venerdì 30 aprile 2010

PRIMO MAGGIO: FESTA DI QUALE LAVORO?

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Negli anni '70 c'era anche chi al primo maggio celebrava la “festa del non-lavoro”. A me e ad alcuni di noi giovanissimi in quegli anni l'idea piaceva. Forse una specie di rito scaramantico per propiziare un futuro in cui l'avremmo fatta franca dalla prospettiva che incombeva su di noi: di far la fine in cui vedevamo i nostri padri che avevano dedicato ogni giorno della propria vita adulta alla stessa noiosa occupazione spesso svolta sempre nello stesso luogo e per molti coll'unico senso di assicurare a se' ed anche a noi la sicurezza economica. Queste feste del non-lavoro volevano celebrare la bellezza della vita come avventura vissuta, come viaggio e come gioco, libera , senza scopo e senza catene.
Cosi' pensavo, Poi, un giorno, un amico comunista, di quei compagni che all'epoca venivano chiamati “tozzi”, mi fece notare che mai nessuna ricchezza, nessun benessere, nessun miglioramento della societa' e' mai stato creato se non grazie al lavoro. Non certo grazie al “non-lavoro”.
Non posso dire che avesse torto. almeno in linea di principio. Ma se allora c'era spazio per i lavoratori per pretendere dignita', per combattere e migliorare le condizioni di lavoro fino all'idea del rifiuto radicale di un impiego alienante, oggi i tempi sono cambiati al punto che il problema e' prima di tutto quello di avercelo un lavoro – al di la' delle condizioni – e l'impiego fisso e' sempre di piu' considerato una fortuna rarissima, un pezzo d'antiquariato a cui tenersi stretti.
Negli anni '70 una certa rete sociale e solidale “di movimento” ed un capitalismo non ancora cosi' incontrastato e vincente, cosi' assoluto ed onnipervasivo permetteva ancora di festeggiare una condizione di non-lavoro: oggi non sono immaginabili celebrazioni di questo tipo e per i disoccupati o i cassintegrati non c'e' certo da stare allegri mentre per i giovani piu' che la monotonia di una vita impiegatizia lo spettro che minaccia il futuro sembra essere piuttosto una crisi come quella greca che potrebbe estendersi ad altri paesi dall'economia incerta e dai conti acrobatici – tipo il nostro – e allora si' ci sarebbe poco da festeggiare, sia col lavoro sia senza.
Ma quanto al significato che quel “compagno” vedeva nel lavoro credo guardasse piuttosto al passato e certo non vedeva nulla del futuro che di li' a poco ci attendeva. Ne' vedeva il fatto che il non-lavoro e' l'altra faccia del lavoro in un tutt'uno che si chiama vita e sta li' a ricordarci a cosa e fino a che punto il lavoro deve servire.

Proprio oggi ho sentito alla radio della proposta di tenere i negozi aperti anche il primo maggio. Seguivano interventi degli ascoltatori piuttosto concordi sul difendere la festivita' come si conviene, con le serrande abbassate. Si sottolineava l'importanza di salvaguardare il carattere di sacralita' laica attribuito alla festa del lavoro, di proteggere il fatto che fosse un giorno diverso dagli altri. Molti lamentavano che oggi non c'e' piu' il tempo per ritrovarsi con se' stessi e con gli altri, di soffermarsi sulle cose importanti e fondamentali, quali appunto il lavoro, ed incombe la tendenza ad appiattire tutto sotto la pressione dell'invito al consumo, al macinare acquisti quasi fini a se' stessi senza soddisfazione e senza limite. La festa del lavoro dovrebbe essere invece un momento altro, sottratto a tutto questo, dicevano. Un messaggio perfino concludeva: “un Primo Maggio in cui si lavora sarebbe come un 25 aprile senza memoria storica o un Natale senza spiritualita'”. Come dire, cose mai viste?! Era fin troppo chiara l'ironia della provocazione.

Perche' la festa del lavoro e' la festa dei lavoratori e va rispettata.
Bene, ma, cosa e' oggi il lavoro, nella stragrande maggioranza dei casi, se non la produzione illimitata, che prescinde programmaticamente da qualsiasi misura di necessita' (oltre il limite della sovrapproduzione non assorbibile dal mercato) di quelle stesse merci di cui si lamenta il consumismo? Non e' forse ormai, non solo il superfluo, ma lo stesso spreco diventato strutturalmente necessario? Non sono forse proprio tali consumi bulimici che garantiscono oggi il posto di lavoro ai piu'? E questo posto di lavoro non e' ormai, piu' che il ruolo che una persona svolge nell'insieme della societa', piu' che la sua partecipazione e un contributo positivo, soprattutto il mezzo con cui ci si garantisce la propria condizione – molto piu' che di produttori – di consumatori e proprio in quanto tali pari agli altri, cittadini a pieno titolo? Perche' ormai l'Italia (e non certo solo lei) e' una repubblica non piu' “fondata sul Lavoro”, ma sul Consumo (e sulla sua ostentazione). E allora dov'e' lo scandalo se alla festa del lavoro si affianca un'ennesima occasione per sostenere la produzione?

L'idea delle feste del non-lavoro non era buona. Oggi non l'apprezzo piu': aveva cosi' ragione quel “compagno” che adesso mantengo sempre delle riserve verso chi non ha neanche una minima dimestichezza col lavoro manuale.
Ma prima di festeggiare il lavoro come valore in se' penso sia giunto il momento di fermarsi a riflettere: di quale “lavoro” stiamo parlando? Perche' questa parola puo' avere significati, all'atto pratico, radicalmente diversi. Quale lavoro oggi produce reale ben-essere, produce cose (o servizi) necessarie ed utili, di onesta qualita', che migliorano la nostra vita e il mondo in cui viviamo? E quale invece darebbe un migliore contributo se semplicemente scomparisse? La macchia d'olio che sta arrivando dal golfo del Messico ad estinguere la vita sulle coste della Louisiana, non viene dal “lavoro” anche quella? E le fabbriche d'armi, i rifiuti tossici? Ecc.. ecc... sappiamo che la lista potrebbe essere molto lunga.

Bisognerebbe istituire piu' che la festa, la giornata di riflessione sul lavoro, sul ruolo che esso ha avuto per millenni nell'esperienza umana e sul suo significato nel sistema attuale, sulla possibilita' o meno di distinguerlo dalla nostra vita nel suo complesso e dalla sua qualita', dalla qualita' di entrambi, lavoro e vita.
Lavoro e' quello del contadino, dell'artigiano. Lavoro, anche nelle aziende, e' quando produciamo cose e servizi utili e necessari ricordando la dignita' umana di chi le acquistera' e tenendo conto anche degli effetti collaterali della produzione. Lavoro e' quando ripariamo un oggetto ancora usabile, quando facciamo da noi un'opera a casa nostra ingegnandoci come possiamo. Lavoro e' quando ci diamo una mano tra amici e vicini risparmiando soldi e vedendo il senso di cio' che facciamo nel sorriso di qualcun altro. Lavoro e' quello che ci lascia l'animo e la soddisfazione di non lavorare quando non lavoriamo: si integra col riposo e non gli e' in antitesi.

Il lavoro di autoproduzione, le produzioni su piccola scala, la creazione di beni/servizi necessari, sostenibili e di buona qualita', il lavoro di cura. Questo e' lavoro da festeggiare, quella cosa che fa migliore il mondo. Altrimenti.....vogliamo dire che, ci piaccia o no, ci tocca farlo perche' non abbiamo alternative?
Non lo so e per molti non credo.
Comunque, se pure fosse cosi'..... c'e' ancora tanto da festeggiare?

martedì 27 aprile 2010

Scadenze Storiche

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Devo dire, onestamente, che non mi sono mai interessato molto alle ricorrenze nazionali e, a dire il vero, alle ricorrenze in genere. Però mi ha colpito lo stesso il modo in cui sembra che queste ricorrenze, evidentemente, una volta passati un certo numero di anni, raggiungano una specie di data di scadenza nel rispetto che si porta ai fatti che starebbero lì a ricordarci, e comincino a poter essere usate in libertà, diciamo con una certa disinvoltura, magari anche usandole per fini ad esse eterogenei, trovandoci significati che non gli appartengono e portandole a fungere da argomenti per tesi che nulla hanno a che fare con esse e che gli sono perfino contrarie.
Mi riferisco al discorso del presidente Napolitano in occasione del 25 aprile, festa, della Liberazione, che per moltissimi italiani ha il significato del celebrare la vittoria di una lotta (armata) di resistenza popolare contro il tentativo (imperialista) della Germania nazista di mantenerla sotto il proprio controllo. Sostanzialmente è da molti vissuta come la festa della vittoria dei partigiani (e di chi gli diede il proprio sostegno) o, almeno – e forse più realisticamente – del loro generoso contributo alla guerra antinazifascista che fu vinta dalle forze alleate, dall’esercito italiano di Badoglio e anche dall’eterogeneo mondo partigiano.
Non si può dimenticare che in questo era forte la componente comunista e che questa fu ampiamente repressa e disarmata appena finita la guerra quanto bastò a dissuaderla dal proseguire la lotta fino a non far tornare il potere in mano a chi già lo aveva prima. I partigiani di allora dovettero vedere molti loro compagni finire in carcere mentre molti collaborazionisti di tedeschi e fascisti riuscivano non solo a farla franca, ma spesso anche a “cascare in piedi” ed alcuni anche a continuare a governare pur cambiando pelle – o piuttosto, pelo (ma non vizio, come si è visto in seguito fra stragi di Stato, Gladio, P2 e quant’altro).
Nonostante questo l’Italia rimase per tutto il periodo della guerra fredda il paese del mondo occidentale con il più grande partito comunista. Ma l’uso che di questa forza hanno fatto i dirigenti di tale partito – e soprattutto delle sue successive metamorfosi – è molto ben esemplificato sia dalla situazione in cui ci troviamo oggi che dallo stesso discorso di Napolitano per questo 25 aprile. Oggi un giornalista come Santoro appare il baluardo della sinistra nel mondo dell’informazione, ma ricordo bene come, ancora ai tempi del suo programma “Samarcanda”, forse per dar prova dell’affidabilità democratica della sinistra, fu lui a sdoganare il signor Gianfranco Fini, capo di un MSI ancora ai limiti dell’impresentabilità in quanto in odor di fascismo e pertanto attestato al 10% del consenso elettorale: oggi costui è presidente della Camera e semi-leader del partito di governo (di cui ultimamente sembra esser diventato l’ala sinistra). Ricordo anche il discorso di alcuni anni fa di Violante per cui i fascisti della Repubblica di Salò venivano quasi equiparati ai partigiani che li combattevano quali tutti parimenti “ragazzi italiani”impegnati nelle due parti contrapposte su cui la Storia li aveva schierati.
Non a caso Napolitano faceva parte dell’ala più moderata e “dialogante” del vecchio PCI . Per questa, che poi ha prevalso, la preoccupazione prioritaria è sempre stata quella di apparire accettabili agli occhi del potenziale elettorato vicino al centro moderato, ai poteri forti nazionali e agli USA, forza imperialista del mondo postbellico (postbellico solo per l’Europa – e neanche per tutta). Il loro obiettivo strategico è sempre stato quello di traghettarsi verso una condizione “normalizzata” che gli permettesse un giorno l’accesso al governo.
A traghettamento compiuto, dopo poche e brevi parentesi di governi di centro-sinistra in un ventennio berlusconiano e dopo la scomparsa dal Parlamento di qualsiasi forza che possa dirsi di sinistra, abbiamo oggi alla presidenza della Repubblica un EX-comunista (che proprio all’evidenza di questo“ex” deve la sua posizione) che, mentre la polizia carica gli antifascisti dei centri sociali di Milano e i nostalgici pugliesi di Benito Mussolini affiggono impunemente manifesti che piangono la morte del loro idolo sui muri di Locorotondo, ci dice che la liberazione fu soprattutto una vittoria dell’esercito italiano e che questo stesso esercito starebbe oggi proseguendo la stessa battaglia con gli stessi ideali e le stesse motivazioni nelle operazioni in cui è impegnato all’estero. E che questo, perdipiù, avverrebbe in omaggio alla Costituzione nata da quella lotta di Liberazione ed ai valori che l’hanno ispirata!!
Caro presidente, francamente direi che, anche se sono passati tanti anni e le convenienze odierne della politica possono essere altre, c’è un limite a tutto e che Lei più di ogni altro dovrebbe sapere (e dovrebbe saper far rimarcare) che la nostra Costituzione ripudia la guerra. E dovrebbe vedere – anche se forse non vuole - che oggi le forze armate italiane stanno in Afghanistan come parte di un esercito di occupazione straniero a difendere gli interessi imperialisti del capitalismo occidentale guidato dagli USA e non certo l’autodeterminazione degli afghani rispetto alla quale, pur con tutt’altri disegni politici (trattandosi del resto di tutt’altro popolo e tutt’altra cultura), nel ruolo dei partigiani ci stanno coloro che questa occupazione la respingono, così come è anche in Iraq, in Somalia e altrove.
Dalle sue parole, caro presidente, sembra di dover dedurre che anche per il 25 aprile la data di scadenza sia arrivata: si può cominciare a tirarlo ognuno dalla parte che vuole, fargli significare ogni sorta di cose e magari, in nome dei suoi ideali, anche prendersela con chi protesta perché ex-filo-fascisti rappresentano oggi le istituzioni che celebrano la ricorrenza di questa che è stata una vittoria non solo genericamente per la libertà, ma contro il fascismo e contro l’occupazione straniera di un paese. In questo caso il nostro, che era, all’epoca, un paese in grande maggioranza non solo aspirante alla democrazia, ma antifascista.

sabato 17 aprile 2010

Questi Inaffidabili Italiani

Capita a volte, viaggiando per il mondo, di incontrare stranieri, soprattutto nordeuropei ed americani, nei quali si intuisce un’opinione verso gli italiani vagamente di non presa sul serio, come di persone anche simpatiche, ma inaffidabili, un po’ borderline, per così dire, rispetto al consesso del mondo occidentale.
Capita di vedere, a volte, qui da noi in Italia, gente che si sente molto patriottica, che farebbe qualsiasi cosa per mostrarsi quanto più possibile in linea con le direttive dei capi dell’Occidente, tradendo, a dispetto del proprio ostentato patriottismo, un complesso di inferiorità inguaribile per il quale nulla è mai abbastanza per riuscire a sentirsi un po’ più uguali a quegli uguali che nel mondo sono sempre un po’ più uguali degli altri.
La vicenda dei tre operatori di Emergency recentemente sequestrati in Afghanistan dalle forze di sicurezza del governo Karzai finanziate ed addestrate da una coalizione (eufemisticamente detta della “comunità internazionale”) di cui fa parte l’Italia, durante una operazione in cui tuttora non è chiaro quale parte abbiano avuto anche quei militari britannici che dirigono le operazioni di guerra nella zona interessata e, a giorni di distanza, ancora mantenuta fuori da ogni formalizzazione legale, di diritto, con capi d’accusa ecc… ha messo in evidenza in modo esemplare tanto la parzialissima e servile (oltre che strumentale) accezione dell’orgoglio nazionale da parte di alcuni dei nostri governanti quanto il risultato risibile che essa raccoglie in termini di considerazione da parte dei paesi alleati (sia quelli dominanti che quelli che si vorrebbero subalterni).
Davanti alle parole di Gino Strada secondo cui, se si fosse trattato di cittadini statunitensi, sarebbero tornati liberi in un quarto d’ora, il ministro Frattini ha saputo rispondere solo che sono frasi che non aiutano, ma sappiamo tutti che è la pura e semplice verità. E questo non è solo perché i miliardi di euro che l’Italia spende per sostenere un governo fantoccio (che neanche fa il suo mestiere in modo molto soddisfacente sembra) valgano meno di quelli degli americani, né perché l’avergli fornito un nuovo sistema giuridico per l’Afghanistan filo-occidentale e post-talebano sul modello di quello nostro abbia reso anche tale governo ipso facto incline a bypassare le proprie stesse leggi. Ma perché il problema di Emergency e l’origine dei suoi mali sta proprio nel dire pure e semplici verità che non aiutano: che non aiutano la strategia della coalizione occidentale che (anche secondo le nuove linee recentemente prospettate da Obama) si appresta a disimpegnarsi, ma non senza assestare qualche ultimo pesante colpo per (dar l’impressione di) vincere sul piano mediatico la guerra che non gli conviene più su quello militare. Oggi, come è sempre più evidente, la realtà che conta, che fa opinione, non è quella reale, ma quella virtuale della comunicazione di massa; almeno per noi che viviamo nei paesi ricchi da dove mandiamo i bombardamenti a distanza - un po’ meno per chi vive, appunto “a distanza”, e quelle bombe le subisce mentre non sa bene cosa significhi “virtualità”. In queste ultime guerre, in Iraq ed Afghanistan (ma anche in vari episodi in Israele), memori dell’esperienza del Vietnam, si è partiti con i giornalisti embedded al seguito de (o in dotazione mediatica a) le truppe; si è proseguito con l’abolizione tout cour dei giornalisti, fino alle azioni esemplari, terroristiche e punitive per quei pochi temerari che si intestardivano a fare il loro lavoro (vedi Giuliana Sgrena per fare un esempio).
Naturalmente, sebbene ci si stia preparando ad un assalto finale alle roccaforti dei Talebani prima di lasciare l’Afghanistan ai suoi prossimi quarant’anni (i primi già se li son fatti) di guerre intestine, ci si preoccupa pure di fare una bella figura, di non far sapere troppo in giro che si stanno ammazzando donne, vecchi e bambini ovvero chiunque capiti sotto le bombe insieme ai combattenti o presunti tali.
Dunque, per ottimizzare il silenzio stampa sulla realtà e lasciare solo la propaganda camuffata, occorre far un po’ di pulizia anche tra le ong umanitarie (qui è la guerra che è umanitaria, quindi bastano i soldati, no? Che ci stanno a fare queste ong se non per cercare visibilità pro domo propria? – questo almeno sembrava in sintesi il senso delle parole di Luttwak ad Annozero). Fare pulizia dunque tra chi sta sul campo in un ruolo diverso da quello giornalistico, ma ha l’impudenza di raccontare ciò che vede e di prendere anche una posizione. E questo è precisamente il caso di Emergency ed è ciò che anche altre ong che fanno lo stesso tipo di lavoro gli rimproverano.
Aggiungiamoci che la ong di Strada si mantiene allo stesso tempo imparziale sul piano pratico curando i feriti di tutti gli schieramenti ed inattaccabile professionalmente garantendo standard di eccellenza, che si sottrae al ricatto dei governi affidandosi al sostegno dei cittadini che credono numerosi nel suo lavoro e che, in fin dei conti, è diretta da questi pacifisti italiani che non si mai bene da che parte stanno….ed ecco che la montatura e la calunnia sono servite. Pronte per togliersi dai piedi una presenza scomoda laggiù e per screditare determinate posizioni politiche qui.
Come abbiamo visto nelle parole di Frattini e di La Russa i nostri patriottici governanti hanno colto subito l’occasione per ostentare un’insinuante equidistanza da tutte le ipotesi e perfino lasciando intendere che da chi non è da una parte c’è ben da aspettarsi che stia dall’altra. Nella trasmissione Annozero il nostro ministro della Guerra ha mostrato chiaramente qual’è l’uso interno che si intende fare di questa vicenda: quello di tracciare una chiara linea di demarcazione tra chi è “dei nostri” a sostenere inequivocabilmente “i nostri ragazzi” e chi, sì, ha un passaporto italiano e quindi ci tocca interessarci, ma è un po’ meno “uguale” sta lì solo a farci fare brutte figure, a farci passare per un po’ meno “uguali” tutti quanti.
Quelle brutte figure che nessuno dei nostri patrioti dell’Italia Occidentale vorrebbe mai fare: perfino una voce spesso equilibrata come quella di Sergio Romano si è sprecata in una filippica fuori luogo e fuori merito nella trasmissione RadioTreMondo (Rai) per dirci che Emergency proviene dalle lotte sessantottine dunque i suoi membri hanno quel tipo di formazione e dunque non garantisce la neutralità che si richiederebbe a chi gestisce un ospedale in zone di guerra come invece sarebbe nella tradizione della Croce Rossa ecc…. Caro “ambasciatore Romano”…..e allora? Con questo? E’ di questo che i tre sono accusati? Di cosa effettivamente ancora non lo sappiamo, ma se non è di questo, allora questo cosa c’entra, scusi?
Capita a volte di non capire quale sia il senso e gli intenti delle persone che godono di rispettabilità quando qualcuno che si è messo volontariamente fuori dal coro si trova in seria difficoltà. Specialmente se costui rischia di far fare brutte figure a tutti.
Ma capita a volte, anche a chi come me non se ne è mai posto la questione, di sentire un certo senso di orgoglio nell’essere italiano quando si capisce che se possiamo essere considerati inaffidabili da chi comanda le operazioni imperialiste dell’Occidente, è anche perché qui c’è ancora un po’, per fortuna, una varietà di posizioni, anche radicali, che a tutt’oggi resistono. Spesso sopite, spesso solo latenti, ma ancora vive, come ci mostrano le 350.000 adesioni all’appello di Emergency, l’adesione generosa alla manifestazione del 17. Una testimonianza di resistenza per la quale possiamo esser ancora un po’ fieri della nostra sussistente inaffidabilità.