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Nonostante il periodo impegnativo, in cui tutta la frutta
matura contemporaneamente e comincia la vendemmia di quest’uva resistita
all’anno arido, ho deciso di trovare il tempo per andare cinque giorni a
Venezia. Venezia 2012: la terza Conferenza Internazionale sulla Decrescita, che
quest’anno si è tenuta in Italia. Il raccolto è stato abbondante.
Quando la vita scandita dai lavori agricoli può a volte farci sentire
isolati da ciò che si muove nella società o di aver perso contatto col senso
profondo dell’aver scelto di lavorare in un certo modo (penso all’agricoltura
biologica) e non in un altro, possiamo aver bisogno dei raccolti del tipo che
l’evento di Venezia aveva da offrire.
E davvero si può dire si sia trattato di un grande evento. Grande in
primo luogo nella qualità: spese, entrate ed impatto ambientale dell’intera
manifestazione controllati e certificati da Bilanci di Giustizia (www.bilancidigiustizia.it); assenza
totale di grandi sponsor (= garanzia dell’indipendenza dell’iniziativa); tutti
gli allestimenti realizzati con materiali riciclati e riciclabili; 800 pasti al
giorno senza un piatto, una posata o un bicchiere di plastica (nemmeno di
quella “biodegradabile”: ai partecipanti è stato chiesto di collaborare
portandosi le stoviglie da casa); raccolta differenziata al 100%; cibo
biologico fornito (spesso anche donato) da aziende locali; generosa
partecipazione degli oltre 150 volontari che hanno assicurato un perfetto
svolgimento di tutte le attività; relatori, anche di calibro internazionale,
che hanno dato il loro contributo gratuitamente; un centinaio di famiglie che
si son messe a disposizione per ospitare gli iscritti non in grado di
permettersi un alloggio a Venezia; una gestione efficiente dei fondi a
disposizione (tutto realizzato con soli 80.000€ di cui ne son avanzati 11.000
da destinare alla pubblicazione degli atti); diretta streaming delle conferenze
in plenaria sul sito dedicato (www.venezia2012.it)
.… Veramente si può ben dire che l’organizzazione non avrebbe potuto essere
migliore.
Ed un evento grande anche in termini quantitativi: 850 iscritti (da 47
paesi del mondo) contro i 600 preventivati (e avendo comunque chiuso le
iscrizioni già alcuni giorni prima dell’inizio), più molti altri presenti
(arrivando a migliaia) nelle iniziative aperte al pubblico; il 38% dei
partecipanti sotto i 30 anni di età; 90 relatori; 30 facilitatori in 70
workshop su una grande varietà di temi diversi; 2 rassegne cinematografiche; 2
mercati equosolidali; 22 presentazioni di libri; decine e decine di iniziative
di preparazione e raccolta fondi in tutta Italia durate l’anno e mezzo che ha
preceduto la Conferenza.
Numerosi, tra i relatori, i nomi di spicco del movimento per un ”altro
mondo possibile” in costruzione: Serge Latouche, Alex Zanotelli, Maurizio
Pallante, Helena Norberg-Hodge, Joan Martinez-Alier, Majid Rahnema, Marco
Revelli, Ignazio Ramonet, Mauro Bonaiuti, Alberto Lucarelli, Rob Hopkins,
Salvatore Ceccarelli, Mary Mallor, Marco Deriu, e molti altri ancora….
Curiosa e sintomatica è stata la (non)risposta delle
maggiori testate di stampa e televisione che sembrano preferire il consueto
cicaleccio sui soliti battibecchi parapolitici e pettegolezzi sulle
‘primedonne’ di turno, piuttosto di rivolgere l’attenzione a un’occasione in
cui si dà spazio per riflessioni partecipate e non convenzionali entrando nel
merito dei veri problemi di fondo della nostra epoca. Evidentemente Venezia
2012 non offriva sufficienti aspetti folkloristici, velleitari o estremistici a
cui attaccarsi per banalizzarne i contenuti. Il commento di Paolo Cacciari, tra
i principali organizzatori della manifestazione, aiuta, se ce ne fosse bisogno,
a mettere le cose in chiaro sul senso dello spendere parole o del silenzio: “Il silenzio assordante dei principali mass media
su un avvenimento che – comunque – avrebbe dovuto incuriosire, promette bene.
Almeno non sono possibili fraintendimenti.”
La partecipazione è stata a Venezia forse l’ingrediente principale che
ha sostanziato le cinque giornate della Decrescita: era palpabile la sensazione
di un ‘mondo sociale’ e di una sensibilità crescenti verso i temi trattati.
Questi erano ricchi e molteplici, ma ruotavano intorno a tre aree tematiche di
fondo: i Beni Comuni, la Democrazia ed il Lavoro. A ben vedere, tutte e tre si
intrecciano naturalmente con la grande questione dell’Agricoltura,
l’agricoltura contadina, come livello primario dell’economia nella produzione
del bene-base che è il cibo e come modello fondamentale di interazione con gli
ecosistemi e dell’uso delle risorse. L’agricoltura, biologica e contadina, come
scelta produttiva, ma anche come base per una scelta di vita, si trova al
centro di tutte queste questioni. Terra, acqua, biodiversità, paesaggi,
equilibri idrogeologici, benefici a tutto tondo della presenza diffusa di
contadini sul territorio (comprese le aree marginali) sono certamente beni
comuni e, quanto a questo, la necessità di contrastare la (s)vendita del
demanio agricolo e l’importanza di destinarlo invece ad un affido sulla base
della sostenibilità dei progetti d’uso è tornata più volte nei dibattiti. Il
tema del lavoro comprende il potenziale di occupazione che l’agricoltura con
forte apporto di manodopera e valore aggiunto come quella bio può dare. Riguarda
inoltre il problema della possibilità stessa di lavorare per le piccole
aziende, ambientalmente le più sostenibili, ma anche le più penalizzate dalle
politiche attualmente vigenti - dalla nuova PAC alle normative
igienico-sanitarie - che non distinguono a sufficienza tra le diverse tipologie
aziendali in base alle dimensioni ed ai reali rischi che esse potrebbero
potenzialmente comportare. Il tema della democrazia, infine, è forse quello che
sta dietro ai due piani problematici precedenti o, meglio, proprio al loro
essere così problematici. Come ha spiegato bene Alberto Lucarelli (assessore ai beni comuni nel
Comune di Napoli) la cultura dei beni comuni presuppone e richiede una nuova
idea della politica, più partecipativa, più decentrata, più inclusiva ed,
aggiungerei, più a contatto con la concretezza delle questioni così come si
presentano all’atto pratico.
Anche da questo punto di vista, direi, la dimensione dell’agricoltura
ecosostenibile ha un importante contributo da offrire, certamente alla politica
ed alla cultura “mainstream” o maggioritaria, ma anche allo stesso mondo della
Decrescita. Una delle origini principali del paradigma non più sostenibile e
manifestamente in crisi della crescita ad oltranza è la mentalità, troppo
spesso unilateralmente teorica ed astrattista, di una modernità interamente
figlia delle metropoli e delle élites sociali più istruite. In queste
condizioni si è persa la percezione che vivere ad un livello di
produzione-consumo più basso e sostenibile è stato possibile per millenni e
tuttora lo sarebbe se solo ci fosse un recupero generalizzato della capacità e
del gusto di saper fare una serie di semplici lavori pratici. In assenza di ciò
il consumismo è diventata una via obbligata e con esso, pur ad un livello
diverso, anche l’incapacità di politici ed istituzioni nel rapportarsi con i
problemi reali della gente. Non a caso a Venezia ci sono stati anche 15
seminari dedicati ad attività pratiche e manuali ed ho incontrato chi mi
parlava dell’idea di restituire un ruolo ai contadini nelle scuole per rendere
anche un sapere pratico e non separato dal vissuto (in relazione con la natura)
elemento formativo e patrimonio di conoscenza dei giovani.
Un’attinenza al come si declinano e cosa significhino in pratica le
concezioni teoriche credo sia oggi quantomai urgente: la sua carenza rischia di
lasciar spazio talora a fraintendimenti e derive che finiscono per portare
fuori strada. In alcuni dei molti workshop tenutisi a Venezia – spesso gestiti
da studiosi ed accademici – infatti, ho sentito qua e là riemergere (tra molte
analisi altrimenti
interessantissime) anche un pericoloso equivoco: quello che assimila la
Decrescita al cosiddetto “Sviluppo Sostenibile”. Si tratta di due cose in
realtà ben diverse che non vanno confuse: lo Sviluppo Sostenibile è (dal punto
di vista della Decrescita) una trovata semi-pubblicitaria che serve a
continuare a presentare al pubblico ciò che è in fondo solo una contraddizione
in termini, la possibilità di una crescita infinita in un pianeta che ha i suoi
limiti, non solo spaziali, ma soprattutto di risorse disponibili e capacità
ecologica di tolleranza degli impatti. La Decrescita è invece la prospettiva di
chi – senza illudersi di poter tornare indietro nella Storia – vuole
valorizzare le risorse tecnologiche e le conoscenze che abbiamo oggi a
disposizione in un’ottica che ci consenta un futuro e che sia dotata di buon
senso: quello di saper distinguere ciò che ci serve e che ci fa bene da ciò che
serve solo a far “girare l‘economia” in un vortice crescente ed insensato, fine
a sé stesso e che ci sta travolgendo, e con noi il resto del pianeta. La
Decrescita, come si è ampiamente argomentato nelle giornate di Venezia, è il
nuovo progetto di economia, società ed immaginario collettivo che, facendo con
‘meno’ qualcosa di meglio, può darci questa nuova prospettiva. Qualcosa di
nuovo, certo, ma con forti legami con una saggezza antica che non mancava, in
principio, ai contadini che ci hanno preceduto.