della
piramide, è altrettanto vero che a sostenere tale piramide è pur
sempre la base (il sistema è infatti detto “consumista” in quanto si
regge sui consumi delle masse, non sull’azionariato di maggioranza delle aziende): sta a noi cogliere l’occasione per salvarci oggi dalle conseguenze della crisi imboccando una strada che non sia pavimentata con gli stessi materiali
e che non ci riporti domani di nuovo al punto di partenza.
Bisogna rendersi conto della portata a tutto tondo del cambiamento
necessario e che un certo sforzo, coraggio e radicalità sono
necessari: la Decrescita è Felice, ok, ma se anche all’inizio non lo
fosse tanto? Dovremmo tirarci indietro per questo? O vorremmo forse
credere che possano bastare nuove tendenze artistiche e un diverso
tipo di locali per incontrarsi? (voglio dire, va tutto bene, non c’è
problema, ma manteniamo la lucidità per fare delle distinzioni tra ciò
che è il punto e ciò che è accessorio).

Dunque una forte crisi economica ha in effetti qualcosa di
“provvidenziale” perché sappiamo tutti che per cambiare davvero
qualcosa ci vogliono interventi seri, ma sappiamo altrettanto che non
c’è nessun governo e nessuna forza politica che si candiderebbe a
farne – come pure che difficilmente troverebbe il sostegno elettorale
necessario.
Ci vorrebbe dunque un intervento di autorità, un certo grado di
costrizione, e la disponibilità personale di gran parte dei cittadini
ad accettarla ed adeguarvisi, ma abbiamo altrettanto motivo di non
amare un tale tipo di autorità e di diffidare di situazioni in cui
vige una tale condiscendenza di massa. D’altra parte l’urgenza di
alcune svolte nei comportamenti a forte impatto ambientale è
stringente.
Allora la crisi potrebbe essere una buona maestra: capace di imporre
un mutamento di rotta per necessità (e poche cose comandano meglio
della necessità), ma al tempo stesso di imporlo in modo impersonale,
così che saranno il nostro stesso senso della realtà e la nostra
ritrovata lungimiranza ad indicarci le nuove strade che la crisi
potrebbe proporci come obbligatorie.