mercoledì 13 dicembre 2017

AL DI LÀ DEL LOGOS



BRANO TRATTO DAL LIBRO "L'ALTERNATIVA NEO-CONTADINA"

Ciò che possiamo chiamare un senso, nella vita - che è molto diverso da uno scopo - è possibile trovarlo cercandolo? O è una cosa che, se c'è, c'è a priori di ogni considerazione, come il vivere stesso? Qui sta tutta la differenza se la vita sia vissuta come qualcosa di in sé completo o come una sorta di bene strumentale da spendere per ottenere alcuni obiettivi "superiori" (che sono poi alcuni elementi o aspetti particolari tra quelli che nella vita si posson trovare).
    La nostra condizione, umana, ma come quella di ogni essere vivente, è caratterizzata di fondo dall'incertezza di sopravvivere ogni giorno, di riuscire ad ottenere ciò che ci serve e mantenere ciò che abbiamo, di non essere sopraffatti da ciò che ci è (o percepiamo come) dannoso. Nella certezza alla fine, comunque, di essere mortali: tutto ciò che siamo e che abbiamo passerà e sta già passando ora e così la nostra stessa vita. L'essere e il non-essere sono presenti costantemente insieme in essa, sia come fatto che come potenzialità.
    Non solo, ma anche l'essere cosa, l'essere come, sempre sono e non sono al tempo stesso, perché essi dipendono dalla relativa efficacia del quadro che riusciamo a farci di ciò che percepiamo, dei nomi che diamo alle cose, del nostro massimo strumento adattivo per sopravvivere nel mondo: il linguaggio. Davanti all'eventualità, al pericolo costantemente presente della morte, dell'incertezza, del non-essere, davanti alla paura fondamentale, noi umani, prima ancora che con tutte le nostre protesi tecnologiche, abbiamo risposto evolutivamente con la capacità di crearci un ordine nel mondo: un quadro mentale che ce ne fornisca delle coordinate da cui traiamo i modi per muovervisi dentro, per crearci il nostro spazio e dominarlo. Ma è in primo luogo nella nostra mente che tutto ciò si costruisce. Questa creazione di ordine avviene attraverso la conoscenza e prende forma nella cultura. Entrambe queste cose non sono semplicemente delle attività creative né la gratuita ricerca della verità, bensì hanno uno scopo strumentale finalizzato alla creazione di una dimensione di realtà nella quale sopravvivere e migliorare via via la propria condizione rendendola più vivibile.

    L’essere umano, dotandosi di un'immagine - nel linguaggio e nella cultura - del mondo in cui vive/crede di vivere e del suo ordine, riesce, in modo unico tra tutti gli animali, a ri-crearlo virtualmente, a modificarlo secondo coordinate proprie e così renderlo tale da potervisi adattare. In primo luogo nella propria mente e solo successivamente trasformandolo di fatto a sua misura attraverso la tecnologia. Questa capacità tutta umana, pur avvalendosi di alcuni dati reali, fattuali, che vengono direttamente dall’esperienza, è in larga misura – soprattutto per quanto riguarda il costruire un “ordine” a partire da questi dati - una capacità di illusione, molto più che di conoscenza. E tanto più perché tale illusione diviene per gli umani equivalente, e perfino più vera della realtà.
    L’elemento nuovo e peculiare che l’essere umano ha portato nel percorso evolutivo della Natura non è – come il nome “homo sapiens” vorrebbe indicare – la capacità di conoscenza (che, seppure in modo molto più rudimentale, non è assente nel modo in cui molti animali interagiscono col loro ambiente), bensì la facoltà di un’illusione sistemica. Non una allucinazione o un'illusione ottica circoscritta e occasionale - di quelle che capitano anche agli animali - ma la creazione di immagini concettuali del mondo e di sé stesso, organiche, complete e coerenti al punto che è il mondo stesso a sembrargli fatto ad immagine dell'ordine che egli vi ravvisa e vi sovrappone. L'essere umano, attraverso il linguaggio ed il pensiero concettuale quali strumenti di adattamento all'ambiente, ha ottenuto un successo evolutivo senza eguali rispetto a tutte le altre specie viventi (al punto che riesce ad adattare l'ambiente alle proprie esigenze piuttosto che l'inverso).(1- vedi nota a pié di pagina)

    La funzione fondamentale della conoscenza, dunque, non è in primo luogo quella di conoscere, ma di creare un ordine per (r)assicurarci di poterci muovere nel mondo (sebbene mortali) in relativa sicurezza e per metterci in condizione di ottenere ciò che ci serve. A partire da questo punto, però, le diverse culture e tradizioni filosofiche, le diverse civiltà, hanno preso strade divergenti relativamente a quali siano l'oggetto ed i metodi della conoscenza e di conseguenza anche rispetto a cosa sia ciò che ci serve.
     La prospettiva dell'Occidente - segnatamente nella sua fase moderna e scientifica - è quella di cercare di costruire l'ordine nel mondo nel modo più solido e sicuro possibile e quindi di trovare anche (nel campo della conoscenza) le basi teoriche che rendano più certo questo ordine. Non a caso il criterio per scegliere quali ipotesi di ricerca vadano seguite, nei casi delle crisi di paradigma [di cui parla lo storico della scienza Thomas Kuhn, le cui tesi vengono discusse precedentemente nel libro] è sempre quello dell'efficacia esplicativa che promettono e quindi della loro capacità di superare, in modo ampio, chiaro, certo e relativamente semplice, l'intervenuta mancanza di un ordine. Quando una teoria scientifica è definita "elegante", ciò è dovuto alla sua capacità di fornire una spiegazione unificante per un'ampia gamma di fenomeni diversi attraverso una formulazione essenziale, (relativamente) semplice e chiara. Una tale teoria è più "maneggevole" (se così si può dire), più atta a svolgere la sua funzione strumentale: riesce molto meglio di altre a darci, con immediatezza e con il minimo sforzo (e perciò offrendoci un maggior senso di affidabilità), quegli elementi di sicurezza, di certezza dell'ordine ritrovato che cerchiamo (noi, gente comune, ma in fondo anche gli scienziati) nella conoscenza (in questo caso in quella scientifica).
    La garanzia di un ordine sul piano della conoscenza è presupposto per costruirne uno su quello della pratica (tecnologica, militare, politica, economica...) nelle condizioni più solide ed inattaccabili.

    Di fronte al problema di fondo della nostra basilare incertezza e impermanenza e del nostro essere e non-essere al tempo stesso, le culture tradizionali (e quelle orientali forse nel modo più evoluto) hanno invece seguito la via di superare la paura non attraverso queste protesi "esterne"(2) ma con la coltivazione interna di uno stato al di là della paura del non-essere, senza tendere alla rimozione della sua costante possibilità. Cercando, in un certo senso, non la libertà dal dolore, bensì la libertà nel dolore. Nell'accettazione, come dato di fatto, della precarietà fondamentale che caratterizza la nostra esistenza e della natura transeunte del nostro essere, nell'accettazione di essere e non-essere al tempo stesso, del vivere la dimensione dell'impermanenza e dell'incertezza nel continuo divenire. Parallelamente hanno creato contesti socioculturali relativamente rassicuranti, al cui interno fosse possibile coltivare questa capacità, quanto possono esserlo quelli dominati dalla tradizione e dalla religione, con il loro ripetersi circolare di forme tendenzialmente sempre uguali a sé stesse del vivere sociale.(3)
    Due modi molto diversi del cercar di risolvere o di rapportarsi con la paura di fondo e la ricerca di un suo superamento. In un caso creando un ordine esterno più o meno illusorio o artificiale, nell'altro trovandole uno spazio ed integrandola al proprio interno. Ciò ha implicato, d'altra parte, un quadro complessivo del mondo altrettanto integrato, in cui tutto ciò che esiste, compresi gli esseri umani, ha un suo posto ed una sua ragion d'essere, ma che proprio per questo lasciava scarso spazio alla possibilità di qualsiasi mutamento evolutivo che si desse su un piano sociale o non puramente spirituale. Non a caso le istanze di cambiamento sociale e politico, nei contesti tradizionali (come pure nel Medioevo europeo), si presentano spesso sottoforma di movimenti di riforma religiosa.
    Questa differenza tra le due risposte ha fatto sì che da quando la Storia, guidata ed imposta dall'Occidente, ha fatto la sua violenta irruzione nel mondo delle altre culture ed ha innescato i cambiamenti che porta con sé, le tradizioni fanno molta fatica a resistere. Ma anche che, nell'Occidente in crisi esistenziale, sempre più persone si sono rivolte e si rivolgono a linee di pensiero orientali, fino ad averne incorporate alcune componenti a livello popolare (spesso anche - penso ai vari filoni della New Age - in modo un po' banalizzato o raffazzonato). Secondo lo storico inglese A.J.Toynbee, gli storici del futuro vedranno l'inizio della diffusione del Buddhismo in Occidente come l'evento più importante del XX secolo.

    Alle tradizioni dell'Oriente manca in misura importante il percorso secolare, incentrato sulla dialettica sociale, democratico, proprio della cultura della civitas. Ma l'Occidente postmoderno, con l'assenza di punti di riferimento, il relativismo generalizzato, il rifiuto di ogni verità metaculturale e la sostanziale rinuncia a cercare risposte ultime attraverso la riflessione filosofica (affidandosi per questo alla ricerca scientifica) sta forse arrivando al suo punto limite. Per la via peculiarmente politico-ideologica che lo distingue, potrebbe esser vicino a percepire finalmente (sebbene anche da noi alcuni l'avessero già teorizzata in precedenza) la natura vuota di tutto ciò che esiste. Resta da vedere se, nel quadro [e nei limiti] della weltanschauung occidentale, una tale comprensione si traduca in un passo avanti o in uno indietro.

    Nei testi buddhisti si parla spesso del Vuoto o della "Vacuità" (Sunyata). Si argomenta che qualsiasi discorso che faccia riferimento ad una qualche entità o sostanza o natura inerente come realtà o identità permanente di qualsiasi cosa è fondamentalmente illusorio, non avendo alcuna cosa una esistenza intrinseca, se non limitatamente ad un breve periodo e come forma aggregata di elementi, cause e condizioni che stanno insieme solo in modo temporaneo.(4) Pertanto di ogni "cosa", di ogni "essere", non si può veramente dire che è, ma più precisamente che avviene, perché nulla esiste se non come aspetto temporaneo del flusso infinito del divenire, avendo in sé una natura vuota. Ma in che senso vuota se però noi, almeno per il tempo della nostra vita, siamo? se possiamo toccare gli oggetti e ritrovarli nello stesso posto dopo averveli lasciati?
Io credo si debba intendere come vuota di definibilità.(5)
     Quando noi definiamo una cosa, con una parola o un concetto, quando le diamo un nome, la circoscriviamo isolandola da tutto il resto: stabiliamo ciò che è, e di conseguenza ciò che non è (principio di identità e di non-contraddizione); la ri-creiamo come cosa in sé e come cosa a sé. Nasce il mondo dell'essere o non-essere. Questo implica una visione della realtà che esige una fissità delle cose (sia sul piano ontologico che su quello temporale) ed una separazione delle cose tra loro ed in primo luogo dall'osservatore. Questa visione "fissa" della realtà non esclude una nozione del divenire, ma lo vede essenzialmente come il passaggio da questo a quest'altro stato e non nella sua natura di movimento. Dal punto di vista dell'osservatore (ogni punto di vista ne presuppone uno, quindi, sempre), definendo tutte le cose (materiali e immateriali) tutte le separiamo da noi e separiamo noi stessi, in quanto osservatore, da esse. D'altra parte rimane l'impossibilità, per questa via propria del linguaggio, di sapere chi siamo noi stessi, dato che qualsiasi parola possiamo usare per dire ciò che pensiamo di essere (il corpo, il pensiero, il cuore, il cervello, il nome, i sentimenti, le percezioni, i ricordi, la memoria.....l'insieme di tutti questi) si dimostra facilmente come può indicarne un aspetto (o più aspetti), ma non è certamente l'essenza di ciò di cui possiamo dire "io sono". Oltre a ciò, lo stesso percorso sia della fisica delle particelle che delle scienze sociali ci porta a non poter più sostenere una vera separazione sostanziale di ogni cosa da ogni altra, né a poter più credere ad identità e verità immutabili nel campo socioculturale.

     Ed a questo punto la tradizione filosofica del pensiero occidentale si arresta (o piuttosto comincia a girare in tondo) lungo il limite dei suoi confini che sono quelli del Logos. E vede le culture tradizionali, e forse in particolar modo l'Oriente (e segnatamente la filosofia buddhista), proseguire sulla loro strada al di là delle parole.
    Nella pratica buddhista della meditazione, grazie ad una posizione che ci consente di rimanere immobili abbastanza a lungo, possiamo rivolgere l'attenzione al nostro interno, mente-corpo, e vedere direttamente come non ci sia mai nulla che sia fisso né alcun momento di stasi totale. E lo stesso vale per quanto succede all'esterno, se ci pensiamo, ma anche solo se rivolgiamo l'attenzione, ad esempio, ai suoni. Senza codificarla su una mappa concettualmente precisa o fatta di parole, avanziamo nella conoscenza/consapevolezza/esperienza diretta del nostro essere l'osservatore e dello svolgersi del divenire, mentre i confini tra le due cose perdono gradualmente di realtà.

     Anche il Buddha, essendo un uomo che parla ad altri esseri umani, deve usare le parole per comunicare, ma il suo insegnamento, ciò a cui vuole mostrare l'accesso, la luna che il suo dito indica, è fin dall'inizio al di là delle parole. La via di conoscenza e di liberazione (ma sarebbe meglio dire di realizzazione) insegnata dal Buddha non è quella del Logos, non si limita ad essere una via logica. È bensì una via eminentemente pratica: quella della meditazione e della vita quotidiana. Il filosofo buddhista indiano Nagarjuna (II secolo d.C.) nelle Madhyamaka Karika dice:
 “senza unità, senza diversità, senza annientamento, senza eternità: tale l’ambrosia della dottrina degli Svegliati, protettori del mondo”. (...)
 “Pacificazione di tutte le percezioni, pacificazione dello spiegamento discorsivo, benigna. Mai dove che sia nessuna legge è stata insegnata dallo Svegliato [dal Buddha]”.
     Eppure sappiamo che il Buddha ha passato decenni dando il suo insegnamento a tante genti diverse, e così ha fatto lo stesso Nagarjuna e moltissimi altri maestri. Nei quesiti Zen chiamati koan si percorre tutta l'estensione dei propri possibili ragionamenti per trovare una risposta che non è in realtà alla portata puramente del pensiero. Ma è attraverso l'esperienza sofferta dei limiti dell'intelletto, della sua inadeguatezza a trovarla, insieme alla dimensione fisica, corporea, della meditazione (6) ed alla spinta ad andare oltre, pur non sapendo né dove né come - che all'estremo diventa puro istinto di sopravvivenza - che la risposta arriva. È cruciale l'esperienza della condizione di stallo, della fine delle proprie risorse intellettuali, dell'insufficienza della conoscenza, per cui, oltre i margini dell'oceano di parole, si accede ad un altro modo di essere nella realtà.

     Non capire, ma riconoscere e rispettare, in una pratica che comprende l'osservazione attenta, può essere un modo di arrivare a capire al di là delle parole, senza restringere la conoscenza allo scopo di appropriarsi dei suoi oggetti. Si tratta di osservare/praticare la realtà gratuitamente,(7) senza focalizzare la propria visione degli oggetti di conoscenza nei limiti della prospettiva che guarda al proprio scopo - quale che sia - come punto di fuga.
     C’è in questo un apprendimento, una formazione ed una conoscenza che passano attraverso il corpo, attraverso l’azione ed il silenzio, vivono nell’esperienza e non sono comunicabili in modo astratto o solo verbale. Per questo, nel trionfo dell’homo nominans che è stata la Modernità [homo nominans: l'essere umano come soggetto il cui muoversi ed agire nel mondo avviene attraverso il definire ed assegnare nomi a le cose - se ne parla precedentemente nel libro], questo approccio conoscitivo non riconosciuto è stato pressoché spazzato via dagli orizzonti della conoscenza "rispettabile".
 Ma attenzione: non è ignoranza, è il contrario: è la conoscenza che oggi ci manca e di cui abbiamo bisogno per trarne la materia con cui costruirci nuove strade che ci portino fuori dalla situazione attuale di stallo.
    La weltanshauung, il pensiero forte che ci serve oggi, non è una filosofia soltanto teorica: è una consapevolezza fondata e fondante, ma che deve poter vivere nel presente delle situazioni concrete della nostra condizione e crescere nell’esperienza. Deve essere ciò che informa un modo di vivere, non solo e non tanto un modo di pensare. [.....]
    È un altro modo di vivere che ci serve. Ed una visione che lo fondi e che ci dia la convinzione e la chiarezza necessarie per affrontare le difficoltà che comporta il realizzarlo.

    Il fermarsi davanti a ciò che percepiscono come "sacro", delle culture tradizionali, il loro fondante riconoscimento che esiste il non-conoscibile, il non-manipolabile, il non-controllabile, il qualitativamente più grande di noi (senza ora entrare nel merito di cosa/dove/come questo sia) ci insegna che si può vivere e costruire una società ed una cultura, ed arte e musica e filosofia e vite individuali e sociali degne di essere vissute senza necessariamente dover andare sempre più avanti ed abbattere ogni limite, senza separarci, alienarci radicalmente dalla Natura e dall’Universo di cui siamo comunque inevitabilmente parte (anche se non capiamo come). La nozione del limite, anche nel campo del conoscibile, ed un diverso tipo di conoscenza extra-linguaggio attraverso l'esperienza e la dimensione del praticare, possono essere la nostra base per aprirci una strada che possa dirsi effettivamente altra dal percorso che ci ha portato alla situazione di crisi e di stallo in cui ci troviamo e da cui non pare questo stesso tipo di percorso sappia darci vie d'uscita.
    Attenzione però: accettare il limite non significa scegliere l'ideologia del limite, farne un comandamento ed iniziare a teorizzare su di esso: significa fermarsi e lasciar vuoto (di definibilità, di discorso, di logos) ciò che sta al di là di esso.

    Riconoscere il principio del limite, piuttosto, significa comprendere un fatto che credo sia massimamente importante e che costituirebbe un profondo cambiamento di prospettiva da molteplici punti di vista se da parte di tante persone si partisse da esso nel considerare le cose grandi e piccole della vita. Ovvero che, diversamente da come molti di noi sono abituati a vederlo, il mondo non si regge sul giusto e lo sbagliato, sul buono e il cattivo o sul bene e il male ecc.... Purtroppo, dal momento che noi, qui in Occidente soprattutto, siamo abituati a ragionare secondo queste categorie, una volta riconosciutele inadeguate a descrivere la realtà, non abbiamo saputo trarne altro che l’assolutismo relativista: l’idea per cui non ci sarebbe alcun fondamento al mondo, nessun metro per distinguere ciò che è da favorire o viceversa da contrastare come principio generale (e di conseguenza anche nelle situazioni specifiche).
    Il mondo, la Natura, si regge invece su qualcosa, che però non si adatta ad una tale visione per opposti: si regge sulla misura. Ciò che è veleno in una data quantità è medicina in un’altra; il fuoco che nella stufa ci scalda d’inverno e così ci salva la vita, può bruciare un’intera provincia uccidendo centinaia di esseri umani; la passione verso un’altra persona può dar luogo ad un grande amore, ma anche ad un omicidio. La differenza (in-)sostanziale che c’è tra le cose del mondo è una differenza di misura: non di quantità, ma di misura, che è una quantità non indipendente, assoluta, teorica, bensì contestuale. Diversa di volta in volta. L’universo è un gioco di proporzioni e di equilibri in costante movimento a differenti velocità. Ma, se la misura giusta di ogni cosa è relativa al momento ed alla situazione, non così si può dire del principio in sé per cui esiste, diversa di caso in caso ma sempre, la misura giusta ed una giusta capacità di capirla, di sentirla o di apprezzarla. Il livello più alto della saggezza nel rapporto col mondo, cioè con i fatti della vita, è probabilmente proprio il senso della misura: saper cogliere di volta in volta, di momento in momento, il punto equilibrato dei vari elementi (materiali e immateriali) componenti ogni singola situazione che si presenta, che va vista non come la loro sommatoria, ma come sistema.(8)

BRANO TRATTO DAL LIBRO
"L'ALTERNATIVA NEO-CONTADINA"
di Sergio Cabras,
edito con YouCanPrint (versione cartacea) e Streetlib (versione ebook)

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NOTE
1 -  Il tipo di progresso che conosciamo oggi, però, così sbilanciato sul versante materiale-tecnologico, rischia di far del tutto scomparire la consapevolezza di questa forma di adattamento attraverso la cultura come fondamentalmente strumentale ed illusoria e si finisce pertanto per credere fino in fondo all’autentica realtà della visione del mondo che ci siamo creati perdendo contatto ed armonia con la natura delle cose, con la realtà vera che è al di là di noi ed all’interno della quale viviamo, che comprende la facoltà stessa di crearcene un'immagine. Il ritrovarsi immersi oggi in un mondo che sempre più è fatto di realtà virtuale è il punto estremo a cui siamo giunti, se non l'epilogo, di questa facoltà. Nondimeno, la differenza rispetto al passato, amplificata in modo impressionante dalla tecnologia, è in ultima analisi una questione quantitativa mentre, in principio, gli esseri umani hanno sempre creato nella propria mente realtà virtuali (attraverso la cultura) e sono state sempre soprattutto queste quelle in cui hanno vissuto/creduto di vivere.

2 -  Le virgolette sono dovute al fatto che, sebbene l'ordine mentale che ci facciamo del mondo abbia conseguenze tecniche e tecnologiche che a buon diritto si possono dire esterne in quanto oggetti materiali, dal punto di vista del discorso che stiamo facendo, anche questo stesso ordine ed i "mattoni" concettuali che gli danno forma, per quanto immateriali, sono da considerarsi protesi esterne, perché concepite come elementi oggettuali esterni a (o altro da) il soggetto che li conosce e li definisce.

3 -   Non a caso condizioni di questo tipo sono anche quelle che si cercano di ricreare nei monasteri o nei conventi di clausura.

4 -  Per una presentazione approfondita della filosofia buddhista vedi:
- T.R.V. Murti “La Filosofia Centrale del Buddhismo” (Ubaldini)
- A.Tollini “Buddha e Natura di Buddha nello Shobogenzo” (Ubaldini)
- A.Tollini “Pratica e Illuminazione nello Shobogenzo” (Ubaldini)

5 - Wittgenstein era forse arrivato ad una conclusione in sintonia con il Buddha quando scrisse "su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere"? (L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus).

6 -  A differenza dell'idea che ne hanno molti di coloro che non l'hanno mai praticata, la meditazione è qualcosa che si fa almeno altrettanto con il corpo che con la mente, la differenza tra i quali, peraltro, durante la pratica diviene sempre più sfumata.



7 - Nella tradizione dello Zen Soto si insiste sul fatto che la meditazione (zazen) deve essere praticata con uno spirito "senza scopo" (mushotoku), senza spirito di profitto.

8 -  Nel buddhismo tibetano ciò è descritto con l'immagine del mandàla, che rappresenta un sistema concepito in questo senso, come una data configurazione di elementi.



sabato 25 novembre 2017

SARÀ IMPOPOLARE, MA......


....io sono qui su FB per dire quello che penso e non posso fare a meno di notare che tutto questo can can mediatico che si è alzato sul caso di Weinstein [co-fondatore della Miramax, grande casa di produzione cinematografica di Hollywood] e le varie attrici che lo accusano e sparano a zero su di lui mi pare che puzzi tanto di pensiero unico e della rapida estensione del suo dominio a colonizzare l'immaginario di troppe persone. Sarà bene mettere subito in chiaro una cosa fondamentale: non ho nessun dubbio che uno che approfitta del proprio potere nel decidere se una donna lavorerà o meno per imporle dei rapporti sessuali va condannato senza mezzi termini, sia questo nel cinema o in qualsiasi altro campo. Non ho neppure dubbi sul fatto che la violenza sessuale sia sempre e comunque da condannare e che qualsiasi comportamento anche sessualmente provocante da parte di una donna non la può comunque e in nessun caso giustificare. Detto questo però è innegabile che l'"appeal" sessuale è una delle carte - spesso la più forte - che molte delle donne che possono permettersela giocano per ottenere i propri obiettivi (ciò non significa necessariamente arrivando fino al rapporto sessuale agito; ci sono ovviamente molti modi, molte sfumature e molti livelli): sta nelle cose, ognuno gioca le carte che ha, è legittimo, anche se non è molto onesto né verso le altre donne meno dotate su questo piano (e magari più capaci professionalmente) né come criterio di selezione di chi va ad occupare i vari posti di lavoro; ed inoltre non aiuta il sorgere negli uomini dell'abituarsi ad una considerazione delle donne per ciò che sono come persone. Quindi, alla fine, va a detrimento delle donne stesse, ma tant'è. Ciò accade in qualsiasi campo e certamente l'obiettivo di avere una parte importante come attrice in una grossa produzione cinematografica è uno di quelli in cui questa carta è più giocabile. Giustamente si dirà che ciò avviene perché spesso nel ruolo di chi decide della selezione ci stanno dei maschi e questo crea tutto un sistema che, se nel caso di Weinstein adesso è venuto fuori, permea in realtà buona parte del mondo del lavoro e certamente di quello dello spettacolo. E non sempre lo scambio, il do ut des, tra favori sessuali ed occasioni di lavoro - a volte tali da poter cambiare la vita e la carriera - viene estorto nel modo brutale di cui è accusato Weinstein (peraltro da così tante e con circostanze riferite così simili che sembra difficile sia tutto falso). Molte volte semplicemente si capisce che è uno scambio che può aiutare e, se si vuole andare avanti, bisogna accettare che "così vanno le cose". Se si vuole andare avanti fino a certi livelli; livelli non da poco in questo caso. Altrimenti spesso si rimane nel sottobosco del mondo dello spettacolo, nel quale, che ci si debba prostituire fisicamente o soltanto accettando di seguire i gusti della massa, guardando a ciò che è vendibile, o adattandosi alle direttive di chi ci mette i soldi, comunque non basta essere bravi per affermarsi: è una cosa che chi ne ha una qualche esperienza sa molto bene. D'altra parte si dice che se non ci fossero gli uomini che vanno con le prostitute, nemmeno ci sarebbe la prostituzione. Quindi essi sono corresponsabili anche del loro sfruttamento. Questo cosa vuol dire? Vuol dire che la realtà di un sistema la fanno tutti quelli che vi partecipano: non solo quelli che lo dirigono e lo controllano. Vuol dire che, a mio modo di vedere, la questione della condanna senza mezzi termini di chi si comporta come Weinstein (ed anche di chi lo fa in modo meno brutale) - che non è in discussione - va separata però da quella della solidarietà verso le attrici che escono fuori adesso a sparare sulla croce rossa, magari a venti anni dai fatti in questione; magari dopo essere diventate star mondiali proprio grazie al sistema di cui Weinstein è uno dei massimi padroni; magari dopo aver fatto non uno ma sette o più film con lui; magari ammettendo che i rapporti sessuali avuti con lui non si sono limitati ad una volta nella quale non potevano fuggire, ma si sono ripetuti in diverse altre occasioni; magari - per alcune - avendo accettato inizialmente soldi per non parlare; magari dicendo che lo stesso le è successo anche con altri produttori - anche in Italia - però che di questi non serve fare i nomi perché non sarebbero più perseguibili legalmente (ma non avrebbe senso ed effetto farli lo stesso a livello d'immagine? o piuttosto è perché non sono ormai bruciati come nel caso di Weinstein e può darsi che capiterà ancora di lavorarci?). Quindi direi che una cosa è la condanna dei vari Weinstein e tutta un'altra accettare questa narrazione della coraggiosa difesa dei diritti e la dignità delle donne da parte di chi ha fatto la precisa scelta di mettere al primo posto il successo e la carriera e di tutto il resto se ne ricorda ora quando non ha nulla da perdere ormai nel dare addosso ad un personaggio che da rispettato potente (a fianco del quale si facevano fotografare sorridenti) è diventato un "impresentabile". Ora ci si possono permettere anche frasi tipo "devi avere una lenta agonìa, non meriti nemmeno una pallottola" che, dette, ad esempio, all'indirizzo di capi di Stato responsabili (negli USA ne sanno qualcosa) di ben altri crimini (migliaia di morti) suonerebbero come minacce terroristiche e sarebbero perseguite di conseguenza. Ciò che fa effetto in questo come in altri episodi pervasi da un analogo scandalo mediatico è l'ondata unitaria ed omologata con cui i media spianano la questione in una visione che vuol apparire convincente, semplice, chiara e netta rimuovendo l'altro lato da cui la si può vedere: il fatto che queste attrici abbiano accettato (e non una sola volta fisicamente costrette; e non per poi subito sottrarsene e denunciare) il do ut des del potente produttore viene messo da parte come fosse in-significante. Come se dovessimo accettare tutti, cioè, che se ciò era necessario per far carriera, se tale è il modo in cui il Mercato in questo specifico mondo (ma a ben vedere non solo in questo) funziona, in primo luogo ci si deve stare; se no non si va avanti. E allora solo chi è arrivato poi "avanti" potrà denunciare. Ma quando le circostanze glielo permettono nel ruolo del vincente, però. Il che colpisce il capro espiatorio, ma non mette in questione il sistema. E non è solo il sistema dei maschi che sottomettono le femmine, ma anche il sistema che chiede a tutte e a tutti (in modi diversi) di offrire scelte di vita e dignità se si vuole inserirsi ed ottenere risultati. Per quelle che non ci sono state fin dall'inizio resta il sottobosco dei perdenti, che si dovranno accontentare, nella migliore delle ipotesi, di far un lavoro per passione e di contare solo su quanto lo sanno fare. O addirittura - più spesso - di dover cambiar mestiere. Ma allora le loro non appariranno più come nobili denunce, ma solo come lamentele, forse un po' invidiose e certamente prive di interesse per i media. Così come in campo economico le (contro)riforme che vanno in senso liberista riescono meglio (vengono più accettate da chi le subirà) quando a farle sono governi "di sinistra", nello stesso modo la formazione di un pensiero unico, omologato e omologante, passa in modo più efficace ed al tempo stesso più in sordina, meno percettibilmente, se si associa a idee che hanno un'origine legata ad istanze e movimenti alternativi, libertari, a giuste cause per i diritti civili ed il rispetto delle persone. Legandosi a tali istanze, cose che invece - secondo i casi - non c'entrano nulla o almeno non ne discendono affatto necessariamente, passano come dirette conseguenze di esse, come loro corollari e perfino come loro ulteriori avanzamenti e riescono a mantenere esteriormente l'"appeal" di qualcosa che sa di libertà, di pensiero critico e di "alternativa", mentre contengono al contrario i germi di qualcosa che è omologante e destinato a svilupparsi in direzione del tutto opposta. Esempi di questo non casuale equivoco li troviamo in molte delle questioni che tengono banco quotidianamente sui media: quando si tende a presentare l'immigrazione solo nel suo aspetto di emergenza umanitaria e come problema culturale di chiusura al diverso, ma si dimentica o si minimizza il fatto che si tratta di un fenomeno niente affatto voluto spontanemente da chi vi è coinvolto, niente affatto mosso dalla volontà di costruire una nuova società globale multietnica-multiculturale, bensì subìto, sia dai migranti che dagli ospitanti, come conseguenza di un sistema di potere e sfruttamento globale che produce povertà, guerre ed emergenze climatiche; oppure quando si passa dalla giusta difesa dei diritti degli omosessuali a vivere come sentono di fare, senza dover temere discriminazioni e violenze, alla propaganda dell'idea per cui la base biologica naturale che ci fa maschi e femmine sia del tutto irrilevante - e con essa qualsiasi nozione di base naturale della realtà - che contino solo le nostre opinioni ed i fattori culturali anche su questo e che chi mette in dubbio un tale assunto (ormai quasi un dogma) debba automaticamente essere tacciato di "omofobia" (e di conseguenza considerato alla stregua di un fascista); o ancora quando si inventa la minaccia di turno delle "fake news", come fossero un attentato alla libertà di informazione e si pensa a come perseguirla legalmente imbavagliando il web, mentre non si tiene conto di quante fake news sono state propinate dai grandi media ufficiali con conseguenze tali perfino da scatenare guerre (inizio guerra del Vietnam, presunte armi di distruzione di massa in Iraq...) o da propagandare prodotti di consumo di massa poi rivelatisi mortali (l'eroina era inizialmente una medicina della Bayer; l'amianto presente in moltissimi materiali per decenni...). Possibile non venga mai in mente di chiedersi - quando ci si rallegra che i media "si battono" per alcune idee progressiste in materia di diritti civili e political correctness - com'è che siano tutti così unanimi su certi argomenti? e com'è che l'analisi, la discussione sia sempre così semplificata? e i rappresentanti di alcune posizioni non parlino mai? e com'è che si tratti degli stessi media che a volte sembrano stare invece dall'altra parte quando acconsentono a giustificare guerre imperialiste o politiche economiche che vanno evidentemente a vantaggio dei potentati finanziari globali e a detrimento della gente comune? Non si pensa - quando si sentono ripetere senza sosta questi "valori laici" verso la costruzione di una società più giusta (e magari più moderna, più "smart", 2,3,4.0 o non so cos'altro) - che, dietro, i padroni di questi stessi media sono sempre gli stessi? È una "società dello spettacolo" e bisogna farsi qualche domanda in più oltre ciò che a prima vista può apparire giusto o sbagliato: un esercizio al quale questo sistema delle opinioni "pret-à-porter" ci ha disabituato. Per questo non sono per il "cambiamento della società": non che non vorrei vivere in una ben diversa da quella attuale, ovviamente lo vorrei e molto! Ma in questo epilogo della Modernità Occidentale [per una discussione ampia sulla Modernità Occidentale e quello che considero il suo "vizio" di fondo rimando al mio libro "L'alternativa neo-contadina"] in cui si sta mostrando tutta la sua insufficienza, la sua impotenza ad arginare o contrastare le conseguenze disastrose delle mille contraddizioni che ha creato (mentre invece continua a crearne sempre di nuove in tutto il mondo) dovrebbe apparire sempre più chiaro che il sentirsi partecipi ed impegnati per il fatto di seguire e partecipare agli infiniti dibattiti politico-culturali sull'analisi delle cause di cosa va male e sui progetti più validi per cambiare "la società" ha sempre più la funzione di un palliativo, di uno specchietto per le allodole, di un depistaggio che serve a trattenere le persone nello spazio del virtuale e pertanto - non a caso - permette che passino come plausibili idee "di principio" apparentemente giuste ma che non tengono conto della concretezza e della complessità della realtà. E quindi che senso ha accettare che "purtroppo è così che vanno le cose" ed assoggettarvisi (traendone con ciò i benefici e partecipandovi) per poi farsi belli condannando a parole e nel modo più duro possibile ciò di cui si è stati compartecipi quando ciò non costa nulla? Per questo non sono per il "cambiamento della società", perché perlopiù si tratta di chiacchiere che lasciano il tempo che trovano: sono per il cambiamento degli individui, che è l'unico modo certo ed autentico per cambiare le società. Solo che questo richiede cose alquanto fuori moda quali sincerità, coerenza ed alcune rinunce. Cose con le quali in questo mondo non si va molto lontano in termini di successo, ricchezza, potere: non si è né "fighi" né "cool". Perciò, per quel poco che può valere la mia opinione, mi unisco senza dubbio alcuno alla condanna di Weinstein, dei molti come lui, dei loro metodi e prepotenze e con essi di molti aspetti di ciò che regola lo show business. Ma non sento alcuna solidarietà per queste attrici, star internazionali che devono il loro successo a questo stesso show business di cui sono parte integrante per loro scelta e lo devono a tutti i comportamenti concreti che hanno scelto di praticare in modo che le portassero fino al punto in cui sono oggi. Applaudite da spettatori questa volta così superficiali da non vedere che è una recita pure questa...ed anche un po' ipocrita stavolta.

sabato 31 dicembre 2016

REGALO DI NATALE


I bambini che recentemente, all'auditorium di Roma, hanno sentito, dalla voce del direttore d'orchestra - colui che aveva tenuto insieme e dato forma allo spettacolo cui avevano appena assistito - che Babbo Natale non esiste devono essere rimasti un po' sorpresi, almeno molti di loro. Qualcuno avrà anche pensato fra sé "lo sospettavo", altri non ci avranno nemmeno fatto caso, già presi dal pensiero di ciò che avrebbero voluto appena usciti dalla sala. Chi davvero però è rimasta scandalizzata, pare, è stata una buona parte dei genitori che hanno visto questa inopportuna uscita colpire rovinosamente quella piccola parte del mondo-come-dovrebbe-essere che gli era rimasta, cioè la versione che di esso amano presentare ai propri figli. Immediatamente la direzione dell'auditorium si è dissociata parlando di opinione personale di una singola persona e sottolineando che il responsabile era stato subito allontanato dall'incarico. Alcuni dei genitori minacciano perfino una class-action: non ci si vuol far mancare niente, evidentemente, per punire e censurare un'azione ritenuta così "vergognosa". L'atto del direttore d'orchestra viene trattato, sul piano cultural-psicologico e rispetto ai bambini, quasi si trattasse di un attentato terroristico: un attentato alla serenità dei piccoli e ad un loro presunto "diritto a sognare"; un attentato a quel mondo-come-dovrebbe-essere a cui si pensa abbiano diritto di credere o, forse, a cui i loro genitori credono di avere il diritto che i propri figli credano. Banalità sottaciuta, però, è il fatto che l'informazione che è stata data ai ragazzi.... è vera. Assolutamente vera, come tutti sanno. Ma questo sembra essere, in questo caso, un particolare irrilevante: il punto non è se l'informazione è vera o no, ma che è inopportuno che venga diffusa. In questo caso parliamo di Babbo Natale e dei bambini, ma viene spontaneo, mi pare, un collegamento di questa vicenda con ciò che si sente dire da varie fonti governative, dell'idea di un controllo (evidentemente censorio) sulle cosiddette "bufale" che girano su internet. Indubbiamente di pseudo-informazioni non provate e molto debolmente argomentate ne girano fin troppe ed una accurata selezione critica sarebbe utile se fossimo tutti noi direttamente a farla - anche quando ci può piacere o venir comodo prenderle per buone - anziché qualche agenzia governativa. Ma, nel caso delle "bufale" si tratta di questioni che potrebbero (più o meno probabilmente) essere false e perciò dannose. Mentre in quello di ciò che ha detto il direttore all'auditorium, si tratta di una cosa indubitabilmente vera, ma trattata ugualmente come dannosa e da condannare. Se ragioniamo su come il concetto attualmente sempre più in voga di "post-verità" si vada diffondendo nella mentalità comune e quanto riguardi di fatto anche la nozione di democrazia, la differenza è più sottile di quanto possa sembrare, e lo diventa anche di più se allarghiamo il modo in cui guardiamo alla questione ricordando il trattamento mediatico di quella (maggioritaria) parte della popolazione inglese o americana che ha votato per la Brexit o per Trump (al referendum italiano la maggioranza era troppo schiacciante e le speranze di restare al governo per chi ha perso troppo concrete per potersi permettere lo stesso atteggiamento): si è parlato di gente ignorante, arretrata, vecchia, di campagnoli non al passo con i tempi ecc... e c'è stato più di qualcuno che si è perfino chiesto se abbia ancora senso il voto a suffragio universale esteso anche a chi manifestamente non ha le "competenze necessarie" per.......votare "bene". Un discorso di minorità, in pratica, non così lontano da quello su Babbo Natale per i bambini, i quali hanno diritto a sognare.....e lasciamoli sognare, dunque, magari rimpinzandoli di tutto quello che vogliono, così imparano subito ad essere dei bravi cittadini consumatori consumisti devoti al Babbo Natale/Mercato Capitalista e dipendenti dal denaro fonte unica ed assoluta di ogni bene. Ma, per tornare ai bambini che erano all'auditorium, un bel regalo di Natale effettivamente credo l'abbiano avuto, fattogli insieme dal direttore d'orchestra e, loro malgrado, dai genitori e dalla direzione del teatro; un regalo che però potranno spacchettare ed aprire solo tra qualche anno: quando finalmente sapranno, senza ombra di dubbio, che davvero Babbo Natale non esiste: davvero, non è una bufala!! Allora forse si ricorderanno di quel "malvagio" direttore d'orchestra e si accorgeranno che a volte anche coloro che sembrano o sono visti male, come estranei, eccentrici, incompatibili, forse perfino pericolosi, può darsi che dicano la verità. E soprattutto che molto spesso chi dice la verità viene trattato così. Ma anche che, mentre le nostre e le altrui opinioni cambiano e passano, ciò che è vero resta, ed è ancora lì nel momento in cui non è più possibile negarlo, indipendentemente da quando "credibile" o "presentabile" fosse considerato colui che lo aveva riconosciuto prima degli altri.

mercoledì 14 dicembre 2016

PROMESSE DA POLITICI


Una volta si diceva "promessa da marinaio" per dire di un impegno preso da qualcuno a cui di certo non si poteva credere. Poveri marinai. E perché questo? Probabilmente perché spostandosi di porto in porto quel che valeva ora qui poteva non valer più in un altro momento altrove. Ma oggi sarebbe più adeguato dire "promessa da politicante", sia perché questi cambiano e negano ciò che dicono da un'ora all'altra, sia perché cambiano con facilità partito, casacca, coalizione, secondo le convenienze del momento. E quando non possono più cambiare (avendolo già fatto in tutte le combinazioni possibili) gli spazi nuovi in cui mettersi se li creano dal nulla: proprio dal nulla in termini di consenso elettorale (cioè di rappresentatività). E così abbiamo visto la processione, nei primi giorni delle consultazioni da Mattarella dopo la crisi di governo, di quella sfilza di gruppuscoli parlamentari di cui/che non abbiamo mai sentito parlare e che non rappresentano nessuno ma si danno nomi come fossero dei movimenti, costituiti in realtà dal continuo aggregarsi e separarsi di quei parlamentari entrati in parlamento perlopiù grazie a carriere interne ai partiti, alle liste elettorali bloccate, a favori, cooptazioni varie ecc.... che fanno e dicono di tutto e di più pur di giustificare la propria presenza lì e non perdere la poltrona con tutto ciò che l'accompagna. E d'altra parte non fanno altro, nel loro campo, di ciò che fanno molti altri nei loro, se appartengono a quel sottobosco che ruota intorno alle oligarchie, uniche detentrici dell'accesso ai ruoli significativi, affannandosi necessariamente per entrarvi. Ma, data questa inaffidabilità intrinseca del soggetto umano detto "politico" non ci siamo di certo stupiti se, dopo che la Boschi e Renzi hanno affermato "se perdo mi ritiro dalla politica", invece ce li ritroviamo ancora saldamente in sella, l'una pure salita di grado sempre dentro al governo, l'altro dietro e sopra il palco a muovere i fili della sua nuova controfigura, che sta ora sulla scena a "portare avanti il percorso di riforme iniziato", lasciando così la copia originale a rimettere definitivamente (il suo) ordine dentro al PD (ci fosse mai rimasto per dimenticanza qualcosa "di sinistra") e prepararsi alle nuove lezioni (caso mai prima o poi le si dovesse proprio per forza fare) a cui vorrebbe presentarsi come "alternativo ai (non meglio definiti) poteri forti". Come gli sarà possibile rivendersi in questa veste è difficile capire, ma appunto ci vuole un po' di tempo per trovare il modo, rifarsi un'immagine e, per lasciarglielo, nel frattempo al governo ci deve pensare appunto a la controfigura. Questa incoerenza dunque c'era da aspettarsela, per carità: siamo gente di (questo) mondo; viviamo nell'epoca della "post-verità": non pretenderemo mica che la parola valga ancora qualcosa!? Non ci scandalizziamo per così poco, naturalmente. Ciò che va giù con un po' maggiore difficoltà, però, è che dopo una così palese sconfessione popolare della manovra istituzionale tentata da Renzi - che non si riduce certo al suo tentativo di riforma costituzionale - la controfigura Gentiloni non ci si presenta dicendo onestamente qualcosa come: "il rifiuto del progetto governativo è stato chiaro e segna il venir meno della rappresentatività del governo Renzi [il quale peraltro non è mai stato eletto] e di questo parlamento [eletto con un sistema poi dichiarato incostituzionale, secondo una Costituzione appena riconfermata dal voto popolare], quindi, essendo assurdo e demagogico, come fanno alcuni, pretendere che si possa votare immediatamente, non avendo una legge lettorale né decente né univoca per le due Camere [il che è un fatto, ed un fatto che purtroppo dimostra l'irragionevolezza o il populismo di M5S e Lega in questo passaggio, in cui sanno bene che ciò che dicono non si può fare, ma sanno anche che dirlo pagherà elettoralmente] io terrò in piedi un governo esclusivamente il tempo necessario per fare la legge lettorale che è possibile avere nel modo il più possibile rapido ed accettabile per tutti [cioè tornando al Mattarellum, eventualmente con qualche correzione se ci si riesce presto], e tornare nel giro di un paio di mesi a dar la parola agli elettori, come è giusto che sia a questo punto, se vogliamo chiamarci una democrazia degna di questo nome". Non avrebbe potuto dire qualcosa di questo tipo? E si sarebbe pure preparato il terreno per ottenere poi un buon risultato elettorale, perché sarebbe stato un parlar franco, conseguente, e perché è ciò che la maggioranza della gente vuole, come il voto referendario ha mostrato chiaramente. E invece, in modo davvero paradossale Gentiloni ed il "suo" governo (pressoché identico al precedente) rivendicano, come programma, una esplicità continuità con quello presieduto da Renzi e l'intenzione di "portare avanti il lavoro che il precedente premier ha avviato" con la malcelata speranza/intenzione di arrivare a fine legislatura. Cosa che si augurano anche molti nelle pseudo-opposizioni. Evidentemente si sta cercando, arrampicandosi sugli specchi se necessario, di continuare a portare avanti un disegno che viene da lontano, da lontano nello spazio, perché certamente non gli sono estranee forze della finanza globale, statunitensi ed europee, oltre che italiane (ma ormai possiamo dire semplicemente globali), che vogliono sistemi politici più efficienti per le loro esigenze. Evidentemente non basta che i governi ormai da almeno quarant'anni fanno solo ciò che vogliono queste forze globali, ma bisogna che lo facciano anche più presto, senza tutte queste lungaggini parlamentari, perché i tempi della finanza oggi sono veloci e la democrazia è una cosa buona da esportare, da imporre all'estero, insieme allo "sviluppo", cioè al consumismo e agli accordi internazionali sul commercio ecc..., ma che dove già è stabilita non c'è bisogno che sia troppo vera: basta che la gente ci creda, in teoria, e non serve nemmeno che poi a votare ci vadano in tanti. Ed è un disegno che viene da lontano nel tempo, come minimo da quando Berlusconi - dopo aver resistito per vent'anni nonostante non so quanti processi, il conflitto di interessi, un chiaro discredito internazionale, conflitti interni alla sua coalizione, gli ex-DC e gli ex-PCI-PDS-DS che si sono messi insieme pur di togliergli il governo - nel giro di nemmeno un paio di settimane (e dopo aver visto i titoli delle sue aziende scendere rapidamente in borsa) ha accettato dall'oggi al domani di rassegnare le dimissioni a favore del GoldmanSachsiano Mario Monti, infilato in parlamento da Napolitano come senatore a vita una settimana prima di farlo presidente del Consiglio, il quale è passato subito a fare le politiche che ben sappiamo. Berlusconi dovrà essersi trovato davanti delle ragioni a cui non avrà potuto dire di no, evidentemente. Da allora gli equilibrismi si son susseguiti sia per tenere al governo personaggi non eletti che garantivano la prosecuzione dell'opera, sia per mantenere alla regìa generale dell'operazione il presidente Napolitano, evidentemente l'emissario nazionale dei poteri globali che hanno il vero interesse ai cambiamenti che in questi ultimi anni si è cercato di realizzare in Italia. Addirittura per la prima volta abbiamo avuto la rielezione per un secondo mandato di un presidente della Repubblica, il quale peraltro non ha smesso di farsi sentire nemmeno dopo aver lasciato la carica. Nel quadro di questa regìa, i Monti, i Letta, i Renzi, ora i Gentiloni (?), ma con loro i vari comprimari di maggioranze e sedicenti opposizioni sono ora interpreti, ora comparse, dello stesso spettacolo che racconta lo stravolgimento di una democrazia, ovvero la formalizzazione anche nel diritto di quella gestione antidemocratica di una democrazia che ha lasciato sempre nelle mani di cerchie ristrette i privilegi di sempre, che ha dato forma ad uno dei Paesi con più bassa mobilità sociale dell'Occidente, in cui la regola dell'appartenenza a "gli amici degli amici" o alla classe di coloro che hanno i mezzi economici e gli agganci giusti per fare le cose è e resta la chiave, conditio sine qua non per l'accesso a qualsiasi cosa, a qualsiasi possibilità. Così come Berlusconi non ha realizzato alcun cambiamento reale a beneficio pubblico nel suo ventennio, ma ha sempre perseguito quegli aggiustamenti utili ai suoi interessi ad personam, allo stesso modo, in questo quinquennio "Napolitanista" (con appendice Renziana), c'è qualcuno che ha visto cambiamenti significativi che abbiano migliorato la condizione della gente o del Paese in generale? Anche qui si è perseguito costantemente un solo disegno, che viene tutt'ora perseguito contro l'evidenza di una volontà divergente da parte dell'elettorato. Un disegno che mira a limitare la democrazia, a snaturarne la natura ed il significato. La differenza con Berlusconi è che ora anziché snaturarla per favorire l'interesse privato di una piccola cricca nazionale, la si tradisce a vantaggio di una grossa cricca transnazionale, globalizzata, anzi globalista, ma, su scala planetaria, perfino più ristretta ed elitaria. Più moderna, però, più globale, più al passo con i tempi, più istruita, apparentemente più presentabile, senza dubbio. Non come quella "plebaglia reazionaria e localista" che ha votato Trump in America e la Brexit in Gran Bretagna, che non capisce l'evoluzione e la selezione naturale e insiste a difendere il proprio mondo piccolo e locale, solo perché è conosciuto ed ancora un minimo autogestibile. Chi si sente progressista non vuole mischiarsi con questa gente: gente che spesso sbanda per strada, col rischio di ammazzare qualcuno, ubriacandosi di razzismo, di prepotenza, di egoismo, dando retta a demagoghi criptofascisti, facili da ascoltare per la pochezza di ciò che dicono, che non porteranno che disastri se malauguratamente arrivassero al potere. Non ci si può mischiare, e però, quanto a lungo potrà bastarci questo non mischiarci con costoro se il prezzo è accettare tante false chiacchiere sull'inevitabilità di certi passaggi, sull'impossibilità delle alternative, sui terribili rischi e catastrofi a cui andremmo incontro se li rifiutassimo (e che poi non avvengono più che accettandoli)? A troppe finzioni si accetta di fingere di credere per conservare intatto un certo progressismo: anche che il fatto stesso di attribuirsene l'etichetta basti a vivere politicamente di rendita. Troppe di queste finzioni son passate grazie a tali etichette: ieri quella dell'antiberlusconismo, oggi dell'antipopulismo, dell'anti-antipolitica.... ma il risultato è che proprio ai governi di sinistra riesce meglio di far passare le politiche di destra. Ormai è un classico. Vogliamo chiamarle "prese per il culo 4.0"? Forse ci aiuterà a sentirci meglio. Ma il punto è che occorre pensare a qualcosa di diverso, di profondamente diverso. Al di là della della destra e la sinistra, al di là della modernità, al di là forse della stessa politica, se ci illudiamo che basti da sola a cambiare le cose.

mercoledì 17 agosto 2016

LA NUDA VERITÀ


Mi pare proprio che con questa storia del divieto del "burkini" la cosiddetta "laicità" - oggi di gran moda - stia rivendicando non la libertà delle donne di scoprire il proprio corpo, ma piuttosto la propria di rivelarsi sempre più apertamente come "-ismo": laicismo e non laicità, impositivo ed assolutista come la maggior parte degli -ismi. La si spaccia come difesa della democrazia, come salvaguardia dei valori di libertà ed autodeterminazione che apparterrebbero all'Occidente, ma che evidentemente gli appartengono da sempre come propria proprietà esclusiva fondata sull'esclusione dell'altro. Qualora questi abbia l'orgoglio e la sfrontatezza evidentemente inaccettabile ai nostri difensori della democrazia e del pluralismo di essere e voler rimanere "altro". Il vero volto che si svela è quello dell'imposizione, tale né più né meno di quella che vieta altrove cose diverse: perché chi è che attacca chi in questo caso? Chi vuol costringere qualcun altro alle proprie convinzioni? Pretendere che le donne islamiche stiano portando con i loro burkini un pericoloso attacco ai nostri presunti valori azzardandosi ad imporci la loro vista di corpi coperti al mare è semplicemente ridicolo. È vero esattamente il contrario: quella della libertà nel modo in cui quest'Occidente al capolinea la intende - che tanto più la sbandiera quanto sempre meno è capace di fermarsi a chiedersi cosa sia e cosa valga la pena e sia corretto farci - sta diventando semplicemente la giustificazione della chiusura nel privilegio, dell'indisponibilità a chiedersi come storicamente siamo arrivati fin qui, a questo scontro di civiltà ormai conclamato e pericolosissimo. Scontro che non potrà che accrescersi se una parte, la più forte peraltro, continuerà imperterrita a credere di avere tutto e solo da insegnare agli altri, ai mussulmani in particolare, quelli che hanno l'ardire di seguire le proprie convinzioni (ma che non per questo possono essere confusi con dei potenziali assassini), e a tacciarli a priori di violenza latente senza ricordare su quanta violenza si è basata tutta la storia dell'Occidente e di quanta imposizione su ogni altro popolo e cultura si nutre la sua ricchezza ed il suo privilegio. Il corpo nudo delle donne - che era uno scandalo anche da noi fino a non molto tempo fa - viene usato oggi a dismisura per pubblicizzare i prodotti che questa società del consumismo ha da vendere, ma questa onnipresente mostra sta diventando sempre più anche simbolo di propaganda: della pretesa di superiorità, di maggiore avanzamento culturale, di progresso autoreferenziale, di sviluppo (inteso essenzialmente in termini di PIL) dell'Occidente e di tutti coloro che nel mondo seguono il suo modello. Si pretende che questa nudità libera e sfrontata possa vestire di valori e significato tutte queste pretese; seguiteci sulla strada che vi indichiamo: è così che noi siamo arrivati a questa libertà! È naturale che faccia un grande effetto su molta gente in contesti tradizionali, ma, se ci pensiamo e andiamo a stringere la sostanza di questa propaganda, verrebbe da dire che a questo punto non più solo il re, ma - con buona pace di tutte le promesse di "etica della differenza", di "altre narrazioni" ecc... - anche la regina ormai è nuda.

martedì 9 febbraio 2016

RIFLESSIONI SU CERTO AMBIENTALISMO CITTADINO


Una volta un amico mi parlava di sua madre che usava dirgli qualcosa sui fiori. Qualcosa tipo: “I fiori sono bellissimi, ma vanno solo guardati perché durano poco. Se provi a prenderli la loro bellezza svanisce ancor prima”. Naturalmente la frase conteneva una metafora che poteva valere per tutto ciò che c’è di bello nella vita o per la vita in genere: i momenti di felicità e soddisfazione sono fuggenti ed il corso delle cose va lasciato scorrere ed apprezzato per ciò che è, tentare di far prevalere la nostra ambizione di possesso ed appropriarcene rovina anche quel poco di bene che ci è concesso. Questa era un po’ l’idea. Non si può dar torto alla mamma del mio amico. Nondimeno, al tempo stesso, è evidente come il suo fosse un modo molto cittadino di vedere le cose – ed infatti aveva passato tutta la vita dentro Roma. Tra il conteplare il fiore senza alcuna interazione fisica ed il coglierlo uccidendolo nel tentativo di farlo proprio non sapeva immaginare una terza via: quella di coltivare dei fiori. Nel dire a suo figlio tutta la caducità nella bellezza dei fiori sottolineava il fatto che la loro stagione è breve, appena una settimana o poco più all’anno, diceva. E così ripeteva lui, che infatti non riteneva valesse la pena di tenerne in casa. Ma chiunque abbia una qualche esperienza di giardinaggio e conosca anche solo un poco le piante da fiore sa che se ne possono coltivare per quasi tutto l’anno, inverno compreso, scegliendo le varietà adatte ed effettuando le semine a rotazione. Certo, bisogna avere un rapporto fisico, pratico, lavorativo con le piante, la terra, maneggiarle, percepire i fiori come esseri viventi, precari, problematici e contraddittori come tutti gli esseri che vivono. Non che in città non ci sia la possibilità di coltivare dei fiori, ma è più facile dimenticarsene. Se si conoscono come oggetti da acquistare dal fioraio e mettere in vaso o come immagini appese al muro, metafore di bellezze ideali, può darsi si creda di apprezzarli ad un livello più alto, ma probabilmente non si ha proprio idea di cosa siano. Nel coltivarli, i fiori, si scopre la possibilità che abbiamo, quali elementi della Natura, di esserne compartecipi, parte in causa ed attiva, non padroni. Ma nemmeno privi della possibilità di interagire con gli altri elementi ed anche adattare il mondo cui apparteniamo, in certa misura, a nostra misura. Il che implica anche una responsabilità, naturalmente. Nella metafora della mamma del mio amico è contenuta l’annosa questione del rapporto degli umani con l’ambiente (termine equivoco e surrettizio usato spesso al posto di Natura pensando così di annettere anche questa all’ambito di pertinenza dell’agire umano ovvero di negare la sua esistenza di per sé). Il cosidetto ambientalismo ha preso le prime mosse come atto di allarme e di denuncia dei processi distruttivi di origine antropica che, con l’obiettivo di accaparrarsi ogni genere di risorse naturali a fini di profitto e di consumo, già da tempo stanno mettendo a rischio gli equilibri ecosistemici e con ciò – a più o meno lungo termine – la sopravvivenza stessa di molte specie viventi tra cui anche la nostra. La risposta tipicamente ambientalista a questo stato di cose è stata quella conservazionista per cui bisogna limitare il più possibile l’intervento umano sull’ambiente e proteggere le specie animali e vegetali a cominciare, ovviamente, da quelle a rischio di estinzione. Una tale posizione, in linea di principio ineccepibile, non ha però mancato di sconfinare a volte al di là di una misura che possa dirsi genuinamente eco-logica, come nei casi in cui si è preferito allontanare dai propri territori ancestrali popolazioni di cacciatori tradizionali per far posto a parchi nazionali (col relativo afflusso di turisti stranieri paganti in valuta forte) o in cui ci si oppone a generatori di energie rinnovabili per ragioni non sempre proporzionate al loro valore sull’ecologia globale. Ma, eccessi particolari a parte, i movimenti ambientalisti sono spesso stati sul limite – ed anche oltre – di una condanna tout-court quasi della presenza stessa degli umani nella Natura, come se tale presenza dovesse essere per definizione incompatibile. Come se non ci potessero più essere o perfino non ci fossero mai state forme di vita umana perfettamente integrate e sostenibili rispetto all’ambiente naturale che le ospitava. Ovviamente sappiamo che ciò non è vero altrimenti i pericoli di disastri biologici planetari causati dagli esseri umani che si presentano oggi avrebbero dato le loro conseguenze già molto tempo fa. Purtroppo è una caratteristica della nostra cultura occidentale moderna - segnata dalla pervicace abitudine ad un pensiero astratto, intellettualista, iperconcettuale, separato dall’esperienza empirica così come nella sua visione lo sono la mente dal corpo, il reale da ciò che non è nominabile, il bene dal male – che agli eccessi di una corrente di pensiero egemone ispirata a certi valori e ad una certa visione delle cose debbano inevitabilmente seguire quelli di segno opposto. Così ad un iperrazionalismo meccanicistico segue l’esotismo da figli dei fiori che poi fa posto ad un rozzo materialismo edonista e conformista da cui si passa alla manìa per le superficiali trasgressioni di costume seguite dal buonismo politically correct per poi passare al pragmatismo di uno pseudo-realismo che non vede al di là del proprio conto in banca fino alla “riscoperta” delle “cose naturali di una volta” da boutique e chiacchiere new age da centro benessere. Da una cultura scientista-positivista si finisce per dar credito e pari dignità a qualsiasi volgarizzazione di credenze tradizionali o irrazionalismo purché abbia un’aura esotizzante. E da una società patriarcale machista si passa ad una in cui il fatto stesso di esser maschi già è di per sé una mezza colpa a meno che non si abbia almeno una parziale tendenza omosessuale ed in cui la meritocrazia non c’è verso che passi in nessun campo, ma le quote rosa si. Purtroppo, nel corso di questo procedere per opposti sbandamenti, l’uso di un senso della misura sufficiente a cogliere il punto critico delle questioni, attenervisi e non andar oltre è raro come una chimera. Forse perché qui (in Occidente) siamo troppo infatuati di ideologie e mode culturali (come altrove lo sono delle religioni) per mantenere di fronte ad esse un criterio di ragionevolezza. Evidentemente ci servono – o così crediamo – ci troviamo un’identità, il senso che non troviamo nella vita ed allora ci buttiamo dentro a capofitto, eventualmente in senso antiideologico anche, ma sempre ideologicamente. Allora, per tornare all’ambientalismo, non si può non riconoscere che certe posizioni ultraconservazioniste abbiano portato più argomenti ai detrattori dell’ecologismo che ai suoi sostenitori. Penso a quelle che puntano il loro impegno sulla salvezza di un certo numero di individui di una determinata specie animale perdendo di vista il quadro ecosistemico complessivo e la portata della battaglia culturale amplissima che serve per proteggerlo o di chi vuol difendere determinati ecotopi in paesi poveri senza prendere in considerazione l’aspirazione di chi vi abita ad un minimo di sviluppo anche economico, L’emergenza che abbiamo di fronte – e ciò che più d’ogni altra questione dovrebbe starci a cuore se siamo degli ‘ambientalisti’ – sono i pericoli che minacciano il pianeta in quanto sistema ecologico, che minacciano i suoi equilibri funzionali. Questo sistema ecologico non ha nulla di buonista o di democratico, né è organizzato per essere una storia a lieto fine per nessuno: fatica e pericolo sono sempre presenti e la morte è invariabilmente l’esito finale nell’esistenza di ogni individuo a qualsiasi specie vivente appartenga. L’estinzione di intere specie, anche, è uno dei vari elementi che periodicamente fanno parte del quadro. Anziché corrispondere ai concetti umani di bene e di male, questo quadro trova la sua inconcepibile armonia in un equilibrio dinamico di proporzioni, di misure reciprocamente compatibili secondo una legge per la quale qualsiasi cosa può crescere solo fino a un dato limite ed è poi condannata a decadere. Alla lunga si vive solo se in rapporto organico e sostenibile col resto del mondo. Altrimenti, e più presto che tardi – sulla scala temporale del pianeta, ovviamente – si viene spazzati via senza tanti complimenti da uno di quegli “schiaffi di Dio” che, come diceva Giorgio Gaber, “appiccicano al muro” . Questa è la questione: per cui non si tratta di salvare i paesaggi che ci piacciono per andarli a vedere in vacanza o gli animali più amati dai nostri bambini. Si tratta di difendere in primo luogo le funzioni vitali degli ecosistemi in quanto questi sono la vita sul pianeta a prescindere da qualsivoglia scala di valori noi possiamo avere ed a prescindere da noi umani stessi in realtà. Per cui è nella loro salvaguardia che sta la nostra possibilità di sopravvivenza ed, alla lunga, anche di una vita degna di essere vissuta. Fin qui tutti d’accordo, spero – almeno, tra ecologisti. Ma, la cosa che non sembra essere chiara a molti è che, siccome l’essere umano c’è ed arrivato, piaccia o non piaccia, ad avere un peso decisivo nella sua interazione con quella che qualcuno chiama la biosfera, il punto centrale non è quello di difendere con disperate resistenze alcuni elementi (ognuno quelli che più toccano la sua sensibilità) di questa biosfera, ma quello di capire quale possa essere un modello duraturo di coesistenza umana con l’insieme della vita sulla Terra. Le forme di questa coesistenza non potranno essere qualcosa di (ex)stra-ordinario ed inusitatamente ‘buono’ che gli umani potrebbero illudersi di creare ex-novo sul pianeta – come un mondo dove violenza e sopraffazione, necessità, scarsità, dolore, fatica, malattia e morte siano scomparsi. Ciò non sarebbe altro che il modo per ripetere dei pericolosi disastri, pur con le migliori intenzioni. Negli equilibri che regolano la vita sulla Terra il punto centrale è un principio di misura: per noi umani (almeno per un bel numero – forse ancora ci staremmo tutti) c’è posto su questo pianeta. Ma ce n’è abbastanza, come diceva Gandhi, per i bisogni di tutti, non per l’avidità di alcuni. Qui sta l’armonia: il mio spazio finisce dove comincia il tuo. Così ciò che può prendersi l’essere umano trova un limite in ciò che davvero gli serve ed oltre il quale rimane abbondante spazio vitale perché gli ecosistemi funzionino e si riproducano. La soluzione starebbe nel considerarci, noi umani, proprio come elementi dell’ecosistema. Ma questo non può essere solo un’idea o una pia intenzione: deve tradursi in un modello economico, in un sistema di produzione e consumo armonico e sostenibile. Altrimenti sono solo chiacchiere: nuovi espedienti tinti di ‘verde’ per far ancora più business o, nella migliore delle ipotesi, velleitarismi romantici da anime belle. In attesa di venire a conoscenza di altre (e migliori?) soluzioni applicabili effettivamente su scala di massa, il neo-contadino cerca di costruire una dimensione di vita e di economia praticabile già qui ed ora e sostenibile in prospettiva. E’ fiducioso che il suo possa essere un modello valido perché ricalca – aggiornandolo – quello che ha dato da vivere agli esseri umani in ogni luogo del mondo per almeno dodici millenni – durante i quali, peraltro, gli stessi umani hanno avuto modo di esprimersi nella più inimmaginabile varietà e ricchezza di culture umane…… (nel caso qualcuno temesse un appiattimento culturale anziché vederlo in quello che sta uniformando questo mondo di consumisti massmediatizzati). Allora, se c’è oggi una specie davvero da proteggere, questa è quella dei contadini, che sono i veri custodi del mondo. In primo luogo quelli tradizionali dei paesi non ancora sviluppati che vanno aiutati con ogni mezzo a restare sulle loro terre e nei loro villaggi a continuare il lavoro dei padri. Questo significa permettergli di migliorare un poco le loro condizioni di vita lì dove si trovano: manca molto meno a loro per avere una vita dignitosamente accettabile e sobriamente godibile di quanto dovremmo decrescere noi per rientrare in limiti sostenibili – pur senza arrivare a farci mancare niente. E poi vanno sostenuti i contadini dei nostri paesi nel restare nelle campagne e quelli nuovi che le volessero ripopolare. I contadini però: non gli imprenditori agricoli con contributi a pioggia in modo assistenzialista dati (per fare solo un esempio) sul seminato senza neanche verificare che poi ci sia un raccolto. Intanto che si studiano innovative soluzioni tecnologiche o di ingegneria sociale, dato che la dimensione contadina è una possibilità collaudata ed aggiornabile, vantaggiosa non solo per chi la vive direttamente anche sul piano dell’occupazione, dell’ambiente, del cibo, del territorio, del clima, della biodiversità, del turismo ecc…ecc… perché non sostenere – o almeno evitare di creare ostacoli – a chi vuole praticarla? E perché, da parte degli ambientalisti non metterla al centro delle proprie proposte anche politiche?

martedì 2 febbraio 2016

NÉ FAMILY DAY NÈ FAMILY GAY


Non sono andato al Family Day. Non ci sono andato perché non me la sarei sentita di confondermi, in una situazione del genere, con persone che nella stragrande maggioranza hanno, ne sono certo, una visione delle cose complessivamente molto diversa dalla mia. Non condivido la loro difesa della famiglia tradizionale in sé stessa, non credo che sia voluta da Dio e nemmeno sono cristiano per cui un tale Dio non credo esista. Eppure non mi è dispiaciuto affatto vedere così tanta gente manifestare apertamente il proprio dissenso verso non solo un provvedimento di legge - che, in una qualche forma o in una qualche sua parte, di per sé può anche avere una sua ragion d'essere - ma soprattutto, credo, contro ciò che dietro ed oltre di esso cerca di imporsi come normale e normalmente accettabile. Perché questo è il vero motivo del contendere: se si trattasse solo di trovare una forma legale per riconoscere alcuni diritti alle coppie omosessuali non ci sarebbe bisogno della campagna mediatica che è in atto attorno a questa questione. Ma non ci sarebbe nemmeno bisogno di una legge che nei fatti equipara il matronio gay a quello tra un uomo ed una donna, lasciandone l'unica differenza poco più che nelle parole. Dopo l'epoca dell'omosessualità come trasgressione, come forma di sessualità alternativa a quella normale (in inglese detta "straight"), è ora giunta quella dell'omosessualità normale, riconosciuta e ratificata - diciamo pure benedetta - dal Laicismo, nuova religione di Stato, con tutti i suoi sacramenti costituiti dalle "laiche" omelìe mediatiche, dall'assunzione del tema nella sfera dei diritti umani/civili, dei tratti distintivi del Progresso e dell'Occidente (del resto son quasi sinonimi) e dalle minacce di scomunica da parte dell'Unione Europea, in caso ci si sottraesse a sancire legalmente il tutto. Chiusa l'era dell'alternative gay siamo entrati in quella del family gay, il gay che vuol avere anche lui una normale vita di famiglia. Ma come ci siamo arrivati? Certo i fattori di cambiamento sono molteplici e non possono essere troppo semplificati, ma, pur limitandoci al livello della bassa politica e della "cultura" di massa, non si può evitare di notare alcuni passaggi curiosi e interessanti. Per quanto questa affermazione suprema della mentalità relativista o del Laicismo religione di Stato si presenti oggi come una cosa "di sinistra", è stato in realtà proprio il ventennio berlusconista che le ha preparato il terreno. Di questo ventennio ho sempre pensato che gli effetti più pesanti e duraturi siano avvenuti sul piano della coscienza di massa, della cultura popolarmente diffusa, molto più che su quello della politica. E ciò è passato attraverso la mutazione antropologica che il Berlusca è riuscito ad ottenere sugli italiani attraverso le sue televisioni, non attraverso il suo partito o i suoi governi. È grazie allo stile che le sue emittenti hanno reso normale che è diventato del tutto accettabile che un transessuale di alto bordo (mi pare si chiamasse Efe Bal o qualcosa del genere) venga invitato come ospite (intervistato singolarmente) ad una trasmisione televisiva di approfondimento politico e dica di essere orgoglioso di fare la prostituta (davvero, quale sarebbe il motivo d'orgoglio non lo capisco, ma sarà perché sono antiquato). È stato attraverso la non-morale - il superamento di ogni etica contrabbandato come avanzamento e liberazione culturale - propagandata dal mito dell'esteriorità berlusconiano che questa in-differenza, per cui tutto è uguale a tutto e tutto egualmente accettabile, è diventata la regola ed il metro della società in cui viviamo. O, più che altro, di quella in cui crediamo di vivere perché accettiamo l'idea che la società che i media ci raccontano sia perfino più reale di quella che effettivamente incontriamo tutti i giorni. E perché la accettiamo? Perché di fronte a quella - spettacolarizzata - che ci narrano i media la nostra realtà vissuta ci appare piccola, poco dotata di significato, non vi vediamo brillare quel "qualcosa" che fa grandi e forti le cose come le vediamo rappresentate sui media. Non è che vediamo molte cose buone e valide sui media, ancor meno persone che lo siano, né cose vere, né tantomeno persone vere - quale che sia il senso che vogliamo dare a questa parola. Ma è proprio questo che il ventennio berlusconista ci ha insegnato: che non conta nulla la verità, che tutto e chiunque può arrivare a meritare l'altrui attenzione - e forse invidia, ammirazione, emulazione - purché sia bello, ricco e di successo e perciò faccia spettacolo. Col berlusconismo la "società dello spettacolo" come forma di dominio delle coscienze di cui parlava Guy Debord ha avviato in Italia la sua completa affermazione (il che ovviamente non sorprende essendo il suo esponente-simbolo un proprietario di vari canali televisivi, giornali case editrici, emittenti radio...). Ma si tratta di un fenomeno che continua oggi ad estendere ed approfondire la sua manipolazione, solo che lo spettacolo, sotto la "sinistra" renziana, si presenta come "comunicazione", "informazione", libertà (del tutto irrilevante perché tanto le decisioni sono già prese comunque ed altrove) di espressione, di dibattito e di dissenso. Ai tempi di Berlusconi il processo era ancora imperfetto ed il nostro imprenditore nazionale dalla statura napoleonica (non quella politica, però) doveva ancora accompagnarsi a personaggi come Fini, provenienti direttamente dal passato fascista per affrontare, come a Genova 2001, il dissenso e proteggere il potere (suo e quello globale - che più tardi gli ha dato il benservito sostuendolo col più organico Monti). Oggi le cose sono molto più sofisticate e la quadratura del cerchio è quando si riesce a far passare le manovre che spianano la strada ad un sempre più incontrastato liberismo globalizzato come una rivendicazione di orgoglio ed autonomia nazionale (vedi Renzi verso l'Europa e la Merkel) e coloro che resistono allo stravolgimento di ogni sentire condiviso e di ogni identità come nemici della libertà, potenziali fascisti. Una volta che si è ottenuta come scontata l'in-differenza di ogni cosa rispetto ad ogni altra, la scomparsa di ogni valore ed ogni etica, che si è fatto del successo, della bellezza esteriore, della ricchezza e dello spettacolo l'unico metro su cui valutare qualsiasi cosa; una volta che, nell'accezione popolarmente accettata, si è ottenuta l'identificazione di tutto ciò coll'idea di Progresso e demonizzato chiunque si opponga a ciò che viene spacciato come tale, non c'è più modo di portare argomenti che cerchino di ricondurre alla realtà, se escono dalla narrazione dello spettacolo. Che è sempre una narrazione dicotomica, manichea in modo hollywoodiano, in cui le coordinate che definiscono ciò che è bene e ciò che è male cambiano secondo le mode e le convenienze, ma sempre si ripete immutato lo schema: i buoni e i cattivi, chiaramente e nettamente distinguibili ed alla fine...arrivano i nostri! (lo si vedrà presto in Libia, credo...). In questi termini anche chi vuole opporsi nel modo più cruento possibile si inserisce nello schema creato dal dominio culturale dello spettacolo e, come l'ISIS, presenta la sua guerra nel modo più spettacolare possibile. Ed è un gioco in cui, dal punto di vista della narrazione spettacolare della pseudo-realtà, non si saprebbe ben dire quanto jihadisti ed Occidente si combattano reciprocamente o invece collaborino a rendere sempre più totale il dominio di questa narrazione, che è utile ad entrambi, in fondo. Per tornare al Family Day, una volta ottenuta la sfiducia a priori in qualunque cosa ed in chiunque, è facile dire, come la Litizzetto, che si è trattato di un raduno di gente che va con puttane e travestiti, che si è sposata e divorziata varie volte e poi difende pubblicamente la famiglia tradizionale. Ma questa condizione di ipocrisia generale chi l'ha creata? Non è un sistema complessivo che se ne nutre, a cominciare da chi lavora in TV? dai cerchiobottismi della politica? e vogliamo dire che la cosiddetta "sinistra" non ne sa nulla, con tutta la ventennale ambiguità del PD (e precedenti denominazioni) verso Berlusconi (che se non ci fosse stato avrebbero dovuto inventarlo per far finta ancora per un po' di essere "di sinistra", di difendere una democrazia messa in pericolo e così tenersi il nocciolo duro dei propri votanti) e della sua attuale minoranza interna che alla fine va sempre a sostenere Renzi? È vero, senza dubbio, che nella difesa della famiglia tradizionale, dei "valori" ecc... c'è anche tanta ipocrisia da parte di tante persone. Soprattutto da parte di ignobili politici che stanno lì solo a specularci sopra senza aver fatto mai vere politiche a sostegno delle famiglie anche quando avrebbero potuto. Ma basta questo a dire che c'è solo ipocrisia? Che non ci sia in realtà anche tanta gente che a queste cose ci crede e le vive davvero? E soprattutto, basta a dire che per gli esseri umani non si possa in alcun modo distinguere tra ciò che è secondo Natura e ciò che non lo è? Tutto si riduce ai comportamenti dei portavoce e dei personaggi-simbolo (sempre all'interno del circo mediatico) delle varie posizioni? Dobbiamo rassegnarci all'idea per cui ai figli l'unico valore da insegnargli sia che ognuno fa bene a fare indifferentemente quello che gli pare, basta che paghi le tasse e faccia (vuoi come "regolare" vuoi come "trasgressivo") comunque bella figura in società (che è poi la forma di spettacolo accessibile ai più)? Per assicurarci di non lasciar spazio ad inaccettabili soprusi ed oppressioni fasciste contro le minoranze dobbiamo necessariamente negare che siano minoranze perché dobbiamo con ciò negare che esistano costanti che ritornano e danno forma alle cose in Natura? Ma davvero crediamo ci sia solo una forma e a senso unico di ipocrisia? Sul giornale La Stampa del 30/1/2016 (http://www.lastampa.it/2016/01/30/italia/cronache/quei-gay-in-piazza-al-family-day-se-ci-scoprono-siamo-fregati-HuH8ucIngafJGPLvolF1CM/pagina.html) un articolo parlava di messaggi intercettati di gay in incognito tra i partecipanti al Family Day che si davano appuntamenti ma non volevano farsi scoprire e che erano evidentemente lì solo per convenienza. Benissimo (a parte che, volendo, sarebbe stato facilissimo "montare" tutta la cosa da parte del giornalista insieme ad un amico o due), ma vogliamo escludere che ci siano molti altri a sinistra che in cuor loro vedono l'omosesualità come contro-Natura, ma che evitano di dirlo e magari ostentano persino opinioni contrarie a ciò che pensano per evitare la pessima figura che ci farebbero? Ormai, con il volume di fuoco impiegato dalla maggior parte dei media e di molti tra chi ci lavora - in linea con quella che, senza troppa esagerazione, è stata definita come la propaganda della lobby omosessualista - lo stigma sociale è passato dall'omosessuale a chi è critico verso l'omosessualità. Non dico che gli atteggiamenti violenti o discriminanti di cui sono stati a lungo vittima i gay fossero giusti, assolutamente no, ma possibile nessuno sia insospettito dal modo così rapido ed estremo in cui le cose si sono (o sono state) ribaltate? E dalla parte centrale che hanno i media in tutto ciò? Prima ad essere omosessuali bisognava vergognarsi, ora bisogna vergognarsi se si pensa che l'omosessualità non sia la forma naturale della sessualità umana. Possibile che si faccia così presto a dimenticare che dietro i media c'è sempre lo stesso potere che ci sta quando approvano e giustificano guerre, sfruttamento, speculazioni, disastri ambientali e "cortine fumogene" di chiacchiere giustificatorie da parte dei politicanti? Una settimana prima del Family Day si sono svolte (preventivamente) le manifestazioni di appoggio al ddl Cirinnà, distribuite su varie città e si è scritto che in totale vi avesse partecipato un milione di persone; difficile calcolo da fare, già su una piazza sola, ed ancor di più dovendo sommare la gente presente su parecchie piazze, grandi, piccole ecc.... Forse anche per questo si sarà scelto di presentarsi su varie piazze? per non rischiare di contarsi in un luogo unico? No, si dirà: è stato per dare un'idea di diversità, di molteplicità, di "arcobaleno"..... Vabbé, lasciamo perdere; comunque è un fatto consueto che i numeri delle manifestazioni vengano sempre gonfiati dagli organizzatori: quelli del Family Day hanno parlato addirittura di due milioni (!!). Avranno sicuramente esagerato, come si fa sempre, del resto. Molto meno comune, però, anzi, la prima volta che lo vedo, francamente, è che su un giornale (ancora La Stampa, in questo caso: http://www.lastampa.it/2016/01/30/italia/cronache/il-family-day-e-la-bufala-dei-due-milioni-J9ILXInTkGDgvqypu6cmiJ/pagina.html) sia stato fatto un conto, dettagliato ed argomentato anche con immagini sia a livello strada che aeree, per dimostrare come sia impossibile che nello spazio occupato dalla manifestazione ci potessero essere davvero due milioni di persone. Sembra che, non potendo negare che davvero tanta gente si è mossa da tutta Italia per mostrare che chi è contrario a questa legge non è poi una così piccola minoranza, ci si sentisse in dovere di dimostrare che non erano poi così tanti e che hanno esagerato i numeri. Ripeto: esagerare questi numeri è ciò che sempre avviene, pubblicare un intero articolo con conti dettagliati per dimostrarne l'esagerazione è successo solo (o quasi) in questo caso. Piaccia o non piaccia, però, il Family Day ha dimostrato che in questo Paese c'è ancora un sacco di gente che non accetta l'idea per cui eterosessualità o omosessualità sarebbero solo scelte e gusti personali, condizionamenti culturali.....e nulla che abbia a che fare con fatti e leggi di Natura, con una polarità energetica femmina-maschio (Yin-Yang) che regola moltissimi fenomeni naturali già molto prima di quelli umani, con qualcosa che preesiste di molto a noi e non è toccata dalle nostre opinioni in merito o dalle mode culturali. L'omosessualità esiste e le persone che la vivono come la propria condizione vanno rispettate. Ma si tratta di una piccola minoranza: non della "normalità" che vogliono farci credere. Quante persone omosessuali conoscete e quanti sono in percentuale su tutte le vostre conoscenze? Vogliamo dire che molti lo sono e non lo dicono (ancora oggi che va così di moda)? Allora diciamo che siano il doppio. E, pure così, quanti sono in percentuale? Forse tutti ci troviamo a pensare che "sarò io che ne conosco pochi, forse vivo in un ambiente sociale ancora un po' antiquato, ma a quanto si dice pare ce ne siano moltissimi". E quindi sarebbe una cosa normale. Normale perché diffusissima. E quindi naturale, sana per lo stesso motivo (lo stesso motivo per cui un transessuale può affermare di essere orgoglioso di fare la prostituta, perché in televisione fa spettacolo e pertanto è diventato ormai un atteggiamento sensato: su quale base? appunto su quella dello spettacolo). Tanto sana che si può accettare tranquillamente che di qui a una generazione i bambini crescano pensando che si possa altrettanto essere figli di un uomo e di una donna come di due uomini o due donne. Ma una cosa non è più giusta o più vera perché la credono molte o moltissime persone: altrimenti Al-Baghdadi sarebbe davvero un'autorità spirituale dalle sue parti o Hitler avrebbe davvero rappresentato e difeso lo spirito non solo tedesco, ma di tutti i popoli che si riconoscevano nella "razza ariana", e cosa dovremmo dire di quei Paesi dove la maggioranza della popolazione è d'accordo che l'omosessualità sia addirittura fuorilegge? ecc... ecc... Per rispettare chi è portatore di una anomalia del comportamento sessuale non c'è bisogno di negare che si tratti di un'anomalia, nel senso di una deviazione dal comportamento che secondo Natura è "normale" ovvero derivante da un istinto primario: basta rispettarlo, cioè riconoscergli il diritto e la libertà di vivere come vuole....naturalmente pure rispettando gli altri ed il loro modo di percepire questa anomalia come tale. Sarebbe semplice, volendo. Ma quando ci si mette di mezzo un'ondata ideologica e vi si sovrappongono speculazioni politiche (certo non solo da parte degli ipocriti che strumentalizzano la buona fede dei partecipanti al Family Day, ma sicuramente anche e non di meno dalla parte opposta) le cose diventano sempre molto più complicate. E il dato di fatto qui è che (a mio giudizio per fortuna) l'idea per cui questa (pur legittima) anomalia debba essere considerata come assolutamente naturale e normale ancora non va giù ad un sacco di gente nel nostro Paese. Si tratta di un'idea molto pericolosa, non tanto per la questione in sé, che fa da cavallo di Troia, ma per quella, molto più grossa, che le sta dietro e che avanza a grandi passi senza essere percepita nella sua interezza. La questione vera è l'affermazione definitiva che non ci sia nulla che possa esser detto NATURALE e distinto da ciò che non lo è; che non esista proprio qualcosa come LA NATURA e con ciò che non esista nulla che sia a fondamento della nostra vita, proprio a partire (non da un qualche Dio-creatore, ma) dal suo stesso modo di funzionare con i limiti che naturalmente ci pone; che non esistano quindi limiti naturali a ciò che possiamo fare ed ai quali non possiamo sfuggire, e che perciò non c'è nulla, che ci preesista come umani in questo mondo, che dobbiamo rispettare e di fronte a cui ci dobbiamo fermare. Questa questione di fondo non riguarda certo solo con chi andiamo a letto e cosa ci facciamo insieme (il che, per quanto faccia molta audience come argomento, è del tutto irrilevante dal punto di vista del discorso che sto crecando di fare). Una volta passata definitivamente questa idea sarà aperta la strada per ogni tipo di esperimento speculativo sulla vita (e certamente a fini di profitto e di potere), dall'ingegneria transgenica agli interventi artificiali sul clima, ad ogni sorta di armamenti ipertecnologici, alla creazione/coltivazione di esseri parzialmente umani e parzialmente non ecc... ecc.... e non resterà più spazio per chi vorrà difendere qualsiasi nozione di limite e di Natura come insieme più grande di noi, in tutti i sensi di cui siamo parte. Questa è la vera questione. Non è probabilmente in questi termini la vera questione che hanno a cuore molti dei politici che difendono il Family Day, che ci si può aspettare sarebbero prontissimi ad oltrepassare ed ignorare questa nozione del limite non appena si passasse a discutere di altri campi, soprattutto economici, ma resta il fatto che dietro le cosiddette unioni civili, matrimoni gay ecc... è questo il mutamento antropologico che si sta, più o meno consapevolmente, facendo passare. E, scendendo alla bassa politica, lo si fa passare con i soliti metodi affaristici che regolano la vita parlamentare. Nessuno ha notato, ad esempio, che proprio alla vigilia della discussione sul ddl in questione, c'è stato un "rimpastino" di governo che ha dato nuove poltrone (tra cui uno specchietto per allodole detto "Ministero della Famiglia") al NCD di Alfano? Proprio quell'Alfano che ha detto di condividere pienamente gli obiettivi del Family Day, "leader" di un partito di cui si dice - senza troppo esagerare - che abbia più ministri che voti, e che, possiamo star certi, non arriverà ad una crisi di governo per opporsi alle unioni civili, ovvero alla fine le farà passare. Se una cosa del genere la avesse fatta Berlusconi sarebbe venuto giù il cielo: ora passa quasi sotto silenzio (certo, è a fin di bene, secondo i nostri "progressisti"). In questa vicenda traspare l'eredità storico-culturale del berlusconismo, proprio nel mutamento dall'assunzione di un ruolo di rottura, alternativo, da parte della comunità gay, al modello che si impone oggi, cioè la pseudo-normalità mediatica del family-gay. Il gay che non se la sente più di assumersi la responsabilità di dire le cose come stanno e pretende che siano gli altri ad accettare che stiano come è più comodo vederle a lui/lei, ribaltando la realtà pur di fargli la vita più facile e permettergli anche ciò che, pur in una società pluralista e tollerante, la Natura non gli permetterebbe (e qui sto parlando dei figli, dato che il matrimonio in sé, con la Natura, non ha niente ha che fare). L'eredità mediatica dello spettacolo berlusconiano, a cui oggi attinge a mani basse la sedicente sinistra progressista laica ed emancipata dalla fase delle ideologie, porta a liberare la trasgressione rendendola normale, ovvero a stravolgere il significato di "normale" estirpandone le radici dalla tradizione culturale popolare legata a quanto di naturale tutti umanamente condividiamo, e collegandolo a quanto è "normalmente" presente su ciò che mediaticamente condividiamo, ovvero a ciò a cui ci è diventato consueto assistere (nostro malgrado, forse, inizialmente) sul mezzo intorno al quale "ci ritroviamo" come passivi spettatori degli spettacoli di intrattenimento ed "approfondimento"(?) sul piccolo schermo. Sullo schermo televisivo, che ha sostituito il focolare davanti al quale l'esperienza dei nonni si trasmettava attraverso racconti e commenti ai nipoti, mentre saliva costantemente il tasso di cattivo gusto, abbiamo visto cadere di giorno in giorno il senso dell'etica fino a farla diventare un ridicolo simulacro di cose superate, scomparse e date oggi perciò tanto impossibili da non poter esser sostenute altro che in modo ipocrita, perché nessuno: sia ben chiaro, nessuno - se non, forse, qualche ridicolo San Giovanni Battista che grida nel deserto, decisamente anti-spettacolare - le segue per davvero. Largo dunque a manifestazioni come il "Gay Pride" (cosa c'è di più spettacolare?) in cui il motivo d'orgoglio io di nuovo proprio non lo capirei se non per le ragioni dette fin qui, ma nel quale ancora sopravvive, forse, un po' del senso originario dell'orgoglio gay. Probabilmente ancora per poco nella sua autenticità: tra poco diventerà un altro circo iconografico, tipo i concerti dei grandi gruppi rock degli anni '70 che ancora suonano ora che di 70 anni ne hanno di età, o la marcia della pace Perugia-Assisi o altre cose simili che servono a far dire "io c'ero" a chi ha ancora il mito di queste cose ed ai ragazzini che son nati troppo tardi per vederle nella loro fase in cui avevano davvero qualcosa da dire. Questo orgoglio non credo fosse tanto quello di dire che essere gay è una cosa normale, bensì il coraggio di affermare di essere come si è e di voler essere accettati e rispettati, ma soprattutto lasciati vivere, per come si è. Come che sia, che piaccia o no agli altri. E spesso nei gay che avevano questo spirito non c'era interesse ad essere o essere considerati normali: c'era la piena rivendicazione del fatto che anche una anomalia ha tutto il suo diritto ad esistere e vivere come vuole. Questo è un principio di pluralismo, di alternativa, e può anche esserne uno di orgoglio nell'autonomia ed indipendenza mentale di rivendicare apertamente il proprio modo di essere. Su questa base il gay come soggetto portatore di una diversità era portatore di un arricchimento sociale: di un passo avanti verso l'accettazione della biodiversità sociale, ovvero nel superamento di quella vocazione tipicamente occidentale all'universalismo per cui dobbiamo sempre trovare e poi imporre un modello unico da imporre come normale e come unico al resto del mondo. Oggi questo si presenta nella sua forma più sottile e dissimulata, il Laicismo, mascherato dietro l'apparente assenza di una forma codificante, ma che va occupando intanto tutto lo spazio mentale e culturale negando l'essere-forma ad ogni altra cosa, l'essere-forma insito in ogni essere umano, in ogni essere vivente, trattando tutto e tutti come principi ed entità astratte, concettuali, interscambiabili ed in-differenziati. Allora tutto diventa normale proprio perché non c'è più alcuna base per dire perché qualcosa lo è o meno: le identità sono creazioni culturali strumentali, le leggi di Natura non esistono, anzi, non esiste neppure la Natura, tutto è produzione della cultura umana ed oggi questa è inseparabilmente mediata dalla tecnologia: il cammino dello sviluppo della tecnologia è la strada maestra dell'essere umano, è portata avanti dallo sviluppo del sistema che conosciamo e che organizza il mondo, il Capitalismo avanzato, liberista, finanziario: nulla gli si deve opporre, nulla realisticamente può farlo: siamo tutti comparse nella rappresentazione del Suo spettacolo. Nessuno può essere, alcun-che. Ma tutta questa è una falsa e strumentale narrazione che si spaccia come liberatoria mentre ci sta ogni giorno di più incatenando ed obbligando a distruggere la vera base della nostra (possibilità di) esistenza, che può darsi solo sulla base della Natura. Per tornare al sesso, basterebbe ricordare, di nuovo, che il sesso come realtà naturale, ovvero la differenziazione sessuale - e non solo tra gli umani, ma nella Natura tutta - esiste perché esistono il maschio e la femmina: dire sesso significa dire maschio e femmina: non si dà sesso, né francamente mi pare possibile immaginarlo, se non come maschio e femmina. Se non ci fosse l'interrelazione maschio-femmina non ci sarebbe interrelazione sessuale, non ci sarebbe sesso; così come non ha senso - è fuori dalla realtà - pensare l'uomo come soggetto a sé, totalmente indipendente dalla donna, e viceversa. La specie umana - e qualsiasi specie sessuata - funziona così: è un dato di fatto, non un'opinione. E per riconoscere ciò non c'è bisogno di vedere il sesso solo nel suo aspetto della funzione riproduttiva: tra gli umani il sesso non è certo solo questo, ha una (quasi) altrettanto importante funzione di comunicazione ed equilibrio energetico, ma anche da questo punto di vista la polarità psico-energetica fondamentale maschio-femmina non è meno basilare o meno connaturata alla dimensione sessuale, anche perché non è scindibile dalla forma fisica che ne è il presupposto. L'omosessualità pertanto esiste, ma non può esistere che come una anomalia. Legittima e da rispettare nelle persone che la vivono, ma una anomalia. È la nostra cultura occidentale che, non potendo tollerare la legittimità delle anomalie in quanto tali, non vede alternative tra il perseguitarle come inaccettabili ed il ribaltare l'evidenza della realtà al fine di integrarle nel proprio sistema. In Natura, invece, c'è spazio per tutto: per il naturale (che è la pulsione primaria) e per l'anomalia (che è una soluzione secondaria), ma non vanno confuse, perché non sono equivalenti in Natura e farlo porta a conseguenze molto gravi: in prospettiva molto peggiori che alcune piccole e marginali innovazioni sociali come ammettere il matrimonio gay ed altre del genere. Come dicevo all'inizio, c'è senz'altro una parziale ragion d'essere in alcuni dei contenuti della proposta di legge sulle unioni civili, non è possibile trattare per legge, ad esempio, due persone dello stesso sesso che hanno passato ed organizzato una vita insieme e che si amano, come dei reciproci estranei. Ma se si accettasse da entrambe le parti di riconoscere che esiste, prima e a monte di noi, un ordine nel mondo - un ordine che è dato dalla Natura e che comunque va al di là di noi e delle nostre opinioni - probabilmente sarebbe molto più facile per tutti anche accettare che al suo interno si possa e si debba trovare spazio per i diritti e la diversità di ognuno.