mercoledì 13 dicembre 2017

AL DI LÀ DEL LOGOS



BRANO TRATTO DAL LIBRO "L'ALTERNATIVA NEO-CONTADINA"

Ciò che possiamo chiamare un senso, nella vita - che è molto diverso da uno scopo - è possibile trovarlo cercandolo? O è una cosa che, se c'è, c'è a priori di ogni considerazione, come il vivere stesso? Qui sta tutta la differenza se la vita sia vissuta come qualcosa di in sé completo o come una sorta di bene strumentale da spendere per ottenere alcuni obiettivi "superiori" (che sono poi alcuni elementi o aspetti particolari tra quelli che nella vita si posson trovare).
    La nostra condizione, umana, ma come quella di ogni essere vivente, è caratterizzata di fondo dall'incertezza di sopravvivere ogni giorno, di riuscire ad ottenere ciò che ci serve e mantenere ciò che abbiamo, di non essere sopraffatti da ciò che ci è (o percepiamo come) dannoso. Nella certezza alla fine, comunque, di essere mortali: tutto ciò che siamo e che abbiamo passerà e sta già passando ora e così la nostra stessa vita. L'essere e il non-essere sono presenti costantemente insieme in essa, sia come fatto che come potenzialità.
    Non solo, ma anche l'essere cosa, l'essere come, sempre sono e non sono al tempo stesso, perché essi dipendono dalla relativa efficacia del quadro che riusciamo a farci di ciò che percepiamo, dei nomi che diamo alle cose, del nostro massimo strumento adattivo per sopravvivere nel mondo: il linguaggio. Davanti all'eventualità, al pericolo costantemente presente della morte, dell'incertezza, del non-essere, davanti alla paura fondamentale, noi umani, prima ancora che con tutte le nostre protesi tecnologiche, abbiamo risposto evolutivamente con la capacità di crearci un ordine nel mondo: un quadro mentale che ce ne fornisca delle coordinate da cui traiamo i modi per muovervisi dentro, per crearci il nostro spazio e dominarlo. Ma è in primo luogo nella nostra mente che tutto ciò si costruisce. Questa creazione di ordine avviene attraverso la conoscenza e prende forma nella cultura. Entrambe queste cose non sono semplicemente delle attività creative né la gratuita ricerca della verità, bensì hanno uno scopo strumentale finalizzato alla creazione di una dimensione di realtà nella quale sopravvivere e migliorare via via la propria condizione rendendola più vivibile.

    L’essere umano, dotandosi di un'immagine - nel linguaggio e nella cultura - del mondo in cui vive/crede di vivere e del suo ordine, riesce, in modo unico tra tutti gli animali, a ri-crearlo virtualmente, a modificarlo secondo coordinate proprie e così renderlo tale da potervisi adattare. In primo luogo nella propria mente e solo successivamente trasformandolo di fatto a sua misura attraverso la tecnologia. Questa capacità tutta umana, pur avvalendosi di alcuni dati reali, fattuali, che vengono direttamente dall’esperienza, è in larga misura – soprattutto per quanto riguarda il costruire un “ordine” a partire da questi dati - una capacità di illusione, molto più che di conoscenza. E tanto più perché tale illusione diviene per gli umani equivalente, e perfino più vera della realtà.
    L’elemento nuovo e peculiare che l’essere umano ha portato nel percorso evolutivo della Natura non è – come il nome “homo sapiens” vorrebbe indicare – la capacità di conoscenza (che, seppure in modo molto più rudimentale, non è assente nel modo in cui molti animali interagiscono col loro ambiente), bensì la facoltà di un’illusione sistemica. Non una allucinazione o un'illusione ottica circoscritta e occasionale - di quelle che capitano anche agli animali - ma la creazione di immagini concettuali del mondo e di sé stesso, organiche, complete e coerenti al punto che è il mondo stesso a sembrargli fatto ad immagine dell'ordine che egli vi ravvisa e vi sovrappone. L'essere umano, attraverso il linguaggio ed il pensiero concettuale quali strumenti di adattamento all'ambiente, ha ottenuto un successo evolutivo senza eguali rispetto a tutte le altre specie viventi (al punto che riesce ad adattare l'ambiente alle proprie esigenze piuttosto che l'inverso).(1- vedi nota a pié di pagina)

    La funzione fondamentale della conoscenza, dunque, non è in primo luogo quella di conoscere, ma di creare un ordine per (r)assicurarci di poterci muovere nel mondo (sebbene mortali) in relativa sicurezza e per metterci in condizione di ottenere ciò che ci serve. A partire da questo punto, però, le diverse culture e tradizioni filosofiche, le diverse civiltà, hanno preso strade divergenti relativamente a quali siano l'oggetto ed i metodi della conoscenza e di conseguenza anche rispetto a cosa sia ciò che ci serve.
     La prospettiva dell'Occidente - segnatamente nella sua fase moderna e scientifica - è quella di cercare di costruire l'ordine nel mondo nel modo più solido e sicuro possibile e quindi di trovare anche (nel campo della conoscenza) le basi teoriche che rendano più certo questo ordine. Non a caso il criterio per scegliere quali ipotesi di ricerca vadano seguite, nei casi delle crisi di paradigma [di cui parla lo storico della scienza Thomas Kuhn, le cui tesi vengono discusse precedentemente nel libro] è sempre quello dell'efficacia esplicativa che promettono e quindi della loro capacità di superare, in modo ampio, chiaro, certo e relativamente semplice, l'intervenuta mancanza di un ordine. Quando una teoria scientifica è definita "elegante", ciò è dovuto alla sua capacità di fornire una spiegazione unificante per un'ampia gamma di fenomeni diversi attraverso una formulazione essenziale, (relativamente) semplice e chiara. Una tale teoria è più "maneggevole" (se così si può dire), più atta a svolgere la sua funzione strumentale: riesce molto meglio di altre a darci, con immediatezza e con il minimo sforzo (e perciò offrendoci un maggior senso di affidabilità), quegli elementi di sicurezza, di certezza dell'ordine ritrovato che cerchiamo (noi, gente comune, ma in fondo anche gli scienziati) nella conoscenza (in questo caso in quella scientifica).
    La garanzia di un ordine sul piano della conoscenza è presupposto per costruirne uno su quello della pratica (tecnologica, militare, politica, economica...) nelle condizioni più solide ed inattaccabili.

    Di fronte al problema di fondo della nostra basilare incertezza e impermanenza e del nostro essere e non-essere al tempo stesso, le culture tradizionali (e quelle orientali forse nel modo più evoluto) hanno invece seguito la via di superare la paura non attraverso queste protesi "esterne"(2) ma con la coltivazione interna di uno stato al di là della paura del non-essere, senza tendere alla rimozione della sua costante possibilità. Cercando, in un certo senso, non la libertà dal dolore, bensì la libertà nel dolore. Nell'accettazione, come dato di fatto, della precarietà fondamentale che caratterizza la nostra esistenza e della natura transeunte del nostro essere, nell'accettazione di essere e non-essere al tempo stesso, del vivere la dimensione dell'impermanenza e dell'incertezza nel continuo divenire. Parallelamente hanno creato contesti socioculturali relativamente rassicuranti, al cui interno fosse possibile coltivare questa capacità, quanto possono esserlo quelli dominati dalla tradizione e dalla religione, con il loro ripetersi circolare di forme tendenzialmente sempre uguali a sé stesse del vivere sociale.(3)
    Due modi molto diversi del cercar di risolvere o di rapportarsi con la paura di fondo e la ricerca di un suo superamento. In un caso creando un ordine esterno più o meno illusorio o artificiale, nell'altro trovandole uno spazio ed integrandola al proprio interno. Ciò ha implicato, d'altra parte, un quadro complessivo del mondo altrettanto integrato, in cui tutto ciò che esiste, compresi gli esseri umani, ha un suo posto ed una sua ragion d'essere, ma che proprio per questo lasciava scarso spazio alla possibilità di qualsiasi mutamento evolutivo che si desse su un piano sociale o non puramente spirituale. Non a caso le istanze di cambiamento sociale e politico, nei contesti tradizionali (come pure nel Medioevo europeo), si presentano spesso sottoforma di movimenti di riforma religiosa.
    Questa differenza tra le due risposte ha fatto sì che da quando la Storia, guidata ed imposta dall'Occidente, ha fatto la sua violenta irruzione nel mondo delle altre culture ed ha innescato i cambiamenti che porta con sé, le tradizioni fanno molta fatica a resistere. Ma anche che, nell'Occidente in crisi esistenziale, sempre più persone si sono rivolte e si rivolgono a linee di pensiero orientali, fino ad averne incorporate alcune componenti a livello popolare (spesso anche - penso ai vari filoni della New Age - in modo un po' banalizzato o raffazzonato). Secondo lo storico inglese A.J.Toynbee, gli storici del futuro vedranno l'inizio della diffusione del Buddhismo in Occidente come l'evento più importante del XX secolo.

    Alle tradizioni dell'Oriente manca in misura importante il percorso secolare, incentrato sulla dialettica sociale, democratico, proprio della cultura della civitas. Ma l'Occidente postmoderno, con l'assenza di punti di riferimento, il relativismo generalizzato, il rifiuto di ogni verità metaculturale e la sostanziale rinuncia a cercare risposte ultime attraverso la riflessione filosofica (affidandosi per questo alla ricerca scientifica) sta forse arrivando al suo punto limite. Per la via peculiarmente politico-ideologica che lo distingue, potrebbe esser vicino a percepire finalmente (sebbene anche da noi alcuni l'avessero già teorizzata in precedenza) la natura vuota di tutto ciò che esiste. Resta da vedere se, nel quadro [e nei limiti] della weltanschauung occidentale, una tale comprensione si traduca in un passo avanti o in uno indietro.

    Nei testi buddhisti si parla spesso del Vuoto o della "Vacuità" (Sunyata). Si argomenta che qualsiasi discorso che faccia riferimento ad una qualche entità o sostanza o natura inerente come realtà o identità permanente di qualsiasi cosa è fondamentalmente illusorio, non avendo alcuna cosa una esistenza intrinseca, se non limitatamente ad un breve periodo e come forma aggregata di elementi, cause e condizioni che stanno insieme solo in modo temporaneo.(4) Pertanto di ogni "cosa", di ogni "essere", non si può veramente dire che è, ma più precisamente che avviene, perché nulla esiste se non come aspetto temporaneo del flusso infinito del divenire, avendo in sé una natura vuota. Ma in che senso vuota se però noi, almeno per il tempo della nostra vita, siamo? se possiamo toccare gli oggetti e ritrovarli nello stesso posto dopo averveli lasciati?
Io credo si debba intendere come vuota di definibilità.(5)
     Quando noi definiamo una cosa, con una parola o un concetto, quando le diamo un nome, la circoscriviamo isolandola da tutto il resto: stabiliamo ciò che è, e di conseguenza ciò che non è (principio di identità e di non-contraddizione); la ri-creiamo come cosa in sé e come cosa a sé. Nasce il mondo dell'essere o non-essere. Questo implica una visione della realtà che esige una fissità delle cose (sia sul piano ontologico che su quello temporale) ed una separazione delle cose tra loro ed in primo luogo dall'osservatore. Questa visione "fissa" della realtà non esclude una nozione del divenire, ma lo vede essenzialmente come il passaggio da questo a quest'altro stato e non nella sua natura di movimento. Dal punto di vista dell'osservatore (ogni punto di vista ne presuppone uno, quindi, sempre), definendo tutte le cose (materiali e immateriali) tutte le separiamo da noi e separiamo noi stessi, in quanto osservatore, da esse. D'altra parte rimane l'impossibilità, per questa via propria del linguaggio, di sapere chi siamo noi stessi, dato che qualsiasi parola possiamo usare per dire ciò che pensiamo di essere (il corpo, il pensiero, il cuore, il cervello, il nome, i sentimenti, le percezioni, i ricordi, la memoria.....l'insieme di tutti questi) si dimostra facilmente come può indicarne un aspetto (o più aspetti), ma non è certamente l'essenza di ciò di cui possiamo dire "io sono". Oltre a ciò, lo stesso percorso sia della fisica delle particelle che delle scienze sociali ci porta a non poter più sostenere una vera separazione sostanziale di ogni cosa da ogni altra, né a poter più credere ad identità e verità immutabili nel campo socioculturale.

     Ed a questo punto la tradizione filosofica del pensiero occidentale si arresta (o piuttosto comincia a girare in tondo) lungo il limite dei suoi confini che sono quelli del Logos. E vede le culture tradizionali, e forse in particolar modo l'Oriente (e segnatamente la filosofia buddhista), proseguire sulla loro strada al di là delle parole.
    Nella pratica buddhista della meditazione, grazie ad una posizione che ci consente di rimanere immobili abbastanza a lungo, possiamo rivolgere l'attenzione al nostro interno, mente-corpo, e vedere direttamente come non ci sia mai nulla che sia fisso né alcun momento di stasi totale. E lo stesso vale per quanto succede all'esterno, se ci pensiamo, ma anche solo se rivolgiamo l'attenzione, ad esempio, ai suoni. Senza codificarla su una mappa concettualmente precisa o fatta di parole, avanziamo nella conoscenza/consapevolezza/esperienza diretta del nostro essere l'osservatore e dello svolgersi del divenire, mentre i confini tra le due cose perdono gradualmente di realtà.

     Anche il Buddha, essendo un uomo che parla ad altri esseri umani, deve usare le parole per comunicare, ma il suo insegnamento, ciò a cui vuole mostrare l'accesso, la luna che il suo dito indica, è fin dall'inizio al di là delle parole. La via di conoscenza e di liberazione (ma sarebbe meglio dire di realizzazione) insegnata dal Buddha non è quella del Logos, non si limita ad essere una via logica. È bensì una via eminentemente pratica: quella della meditazione e della vita quotidiana. Il filosofo buddhista indiano Nagarjuna (II secolo d.C.) nelle Madhyamaka Karika dice:
 “senza unità, senza diversità, senza annientamento, senza eternità: tale l’ambrosia della dottrina degli Svegliati, protettori del mondo”. (...)
 “Pacificazione di tutte le percezioni, pacificazione dello spiegamento discorsivo, benigna. Mai dove che sia nessuna legge è stata insegnata dallo Svegliato [dal Buddha]”.
     Eppure sappiamo che il Buddha ha passato decenni dando il suo insegnamento a tante genti diverse, e così ha fatto lo stesso Nagarjuna e moltissimi altri maestri. Nei quesiti Zen chiamati koan si percorre tutta l'estensione dei propri possibili ragionamenti per trovare una risposta che non è in realtà alla portata puramente del pensiero. Ma è attraverso l'esperienza sofferta dei limiti dell'intelletto, della sua inadeguatezza a trovarla, insieme alla dimensione fisica, corporea, della meditazione (6) ed alla spinta ad andare oltre, pur non sapendo né dove né come - che all'estremo diventa puro istinto di sopravvivenza - che la risposta arriva. È cruciale l'esperienza della condizione di stallo, della fine delle proprie risorse intellettuali, dell'insufficienza della conoscenza, per cui, oltre i margini dell'oceano di parole, si accede ad un altro modo di essere nella realtà.

     Non capire, ma riconoscere e rispettare, in una pratica che comprende l'osservazione attenta, può essere un modo di arrivare a capire al di là delle parole, senza restringere la conoscenza allo scopo di appropriarsi dei suoi oggetti. Si tratta di osservare/praticare la realtà gratuitamente,(7) senza focalizzare la propria visione degli oggetti di conoscenza nei limiti della prospettiva che guarda al proprio scopo - quale che sia - come punto di fuga.
     C’è in questo un apprendimento, una formazione ed una conoscenza che passano attraverso il corpo, attraverso l’azione ed il silenzio, vivono nell’esperienza e non sono comunicabili in modo astratto o solo verbale. Per questo, nel trionfo dell’homo nominans che è stata la Modernità [homo nominans: l'essere umano come soggetto il cui muoversi ed agire nel mondo avviene attraverso il definire ed assegnare nomi a le cose - se ne parla precedentemente nel libro], questo approccio conoscitivo non riconosciuto è stato pressoché spazzato via dagli orizzonti della conoscenza "rispettabile".
 Ma attenzione: non è ignoranza, è il contrario: è la conoscenza che oggi ci manca e di cui abbiamo bisogno per trarne la materia con cui costruirci nuove strade che ci portino fuori dalla situazione attuale di stallo.
    La weltanshauung, il pensiero forte che ci serve oggi, non è una filosofia soltanto teorica: è una consapevolezza fondata e fondante, ma che deve poter vivere nel presente delle situazioni concrete della nostra condizione e crescere nell’esperienza. Deve essere ciò che informa un modo di vivere, non solo e non tanto un modo di pensare. [.....]
    È un altro modo di vivere che ci serve. Ed una visione che lo fondi e che ci dia la convinzione e la chiarezza necessarie per affrontare le difficoltà che comporta il realizzarlo.

    Il fermarsi davanti a ciò che percepiscono come "sacro", delle culture tradizionali, il loro fondante riconoscimento che esiste il non-conoscibile, il non-manipolabile, il non-controllabile, il qualitativamente più grande di noi (senza ora entrare nel merito di cosa/dove/come questo sia) ci insegna che si può vivere e costruire una società ed una cultura, ed arte e musica e filosofia e vite individuali e sociali degne di essere vissute senza necessariamente dover andare sempre più avanti ed abbattere ogni limite, senza separarci, alienarci radicalmente dalla Natura e dall’Universo di cui siamo comunque inevitabilmente parte (anche se non capiamo come). La nozione del limite, anche nel campo del conoscibile, ed un diverso tipo di conoscenza extra-linguaggio attraverso l'esperienza e la dimensione del praticare, possono essere la nostra base per aprirci una strada che possa dirsi effettivamente altra dal percorso che ci ha portato alla situazione di crisi e di stallo in cui ci troviamo e da cui non pare questo stesso tipo di percorso sappia darci vie d'uscita.
    Attenzione però: accettare il limite non significa scegliere l'ideologia del limite, farne un comandamento ed iniziare a teorizzare su di esso: significa fermarsi e lasciar vuoto (di definibilità, di discorso, di logos) ciò che sta al di là di esso.

    Riconoscere il principio del limite, piuttosto, significa comprendere un fatto che credo sia massimamente importante e che costituirebbe un profondo cambiamento di prospettiva da molteplici punti di vista se da parte di tante persone si partisse da esso nel considerare le cose grandi e piccole della vita. Ovvero che, diversamente da come molti di noi sono abituati a vederlo, il mondo non si regge sul giusto e lo sbagliato, sul buono e il cattivo o sul bene e il male ecc.... Purtroppo, dal momento che noi, qui in Occidente soprattutto, siamo abituati a ragionare secondo queste categorie, una volta riconosciutele inadeguate a descrivere la realtà, non abbiamo saputo trarne altro che l’assolutismo relativista: l’idea per cui non ci sarebbe alcun fondamento al mondo, nessun metro per distinguere ciò che è da favorire o viceversa da contrastare come principio generale (e di conseguenza anche nelle situazioni specifiche).
    Il mondo, la Natura, si regge invece su qualcosa, che però non si adatta ad una tale visione per opposti: si regge sulla misura. Ciò che è veleno in una data quantità è medicina in un’altra; il fuoco che nella stufa ci scalda d’inverno e così ci salva la vita, può bruciare un’intera provincia uccidendo centinaia di esseri umani; la passione verso un’altra persona può dar luogo ad un grande amore, ma anche ad un omicidio. La differenza (in-)sostanziale che c’è tra le cose del mondo è una differenza di misura: non di quantità, ma di misura, che è una quantità non indipendente, assoluta, teorica, bensì contestuale. Diversa di volta in volta. L’universo è un gioco di proporzioni e di equilibri in costante movimento a differenti velocità. Ma, se la misura giusta di ogni cosa è relativa al momento ed alla situazione, non così si può dire del principio in sé per cui esiste, diversa di caso in caso ma sempre, la misura giusta ed una giusta capacità di capirla, di sentirla o di apprezzarla. Il livello più alto della saggezza nel rapporto col mondo, cioè con i fatti della vita, è probabilmente proprio il senso della misura: saper cogliere di volta in volta, di momento in momento, il punto equilibrato dei vari elementi (materiali e immateriali) componenti ogni singola situazione che si presenta, che va vista non come la loro sommatoria, ma come sistema.(8)

BRANO TRATTO DAL LIBRO
"L'ALTERNATIVA NEO-CONTADINA"
di Sergio Cabras,
edito con YouCanPrint (versione cartacea) e Streetlib (versione ebook)

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NOTE
1 -  Il tipo di progresso che conosciamo oggi, però, così sbilanciato sul versante materiale-tecnologico, rischia di far del tutto scomparire la consapevolezza di questa forma di adattamento attraverso la cultura come fondamentalmente strumentale ed illusoria e si finisce pertanto per credere fino in fondo all’autentica realtà della visione del mondo che ci siamo creati perdendo contatto ed armonia con la natura delle cose, con la realtà vera che è al di là di noi ed all’interno della quale viviamo, che comprende la facoltà stessa di crearcene un'immagine. Il ritrovarsi immersi oggi in un mondo che sempre più è fatto di realtà virtuale è il punto estremo a cui siamo giunti, se non l'epilogo, di questa facoltà. Nondimeno, la differenza rispetto al passato, amplificata in modo impressionante dalla tecnologia, è in ultima analisi una questione quantitativa mentre, in principio, gli esseri umani hanno sempre creato nella propria mente realtà virtuali (attraverso la cultura) e sono state sempre soprattutto queste quelle in cui hanno vissuto/creduto di vivere.

2 -  Le virgolette sono dovute al fatto che, sebbene l'ordine mentale che ci facciamo del mondo abbia conseguenze tecniche e tecnologiche che a buon diritto si possono dire esterne in quanto oggetti materiali, dal punto di vista del discorso che stiamo facendo, anche questo stesso ordine ed i "mattoni" concettuali che gli danno forma, per quanto immateriali, sono da considerarsi protesi esterne, perché concepite come elementi oggettuali esterni a (o altro da) il soggetto che li conosce e li definisce.

3 -   Non a caso condizioni di questo tipo sono anche quelle che si cercano di ricreare nei monasteri o nei conventi di clausura.

4 -  Per una presentazione approfondita della filosofia buddhista vedi:
- T.R.V. Murti “La Filosofia Centrale del Buddhismo” (Ubaldini)
- A.Tollini “Buddha e Natura di Buddha nello Shobogenzo” (Ubaldini)
- A.Tollini “Pratica e Illuminazione nello Shobogenzo” (Ubaldini)

5 - Wittgenstein era forse arrivato ad una conclusione in sintonia con il Buddha quando scrisse "su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere"? (L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus).

6 -  A differenza dell'idea che ne hanno molti di coloro che non l'hanno mai praticata, la meditazione è qualcosa che si fa almeno altrettanto con il corpo che con la mente, la differenza tra i quali, peraltro, durante la pratica diviene sempre più sfumata.



7 - Nella tradizione dello Zen Soto si insiste sul fatto che la meditazione (zazen) deve essere praticata con uno spirito "senza scopo" (mushotoku), senza spirito di profitto.

8 -  Nel buddhismo tibetano ciò è descritto con l'immagine del mandàla, che rappresenta un sistema concepito in questo senso, come una data configurazione di elementi.



sabato 25 novembre 2017

SARÀ IMPOPOLARE, MA......


....io sono qui su FB per dire quello che penso e non posso fare a meno di notare che tutto questo can can mediatico che si è alzato sul caso di Weinstein [co-fondatore della Miramax, grande casa di produzione cinematografica di Hollywood] e le varie attrici che lo accusano e sparano a zero su di lui mi pare che puzzi tanto di pensiero unico e della rapida estensione del suo dominio a colonizzare l'immaginario di troppe persone. Sarà bene mettere subito in chiaro una cosa fondamentale: non ho nessun dubbio che uno che approfitta del proprio potere nel decidere se una donna lavorerà o meno per imporle dei rapporti sessuali va condannato senza mezzi termini, sia questo nel cinema o in qualsiasi altro campo. Non ho neppure dubbi sul fatto che la violenza sessuale sia sempre e comunque da condannare e che qualsiasi comportamento anche sessualmente provocante da parte di una donna non la può comunque e in nessun caso giustificare. Detto questo però è innegabile che l'"appeal" sessuale è una delle carte - spesso la più forte - che molte delle donne che possono permettersela giocano per ottenere i propri obiettivi (ciò non significa necessariamente arrivando fino al rapporto sessuale agito; ci sono ovviamente molti modi, molte sfumature e molti livelli): sta nelle cose, ognuno gioca le carte che ha, è legittimo, anche se non è molto onesto né verso le altre donne meno dotate su questo piano (e magari più capaci professionalmente) né come criterio di selezione di chi va ad occupare i vari posti di lavoro; ed inoltre non aiuta il sorgere negli uomini dell'abituarsi ad una considerazione delle donne per ciò che sono come persone. Quindi, alla fine, va a detrimento delle donne stesse, ma tant'è. Ciò accade in qualsiasi campo e certamente l'obiettivo di avere una parte importante come attrice in una grossa produzione cinematografica è uno di quelli in cui questa carta è più giocabile. Giustamente si dirà che ciò avviene perché spesso nel ruolo di chi decide della selezione ci stanno dei maschi e questo crea tutto un sistema che, se nel caso di Weinstein adesso è venuto fuori, permea in realtà buona parte del mondo del lavoro e certamente di quello dello spettacolo. E non sempre lo scambio, il do ut des, tra favori sessuali ed occasioni di lavoro - a volte tali da poter cambiare la vita e la carriera - viene estorto nel modo brutale di cui è accusato Weinstein (peraltro da così tante e con circostanze riferite così simili che sembra difficile sia tutto falso). Molte volte semplicemente si capisce che è uno scambio che può aiutare e, se si vuole andare avanti, bisogna accettare che "così vanno le cose". Se si vuole andare avanti fino a certi livelli; livelli non da poco in questo caso. Altrimenti spesso si rimane nel sottobosco del mondo dello spettacolo, nel quale, che ci si debba prostituire fisicamente o soltanto accettando di seguire i gusti della massa, guardando a ciò che è vendibile, o adattandosi alle direttive di chi ci mette i soldi, comunque non basta essere bravi per affermarsi: è una cosa che chi ne ha una qualche esperienza sa molto bene. D'altra parte si dice che se non ci fossero gli uomini che vanno con le prostitute, nemmeno ci sarebbe la prostituzione. Quindi essi sono corresponsabili anche del loro sfruttamento. Questo cosa vuol dire? Vuol dire che la realtà di un sistema la fanno tutti quelli che vi partecipano: non solo quelli che lo dirigono e lo controllano. Vuol dire che, a mio modo di vedere, la questione della condanna senza mezzi termini di chi si comporta come Weinstein (ed anche di chi lo fa in modo meno brutale) - che non è in discussione - va separata però da quella della solidarietà verso le attrici che escono fuori adesso a sparare sulla croce rossa, magari a venti anni dai fatti in questione; magari dopo essere diventate star mondiali proprio grazie al sistema di cui Weinstein è uno dei massimi padroni; magari dopo aver fatto non uno ma sette o più film con lui; magari ammettendo che i rapporti sessuali avuti con lui non si sono limitati ad una volta nella quale non potevano fuggire, ma si sono ripetuti in diverse altre occasioni; magari - per alcune - avendo accettato inizialmente soldi per non parlare; magari dicendo che lo stesso le è successo anche con altri produttori - anche in Italia - però che di questi non serve fare i nomi perché non sarebbero più perseguibili legalmente (ma non avrebbe senso ed effetto farli lo stesso a livello d'immagine? o piuttosto è perché non sono ormai bruciati come nel caso di Weinstein e può darsi che capiterà ancora di lavorarci?). Quindi direi che una cosa è la condanna dei vari Weinstein e tutta un'altra accettare questa narrazione della coraggiosa difesa dei diritti e la dignità delle donne da parte di chi ha fatto la precisa scelta di mettere al primo posto il successo e la carriera e di tutto il resto se ne ricorda ora quando non ha nulla da perdere ormai nel dare addosso ad un personaggio che da rispettato potente (a fianco del quale si facevano fotografare sorridenti) è diventato un "impresentabile". Ora ci si possono permettere anche frasi tipo "devi avere una lenta agonìa, non meriti nemmeno una pallottola" che, dette, ad esempio, all'indirizzo di capi di Stato responsabili (negli USA ne sanno qualcosa) di ben altri crimini (migliaia di morti) suonerebbero come minacce terroristiche e sarebbero perseguite di conseguenza. Ciò che fa effetto in questo come in altri episodi pervasi da un analogo scandalo mediatico è l'ondata unitaria ed omologata con cui i media spianano la questione in una visione che vuol apparire convincente, semplice, chiara e netta rimuovendo l'altro lato da cui la si può vedere: il fatto che queste attrici abbiano accettato (e non una sola volta fisicamente costrette; e non per poi subito sottrarsene e denunciare) il do ut des del potente produttore viene messo da parte come fosse in-significante. Come se dovessimo accettare tutti, cioè, che se ciò era necessario per far carriera, se tale è il modo in cui il Mercato in questo specifico mondo (ma a ben vedere non solo in questo) funziona, in primo luogo ci si deve stare; se no non si va avanti. E allora solo chi è arrivato poi "avanti" potrà denunciare. Ma quando le circostanze glielo permettono nel ruolo del vincente, però. Il che colpisce il capro espiatorio, ma non mette in questione il sistema. E non è solo il sistema dei maschi che sottomettono le femmine, ma anche il sistema che chiede a tutte e a tutti (in modi diversi) di offrire scelte di vita e dignità se si vuole inserirsi ed ottenere risultati. Per quelle che non ci sono state fin dall'inizio resta il sottobosco dei perdenti, che si dovranno accontentare, nella migliore delle ipotesi, di far un lavoro per passione e di contare solo su quanto lo sanno fare. O addirittura - più spesso - di dover cambiar mestiere. Ma allora le loro non appariranno più come nobili denunce, ma solo come lamentele, forse un po' invidiose e certamente prive di interesse per i media. Così come in campo economico le (contro)riforme che vanno in senso liberista riescono meglio (vengono più accettate da chi le subirà) quando a farle sono governi "di sinistra", nello stesso modo la formazione di un pensiero unico, omologato e omologante, passa in modo più efficace ed al tempo stesso più in sordina, meno percettibilmente, se si associa a idee che hanno un'origine legata ad istanze e movimenti alternativi, libertari, a giuste cause per i diritti civili ed il rispetto delle persone. Legandosi a tali istanze, cose che invece - secondo i casi - non c'entrano nulla o almeno non ne discendono affatto necessariamente, passano come dirette conseguenze di esse, come loro corollari e perfino come loro ulteriori avanzamenti e riescono a mantenere esteriormente l'"appeal" di qualcosa che sa di libertà, di pensiero critico e di "alternativa", mentre contengono al contrario i germi di qualcosa che è omologante e destinato a svilupparsi in direzione del tutto opposta. Esempi di questo non casuale equivoco li troviamo in molte delle questioni che tengono banco quotidianamente sui media: quando si tende a presentare l'immigrazione solo nel suo aspetto di emergenza umanitaria e come problema culturale di chiusura al diverso, ma si dimentica o si minimizza il fatto che si tratta di un fenomeno niente affatto voluto spontanemente da chi vi è coinvolto, niente affatto mosso dalla volontà di costruire una nuova società globale multietnica-multiculturale, bensì subìto, sia dai migranti che dagli ospitanti, come conseguenza di un sistema di potere e sfruttamento globale che produce povertà, guerre ed emergenze climatiche; oppure quando si passa dalla giusta difesa dei diritti degli omosessuali a vivere come sentono di fare, senza dover temere discriminazioni e violenze, alla propaganda dell'idea per cui la base biologica naturale che ci fa maschi e femmine sia del tutto irrilevante - e con essa qualsiasi nozione di base naturale della realtà - che contino solo le nostre opinioni ed i fattori culturali anche su questo e che chi mette in dubbio un tale assunto (ormai quasi un dogma) debba automaticamente essere tacciato di "omofobia" (e di conseguenza considerato alla stregua di un fascista); o ancora quando si inventa la minaccia di turno delle "fake news", come fossero un attentato alla libertà di informazione e si pensa a come perseguirla legalmente imbavagliando il web, mentre non si tiene conto di quante fake news sono state propinate dai grandi media ufficiali con conseguenze tali perfino da scatenare guerre (inizio guerra del Vietnam, presunte armi di distruzione di massa in Iraq...) o da propagandare prodotti di consumo di massa poi rivelatisi mortali (l'eroina era inizialmente una medicina della Bayer; l'amianto presente in moltissimi materiali per decenni...). Possibile non venga mai in mente di chiedersi - quando ci si rallegra che i media "si battono" per alcune idee progressiste in materia di diritti civili e political correctness - com'è che siano tutti così unanimi su certi argomenti? e com'è che l'analisi, la discussione sia sempre così semplificata? e i rappresentanti di alcune posizioni non parlino mai? e com'è che si tratti degli stessi media che a volte sembrano stare invece dall'altra parte quando acconsentono a giustificare guerre imperialiste o politiche economiche che vanno evidentemente a vantaggio dei potentati finanziari globali e a detrimento della gente comune? Non si pensa - quando si sentono ripetere senza sosta questi "valori laici" verso la costruzione di una società più giusta (e magari più moderna, più "smart", 2,3,4.0 o non so cos'altro) - che, dietro, i padroni di questi stessi media sono sempre gli stessi? È una "società dello spettacolo" e bisogna farsi qualche domanda in più oltre ciò che a prima vista può apparire giusto o sbagliato: un esercizio al quale questo sistema delle opinioni "pret-à-porter" ci ha disabituato. Per questo non sono per il "cambiamento della società": non che non vorrei vivere in una ben diversa da quella attuale, ovviamente lo vorrei e molto! Ma in questo epilogo della Modernità Occidentale [per una discussione ampia sulla Modernità Occidentale e quello che considero il suo "vizio" di fondo rimando al mio libro "L'alternativa neo-contadina"] in cui si sta mostrando tutta la sua insufficienza, la sua impotenza ad arginare o contrastare le conseguenze disastrose delle mille contraddizioni che ha creato (mentre invece continua a crearne sempre di nuove in tutto il mondo) dovrebbe apparire sempre più chiaro che il sentirsi partecipi ed impegnati per il fatto di seguire e partecipare agli infiniti dibattiti politico-culturali sull'analisi delle cause di cosa va male e sui progetti più validi per cambiare "la società" ha sempre più la funzione di un palliativo, di uno specchietto per le allodole, di un depistaggio che serve a trattenere le persone nello spazio del virtuale e pertanto - non a caso - permette che passino come plausibili idee "di principio" apparentemente giuste ma che non tengono conto della concretezza e della complessità della realtà. E quindi che senso ha accettare che "purtroppo è così che vanno le cose" ed assoggettarvisi (traendone con ciò i benefici e partecipandovi) per poi farsi belli condannando a parole e nel modo più duro possibile ciò di cui si è stati compartecipi quando ciò non costa nulla? Per questo non sono per il "cambiamento della società", perché perlopiù si tratta di chiacchiere che lasciano il tempo che trovano: sono per il cambiamento degli individui, che è l'unico modo certo ed autentico per cambiare le società. Solo che questo richiede cose alquanto fuori moda quali sincerità, coerenza ed alcune rinunce. Cose con le quali in questo mondo non si va molto lontano in termini di successo, ricchezza, potere: non si è né "fighi" né "cool". Perciò, per quel poco che può valere la mia opinione, mi unisco senza dubbio alcuno alla condanna di Weinstein, dei molti come lui, dei loro metodi e prepotenze e con essi di molti aspetti di ciò che regola lo show business. Ma non sento alcuna solidarietà per queste attrici, star internazionali che devono il loro successo a questo stesso show business di cui sono parte integrante per loro scelta e lo devono a tutti i comportamenti concreti che hanno scelto di praticare in modo che le portassero fino al punto in cui sono oggi. Applaudite da spettatori questa volta così superficiali da non vedere che è una recita pure questa...ed anche un po' ipocrita stavolta.