venerdì 4 dicembre 2015

VIA I CROCEFISSI: AVANTI CON L'IPOCRISIA DEL LAICISMO, RELIGIONE DI STATO

Premetto che non sono cattolico e nemmeno cristiano e che sono indifferente a tutte le varie ricorrenze tradizionali, feste comandate, sia di Stato che religiose, e a tutto questo genere di cose che, fosse per me, potrebbero scomparire domani e quasi non ci farei caso. Anzi, essendo alcune di queste - come il Natale - diventate poco altro che l'occasione per una esplosione periodica di consumismo, francamente, ne farei volentieri a meno. Non è quindi di difendere tali cose che mi interessa: ci tengo piuttosto al principio per cui è un fatto di onestà dire le cose come stanno e non fingere di avere certe motivazioni quando è altro l'obiettivo a cui si punta. Mi riferisco a tutta questa preoccupazione di eliminare ogni tradizionale celebrazione del Natale dalle scuole, ogni simbolo religioso dalle aule. La ragione che viene addotta è quella di rispettare la sensibilità di bambini e studenti provenienti da culture diverse dalla nostra la quale, ci piaccia o no, ha il Cristianesimo (nel bene e nel male) tra i tratti che tradizionalmente la caratterizzano. Un fatto che dovrebbe incuriosire, però, è che queste istanze di abolizione di simboli ed usanze cristiane, non provengono, nella stragrande maggioranza dei casi, da musulmani o da appartenenti ad altre religioni, bensì da persone che difendono la laicità come bene supremo che deve informare la linea delle istituzioni in ogni campo culturale. Una laicità così tanto enfatizzata che sembra piuttosto configurarsi come Laicismo. Un altro fatto curioso è che le stesse persone che sostengono questo approccio relativista quando si parla di religioni, si scandalizzano quando, ad esempio, una famiglia islamica decide di non far frequentare le lezioni di musica ai propri figli perché ritiene che queste siano contrarie al proprio credo. Vogliamo trovarlo aberrante? Io personalmente sì. Però, se si vuole essere relativisti non è che lo si possa solo quando piace; se si dice che bisogna rispettare le sensibilità altrui, anche questo strano tipo di (in)sensibilità verso la musica lo è. In questo caso invece sembra che l'incivile straniero debba essere ricondotto al rispetto di qualcosa che, quanto più è possibile, si cerca di apparentare ai diritti umani, per dissimularne il carattere culturalmente determinato che rivelerebbe il fatto puro e semplice che, sotto le mentite spoglie di una sedicente egualitaria laicità, riemerge la convinzione mai veramente superata che la cultura occidentale sia superiore a tutte le altre. Oggi superiore proprio perché relativista, perché pretende di porsi in una posizione "neutrale" rispetto a tutte le appartenenze culturali particolari. Ma la vocazione dell'Occidente è sempre stata quella di un approccio universalista: le nostre verità son sempre state qualcosa da portare al mondo perché valide ovunque (anche quella oggi più di moda, ovvero che non ci sarebbe alcuna verità). E la presunta "neutralità" di questo laico relativismo non ne è affatto esente, risultando null'altro che la veste attuale attraverso la quale - non tanto l'Occidente (che contiene anche sopravvivenze di elementi tradizionali) ma - la Modernità di matrice occidentale si impone al mondo. Da questo punto di vista non è l'espressione del Cristianesimo a dover essere cancellata in quanto impositiva sull'Islam o su quant'altro: questa è solo la giustificazione buonista e più facilmente difendibile. È il fenomeno della religiosità in sé stesso che si cerca di spazzare via, imponendo al suo posto il Laicismo come nuova "religione" di Stato. In questo, se non altro, i Francesi sono certo più franchi (è il caso di dire) di noi. Si parla di società multietnica ed interculturale, ma in un quadro in cui le etnìe devono diventare mère apparenze fisiche senza significato se non per quello che culturalmente gli si dà (cosa che peraltro si cerca di fare altrettanto - ed è ancor peggio - con le differenze tra i sessi) e l'interculturalità è piuttosto l'amalgama generale di una a-culturalità in cui ciò che conta è solo l'essere consumatori ed in cui le nicchie culturali hanno legittimità esclusivamente in quanto nicchie di mercato. Se si volesse davvero rispettare la varietà delle diverse sensibilità culturali - e certamente ci si troverebbe così molto più in linea con quelle della maggioranza degli immigrati - non si cercherebbe di cancellare le usanze tipiche della propria tradizione a causa della presenza di un certo numero di cittadini di origine straniera (cosa che peraltro essi, nella loro terra d'origine, giustamente non si sognerebbero neanche lontanamente di fare), ma si riconoscerebbero come festività pubbliche riconosciute anche quelle delle altre religioni presenti nel nostro Paese, lasciando eventualmente la libertà ad ognuno di considerare quella data come giorno di festa o meno. Anziché puntare all'abolizione pura e semplice dell'ora di religione (che certamente oggi, così com'è, non ha molta ragion d'essere - se mai ne ha avuta), si penserebbe di sostituirla con uno spazio formativo di religioni comparate, antropologia culturale, etnologia, storia delle religioni: una componente del percorso educativo che si stenta a credere sia ancora assente mentre ci sentiamo costantemente ripetere che la globalizzazione va presa come una realtà incontrovertibile. È veramente pauroso il livello di ignoranza, diffusa tra gli italiani, delle culture dei popoli extraeuropei, verso le quali abbondano invece pregiudizi e luoghi comuni. L'operazione che si cerca di fare, invece, è tutta interna alla società italiana ed è tra una fazione di laicisti che si ritengono progressisti in quanto avversi alla religione in quanto tale e che al fine di estrometterla dalla vita pubblica usano una presunta difesa dei diritti degli immigrati (senza considerare che proprio questi danno mediamente più valore alla religione che gli italiani) ed una di conservatori che usano strumentalmente come una bandiera un Cristianesimo che probabilmente non praticano, data la chiusura verso il prossimo che dimostrano. In tutto ciò la gente di origine straniera e che si riconosce in religioni non cristiane presente nel nostro Paese ha ben poca voce in capitolo ed è usata soprattutto come un pretesto. Tutto ciò non fa, a mio modo di vedere, che accrescere la confusione e l'incomprensione tra autoctoni ed immigrati. Anche perché nell'ottica laicista questi ultimi sono uguali ai primi solo in quanto altrettanto sradicati o sradicabili dalle proprie radici: la "crociata" laicista della Modernità Occidentale è rivolta tanto contro gli arcaismi esotici quanto contro ciò che di tradizionale e premoderno sopravvive e resiste nell'Occidente stesso. Anzi, in primo luogo contro quest'ultimo, perché, una volta estirpato questo, per ciò che di tradizionale vorranno tenersi vivo gli stranieri non ci sarà proprio diritto di cittadinanza. La crescente confusione - a partire da queste basi - fa credere agli autoctoni dei Paesi europei di essere minacciati nella loro identità e nel loro modo abituale di vivere da un'invasione straniera ed agli immigrati di dover scegliere tra un'assimilazione con abbandono totale dei propri valori (che in linea di massima sono tradizionali e ispirati dalla religione) o un atteggiamento di continua contrapposizione verso il Paese ospitante che varia dal vittimismo all'integralismo. Ciò che non si vede - a causa della confusione creata anche dal far passare delle cose (e delle intenzioni) per delle altre - è che, fuori da tutte le chiacchiere buoniste sulla società multiculturale, la situazione attuale delle grandi migrazioni non è affatto uno slancio spontaneo verso un teorico melting-pot globale (magari sul modello di internet o stimolato da qualche nuova tecnologia). Non c'è proprio nulla di spontaneo in tutto ciò. Si tratta di qualcosa che tutte le comunità e gli attori coinvolti, da una parte e dall'altra dell'immigrazione, subiscono loro malgrado: uno stravolgimento degli equilibri geo-culturali causato da fenomeni squisitamente economici e dagli interessi che gli stanno dietro, da sfruttamento, risorse primarie sottratte ai popoli a cui appartengono, speculazioni finanziarie, delocalizzazioni produttive, dominio delle multinazionali, landgrabbing, imperialismi, dittature sostenute per convenienza, guerre..... Non c'è proprio nulla dell'utopia multiculturale di cui si favoleggia con la coscienza sporca di chi sta dalla parte da sempre avvantaggiata da questi meccanismi, ovvero di quella percentuale del 20% dell'umanità che possiede l'80% della ricchezza. Il Laicismo, fattosi dottrina del modello unico del disordine mondiale e ben lungi dall'essere quell'elemento di super-culturale imparzialità che millanta di essere, è il volto con il quale la Modernità Occidentale cerca ancora oggi di esercitare quella missione universalista che ha sempre creduto di avere uniformando il resto del mondo alla propria visione. Per di più - dopo tutti i disastri che l'Occidente ha creato sia al proprio interno che nel resto del pianeta nel corso della sua storia - questa visione ormai (a parte una facciata di parole tese a riaffermare costantemente valori mai rispettati nei fatti) si è ridotta a garantire il diritto-dovere di essere tutti indistintamente consumatori. Uguali di fronte alle vetrine. Diversi alla cassa.

sabato 24 gennaio 2015

Ripensare il lavoro


"Non si puo' sapere qual'e' il vero lavoro del contadino: se e' arare, seminare, falciare, oppure se e' nello stesso tempo mangiare e bere alimenti freschi, fare figli e respirare liberamente, poiche' tutte queste cose sono intimamente unite, e quando egli fa una cosa completa l'altra. E' tutto lavoro e niente e' lavoro nel senso sociale [nel senso attualmente corrente] del termine. E' la sua vita". E' un passaggio che amo molto da "Lettera ai contadini sulla poverta' e la pace" di Jean Giono, del 1938. Cio' che il brano ci mostra e' un'accezione dell'idea di lavoro nettamente diversa da quella che si e' ormai affermata in Occidente da un centinaio di anni a questa parte. Oggi noi vediamo il lavoro inscindibilmente come impiego ed inevitabilmente come legato al denaro. Il lavoro e' il mezzo attraverso il quale otteniamo il denaro e il denaro quello con cui otteniamo qualsiasi altra cosa. In pratica il lavoro e' il mezzo attraverso il quale noi convertiamo il nostro tempo, la nostra energia e le nostre capacita', in una parola, la nostra vita in denaro. Non a caso e' anche cio' che ci da' una collocazione sociale, che ci definisce sulla scala gerarchica del prestigio, dello status e del potere: siamo - ci consideriamo e veniamo considerati - a partire dalla professione o dal mestiere che svolgiamo, il denaro che a questo corrisponde ne misura il valore, la posizione. E quindi, potremmo dire parafrasando il linguaggio della finanza, il nostro "rating" e il nostro "spread" rispetto agli altri. Oggi la maggioranza delle persone - soprattutto i giovani credo, a parte alcuni piu' fortunati - hanno un rapporto di odio-amore con il loro lavoro (quando ce l'hanno): si sogna di poterne fare del tutto a meno, di liberarsene e dedicarsi solo a cio' che piace, ma anche si ha il terrore di perderlo. Pero' non e' sempre stato cosi': fino a che la vita delle persone non e' stata egemonizzata dal sistema industriale, il tempo non era diviso in lavoro e tempo libero. Se non esiste il "tempo libero" cosi' neppure esiste il "lavoro", ovvero lavorare e' parte integrante della vita, non ha orario e non ha uno scopo separato ed unico come quello di guadagnare denaro, passaggio obbligato per arrivare a tutto il resto. Oggi siamo di fronte ad una situazione di crisi di sistema, per cui il lavoro scarseggia, in entrambe le forme in cui si da' oggi. Si, perche' nel sistema attuale noi ci siamo ormai abituati a concepire il lavoro solo in due modalita' opposte e complementari: quella dell'imprenditore/datore di lavoro e quella del lavoratore dipendente (operaio o impiegato). Sembra non possa piu' darsi, questa fondamentale dimensione umana del lavoro, al di fuori di questa dicotomia. Eppure la vita del contadino rappresenta una modalita' diversa, che ha sempre accompagnato - come possibilita' oggi, come realta' maggioritaria ieri o tuttora altrove - la condizione umana. Il contadino parte da una base di risorse autonoma e limitata e, pur coltivandola costantemente, rimane dentro i limiti di crescita gia' intrinsecamente contenuti in tale base. Perche' le risorse a sua disposizione sono quelle date. E' decisivo, inoltre, che il valore di questa base di risorse, come la fertilita' del suolo, la salute degli animali, la durata di attrezzi, macchine e strutture, sia mantenuta ed a questo fine e' necessario trovare soluzioni e adattamenti ambientali anche ingegnosi che tengano conto degli effetti a lungo termine. Cio' e' molto diverso da un sistema in cui l'elemento del capitale finanziario disponibile (e, in linea di principio, indipendente da tutto il resto e sempre incrementabile) e' l'unico dal quale dipende tutto il resto e che puo' essere trasformato indifferentemente in qualsiasi altra cosa (comprandola). Percio' vediamo come, a differenza sia dell'imprenditore che dell'operaio/impiegato, il contadino non ha l'orizzonte della crescita e del profitto del capitale investito ne' vi e' legato: si muove bensi' in una forma di economia circolare che si limita a riprodurre il proprio sostentamento e le basi che lo permettono, dando luogo cosi' ad una forma di sussistenza sostenibile sia economicamente che ecologicamente. Si tratta in effetti di un modello di economia che funziona secondo principi estranei al sistema consumistico-capitalistico, pur vivendo nello stesso territorio che da esso e' dominato e regolato. E' chiaro che qui si sta parlando del contadino, intendendo con cio' una figura ben distinta dall'imprenditore agricolo che gestisce, direttamente o indirettamente, un'azienda agricola secondo un modello industriale o tendente ad esso. L'elemento della componente di autoproduzione ed autoconsumo come distintiva del modello contadino e' centrale per un discorso di risposta efficace alla situazione di crisi del sistema spostando la prospettiva verso una economia di sostentamento. Bisogna fare uno sforzo intellettuale ed uscire dalla visione delle cose profondamente acquisita per cui lavoro e' solo cio' che da' reddito monetario e lavoratore solo colui che e' inquadrabile in una univoca categoria professionale. Il contadino non era una persona che "faceva" il contadino con un determinato orario di lavoro e come una definizione professionale. Ne' era qualcuno che faceva esclusivamente quel mestiere e non sapeva fare altro: per necessita' o per inclinazione i contadini erano sempre anche un po' muratori, carpentieri, falegnami, artigiani, maniscalchi, boscaioli, meccanici, piccolissimi commercianti, intagliatori e talvolta pure cantastorie o musicisti. Integrare il lavoro agricolo, dedicato all'autoproduzione del cibo (ma anche di altri prodotti di base) ed alla produzione della parte che ne veniva venduta o scambiata, con occupazioni diverse che davano quella parte di denaro liquido necessaria a quanto non si poteva produrre da se', ha sempre fatto parte della realta' contadina. Oggi ci sentiamo dire da piu' parti che e' ora di dimenticarci l'idea del posto fisso e sicuro. Cio' significa - per la gente comune - il dover costantemente rincorrere corsi di formazione professionale (che spesso servono piu' a far lavorare chi li organizza che chi li frequenta) ed impieghi precari e a termine. E' una tendenza di lungo periodo che non accenna a diminuire, ne' e' realisticamente probabile che lo faccia, dal momento che la concorrenza commerciale dei Paesi emergenti e' forte e la crisi della domanda da noi e' strutturale, anche perche' - per quanto la pubblicita' faccia del suo meglio per spingerci a comprare facendoci sentire costantemente inadeguati e insoddisfatti con quel che abbiamo - e' ben difficile riprodurre di nuovo qui le condizioni che ci sono ora in Paesi in cui ancora la maggioranza delle famiglie sta appena iniziando ad accedere a tutti i prodotti tecnologici e del consumismo di massa. Allora, un recupero della dimensione contadina dell'economia domestica, in cui diventano la regola sia la molteplicita' delle attivita' che una parte di autoproduzione, che fa da base a tutto il resto, puo' diventare una possibilita' non a cui "tornare", ma con cui "reinventarsi" un'idea di lavoro. Oggi, che si puo' essere contadini per scelta, all'attivita' agricola, e' possibile accompagnare ogni sorta di lavoro, da quelli di livello piu' basso - come era anche una volta - a professioni di alto livello, passando, secondo i casi, per impieghi negli enti pubblici, attivita' artistiche, mansioni tecniche specializzate, da programmatori informatici e quant'altro. La base di autoproduzione e piccola vendita permetterebbe inoltre di estendere molto piu' di oggi l'impiego part-time ovvero di ridurre il tempo medio di lavoro retribuito per lavoratore, il che equivale a poter aumentare notevolmente (sebbene con questi limiti) i posti di lavoro. C'e' dunque un grande potenziale nell'agricoltura contadina di poter assorbire disoccupazione, ma non nel modo classico (ed oggi molto problematico) di creare "posti di lavoro", bensi' nel sostituire in misura rilevante questa fonte di sussistenza alla condizione di precarieta' di molte persone che, a monte dell'assenza di posti di lavoro, e' dovuta alla loro totale dipendenza dal trovarne per poter sopravvivere. Occorre pero' mettere da parte il punto di vista dell'attuale sistema economico orientato alla crescita del PIL, che e' il punto di vista delle aziende e del capitale investito, ed adottare quello delle persone comuni - ovvero quello che si potrebbe scoprire essere il proprio, nella maggioranza dei casi - che semplicemente devono vivere e che possono anche scegliere di collaborare reciprocamente in forme solidaristiche anziche' sentirsi in competizione perpetua, per giunta illudendosi che questa portera' alla fine (?) vantaggi per tutti (secondo la "religione" dell'homo oeconomicus). Qui mi riferisco soprattutto ad una agricoltura contadina come forma odierna di agricoltura di sussistenza in un Paese sviluppato ed, anzi, post-sviluppo, che si integra con altre fonti di reddito in un'economia composita che riesce a ridurre in modo significativo la dipendenza dalla sua componente monetaria e nella quale il contadino non vede se' stesso come figura professionale definita, bensi' come essere umano vivente che si basa in primo luogo sulla terra e cio' che questa, con il suo lavoro, gli da' e, secondariamente, sulle altre cose che gli riesce di fare per vivere. Ma non e' certo solo questa l'agricoltura contadina possibile oggi in Italia: ci sono molte aziende agricole che, pur avendo anch'esse le caratteristiche distintive elencate in precedenza, non hanno bisogno di altre fonti di reddito per sostentarsi. Un'agricoltura, pur sempre contadina e percio' su scala ridotta, che pero' non e' solo di sussistenza, ma professionale, e che sarebbe in grado di sfamare la popolazione nazionale, sebbene non in un sistema dominato dalla Grande Distribuzione Organizzata com'e' quello attuale: si tratterebbe di creare circuiti appositi di filiera adeguati alle produzioni contadine. Ma ci vorrebbero leggi e politiche che riconoscessero, in primo luogo l'esistenza, della specificita' dei modelli contadini di agricoltura e che altrettanto ne riconoscessero le molteplici ricadute positive a largo spettro, vantaggiose per tutti, sulla qualita' del cibo, sugli ecosistemi, sui territori, sul paesaggio, sugli equilibri idrogeologici, sulla biodiversita', sull'occupazione... Purtroppo, pero', la situazione cui ci troviamo davanti e' una in cui le politiche e le leggi attualmente vigenti sono concepite unilateralmente a misura del modello agricolo unico industriale e pongono pertanto enormi ostacoli a chi vuole vivere secondo queste forme altre di economia e trovare in tal modo - vuoi come fonte integrativa di sussistenza che come attivita' a tempo pieno - una risposta alla situazione di crisi in cui ci troviamo. Ci si trova di conseguenza confinati nell'ambito del "sommerso", della cosiddetta "economia informale". Ma se per quella "formale" dobbiamo intendere l'economia del modello unico, dominata dagli interessi delle grandi aziende e del capitale finanziario, quella "informale" potrebbe essere meglio definita come un'economia autoprodotta, autogestita ed autocontrollata a misura delle necessita' di base ed autentiche delle persone e delle comunita' direttamente coinvolte.....almeno finche' non ci saranno finalmente regole pensate per queste ultime e non per gli interessi di soggetti economici che gli sono estranei e che perseguono solo i propri fini di crescita dei profitti.

giovedì 8 gennaio 2015

La libertà, il rispetto e i falsi laicismi nel mondo globale


La strage avvenuta nella sede del giornale satirico parigino Charlie Hebdo è stato un assassinio barbaro e vigliacco che non ha giustificazioni. Barbaro per essere il portato di una visione arcaica delle cose, per cui ogni onta va lavata col sangue. Vigliacco perché chi l’ha compiuto si è trincerato dietro la forza dei kalashnikov per colpire ed eliminare persone inermi ed ignare di quanto stava per accadere. Non si può dunque non condannare questo atto senza mezzi termini nella sua violenza e solidarizzare con le vittime che vi hanno perso la vita. Questo è ciò che penso, e ci tengo a dirlo subito, anche per non essere frainteso (strumentalmente o meno) in ciò che segue. Perché questo episodio tragico è anche una occasione per fare alcune riflessioni sul mondo in cui viviamo e, da parte nostra come Occidentali, sull’Occidente, dato che, fra le parti in campo, è sempre una buona regola volgere il proprio sguardo critico alla propria, in primo luogo. Ascoltando e leggendo opinioni e dibattiti oggi (il giorno dopo l’attentato) ciò che viene messo maggiormente in risalto, più che l’omicidio in quanto tale, è l’attacco alla libertà di stampa, si dice che dobbiamo difendere i valori dell’Occidente, dell’Illuminismo e con ciò della Democrazia, della Tolleranza, del Pluralismo: è intorno a questi che dobbiamo far quadrato e da più parti emerge la richiesta, rivolta ai musulmani “sedicenti” moderati, di una scelta di campo netta: denunciare coloro che stanno dall’altra parte, ovvero, di passare, loro, inequivocabilmente dalla nostra. Si richiede una prova di solidarietà verso il “laicismo” occidentale e lo si fa in nome della tolleranza e del pluralismo: specie da parte di chi ha sempre teso una mano “multiculturalista” viene ora chiesto in cambio un segno chiaro. E al tempo stesso si prendono le distanze dall’ottica dello “scontro di civiltà” (Huntington) come chiave per interpretare la contemporaneità: ci si mostra scettici sul prendere la differenza come un dato di fatto irriducibile – o non-riducibile a volontà ad un melting-pot laicista e trans-culturale. Ma non è invece proprio questa la via verso lo scontro delle civiltà? Pluralismo significa riconoscere sinceramente valore, dignità e diritti a culture diverse? Oppure avere pazienza con chi è considerato “civilmente difettoso ma in via di sviluppo” in attesa che prenda la “strada giusta” di diventare come noi? Essere in un mondo globalizzato in cui dobbiamo convivere pacificamente tra società/civiltà/culture diverse implica una misura di rispetto, ma per rispettare bisogna anche conoscere, capire e riconoscere gli altri in quanto altri, irriducibilmente altri, diversi da noi: non diversi solo per aspetti estetici, folkloristici, superficiali, ma profondamente diversi in quanto facenti riferimento ad orizzonti di valori e significati divergenti. E pure, senza farli propri, anche dissentendo, averne rispetto, accettare di conviverci fianco a fianco (senza necessariamente doversi mischiare) ma senza crear motivi di offesa. Finché è possibile evitarlo, almeno. Con questa solidarietà verso i nostri sacri valori della libertà d’espressione che sento in giro da dopo l’attentato, onestamente non mi sento molto solidale: mi colpisce come non si senta da parte di nessuno una sola parola che prenda in considerazione il punto di vista dei Musulmani, il fatto che la nostra libertà d’espressione ha offeso ripetutamente i sentimenti religiosi di milioni di persone toccando qualcosa (la figura di Maometto) che per loro è sacra ed intoccabile. Il che, per molti potrà anche essere una cosa assurda e retrograda, ma è una realtà. Ciò, ancora una volta, non può giustificare in alcun modo quanto è avvenuto, ma è una realtà di cui non si può non tener conto in nome dei nostri valori di libertà e al tempo stesso dirsi pluralisti e contrari allo scontro delle civiltà. Quali conseguenze ci sarebbero da parte di un qualsiasi Paese dell’Occidente esportatore di democrazia verso pubbliche prese di posizione ed azioni pesantemente ed offensivamente contrarie ai diritti umani, ad esempio sull’Olocausto o verso le Donne, negandone le più basilari dignità e diritti, cioè cose che costituiscono i nostri valori? Ci sarebbero certamente sanzioni penali ed a volte queste sono state tra le giustificazioni per interventi militari che hanno fatto parecchi morti, di cui moltissimi innocenti. Se ce n’era ragione dal nostro punto di vista, da altri punti di vista ce n’è altrettanta nell’impedire che alcune figure considerate sacre e simboliche dei valori a fondamento della propria forma di vita e di cultura vengano apertamente vilipesi. Dal punto di vista di altre persone e civiltà per impedire questo vale la pena morire. Ed ancor più uccidere. E’ una cosa da pazzi? Per me personalmente lo è, ma è così. E per chi non ha né voce, né diritti, né potere, né cittadinanza per difendere il proprio modo di vedere, gli strumenti per contrastare ciò che è ritenuto offensivo, pericoloso ed inaccettabile non potranno essere le sanzioni legali, ma le vie estreme, eclatanti e disperate. Questa condizione di non riconoscimento, di messa ai margini, non è una giustificazione per uccidere nessuno, senza dubbio, ma è un dato di fatto e non uno trascurabile o che possa non essere preso in considerazione da chi vuol con-vivere in pace nel mondo globalizzato, che è quello in cui viviamo. Allora la domanda è: per quale via possiamo andare verso un vero riconoscimento pluralista ed una convivenza pacifica nel mondo che il capitalismo ha globalizzato a prescindere dalla volontà dei popoli? Occorre un passaggio culturale evolutivo probabilmente; ma in quale direzione? La difesa unilaterale dei valori illuministi e laicisti dando in cambio a chi li subisce una facciata di tolleranza (che non è riconoscimento di dignità) e qualche occasione di lavoro-guadagno-consumismo da discount (restando ai margini, precari e sfruttati) non basta ed evidentemente non convince i destinatari che vedono benissimo come si tratti di un modello unilaterale in cui l’integrazione è adeguamento ed in cui il laicismo, il relativismo, il rifiuto del sacro – sul quale invece si basa la loro cultura - è un credo sempre più obbligatorio. Molti, in Occidente, lo chiamano progresso e perfino si illudono che dal resto del mondo la gente venga a farsi sfruttare qui per accedere a questo paradiso di diritti e civiltà, anziché per quei quattro soldi che gli danno; che altrove non aspettino altro che un esercito a stelle e strisce che, dopo averli affamati con un bell’embargo, entri a conquistare le loro città per portarvi la democrazia dei Mac Donalds. Ma ci si rende conto di quanto chiuso all’interno della nostra realtà ed autoreferenziale sia il dibattito su queste cose? Di quanto sia lontano dalla visione del mondo propria della parte maggioritaria delle popolazioni che lo abitano? Questa che vuol presentarsi come la soluzione che l’Occidente ha da offrire e che gli altri devono sostenere, pena l’esser confusi coi terroristi, non è una prospettiva plurale e paritaria, bensì l’arroccamento di un Occidente incapace di dialogare davvero, di convivere senza pretese di supremazia o, peggio ancora, l’inizio della resa dei conti globale che metterà fine a queste pretese, in modo simile, forse, a come avvenne per l’Impero Romano…..ma con conseguenze sulla scala che possiamo aspettarci oggi. Ci serve un’idea diversa di evoluzione, di libertà e di convivenza che sia genuinamente pluralista ovvero che lasci spazio a modelli diversi e l’unico modo per permettere questo è accettare un principio di misura e di limite: cose sulle quali l’Occidente odierno ha quantomai da (re)imparare. Nel caso della libertà di espressione: è stata una grande conquista dell’Occidente essersela guadagnata attraverso tante battaglie, un punto di forza sul quale abbiamo da insegnare, senz’altro. Ma dobbiamo obbligatoriamente credere che avere una libertà debba significare che sempre e in qualsiasi condizione esercitarla sia un bene? E che autolimitarsi deliberatamente questa libertà equivalga a perderla? Equivalga a lasciare il campo a chi vorrebbe togliercela? Avere la libertà di fare qualcosa ma – a ragion veduta e liberamente – rinunciare a farla, contenere volontariamente questa facoltà, siamo sicuri che è un tornare indietro a quando non ce l’avevamo? O non potrebbe essere un passaggio evolutivo superiore, nel senso che viene proprio in seguito al progresso tecnologico e civile che ha portato all’ottenimento di queste libertà? Se invece di continuare a produrre e consumare senza fine per rendere disponibili a tutti (o sempre di più a qualcuno?) ogni sorta di beni di consumo (spesso inutili e quasi sempre inquinanti), ci astenessimo dal proseguire su questa linea perché capiamo che ha conseguenze nefaste e disastrose per tutti e cercassimo un’altra linea di evoluzione, anche economica, con valori ed obiettivi più a misura d’uomo, più egualitari, più olistici, vorrebbe dire che ci metteremmo dei limiti e rinunceremmo a fare qualcosa che è nelle nostre possibilità. Ma staremmo con questo regredendo? O sarebbe un passaggio più avanzato dal punto di vista (non dello “sviluppo” ma invece) dell’evoluzione? Se non fosse per una questione legata a come è strutturato il sistema ed al punto di “colonizzazione dell’immaginario” a cui siamo arrivati, questo oggi sarebbe possibile ed accettabile alla generalità della popolazione, proprio grazie al livello di sviluppo a cui siamo arrivati. Sarebbe, dopo esser usciti da una condizione di carenze attraverso un periodo di eccessi, arrivare ad una condizione di equilibrio che beneficerebbe non solo noi come umani di Paesi ricchi, ma anche il resto del mondo, sia in senso degli altri popoli che degli altri esseri viventi. Mentre quella dello sviluppo è unilateralmente una linea di accrescimento di un dato elemento o di una data società, quello evolutivo è un percorso di realizzazione di condizioni migliori complessive sia per il dato elemento/società che in relazione al contesto nel quale è inserito e di cui in qualche modo è parte. Per tornare alla libertà di espressione, se sappiamo di convivere con persone che hanno un senso del sacro mentre noi non ce lo abbiamo più, che ad esempio sono estremamente sensibili quanto alla figura di un certo profeta che tanti secoli fa ha iniziato a diffondere la loro religione: è così un problema scegliere di indirizzare la propria satira su un simbolico jihadista non meglio identificato o anche su un riconoscibile capo jihadista contemporaneo, ma non proprio su Maometto? Con ogni probabilità l’effetto sarebbe molto diverso: non sarebbe una cosa gradita, ma non sarebbe su qualcosa di intoccabile (per tutti i musulmani, non solo per gli integralisti). Si rinuncerebbe per questo ad esercitare la propria libertà di critica? O si tratta invece di non preoccuparsi più di tanto di entrare nel merito delle differenze tra una cosa ed un’altra dal punto di vista altrui? Di colui che si dice di voler includere ed accettare? Non vuol dire in fondo che si sta e si vuol rimanere del tutto all’interno di un’ottica occidente-centrica e non uscirne pretendendo di essere proprio per questo gli alfieri del pluralismo e del relativismo culturale, quando invece ciò che si offre è solo la via obbligata dell’assimilazione culturale (in una cultura che peraltro non è nemmeno più sé stessa in quanto essa stessa travolta dal sistema consumista che ha generato)? L’accettazione del limite anche culturale della propria civiltà porterebbe ad accettare realmente di convivere in pace e perciò con rispetto a fianco di altre civiltà, culture, visioni del mondo senza bisogno di confronti che debbano necessariamente arrivare ad una sintesi (che vorrebbe presentarsi come multiculturale senza poterlo né volerlo essere). Basterebbe adottare una visione biodiversa in cui abbiamo il nostro spazio, nessuna missione civilizzatrice verso nessuno, e lasciamo agli altri il loro, lasciandoli essere altri. Eviteremmo così inutili comportamenti provocatori e forse, semmai, ci riuscirebbe di dare anche qualche buon esempio talvolta. Ma questo è difficilmente concepibile per i paladini del sedicente laicismo pluralista, per i nuovi crociati dell’Occidente, unica vera civiltà del progresso (ditelo alla fine!). Perché per loro la questione sta proprio qui: accettare un limite oltre il quale si sceglie di non poter andare non è possibile. Il limite di lasciar definitivamente spazio di sopravvivenza a culture irriducibilmente altre, basate sul senso del sacro, su qualcosa visto come non soggetto alla Storia ed alle opinioni umane, sarebbe rinunciare alla visione/vocazione universalista dell’Occidente moderno. E, sia detto di passaggio, ciò corrisponderebbe anche ad ostacolare la coazione cronica ad espandersi propria del capitalismo che lo porta necessariamente ad occupare tutti gli spazi vitali/economici. Accettare limiti sarebbe un sacrilegio. Perché anche quella dell’Occidente, della Modernità, del progressismo è una Guerra Santa e già si sente, a partire da questa vicenda, chi chiede che sia definitivamente bandita ogni forma legale di protezione di cose o simboli ritenuti sacri da qualsivoglia comunità. E’ questo il punto per chi negando lo scontro di civiltà non fa che prepararlo: la laicizzazione obbligatoria di tutte le società, la riduzione di tutte le identità e le convinzioni non compatibili strettamente nell’ambito del privato, che in una società di massa è sempre più omologato ed irrilevante. L’epoca della fine del senso del sacro è anche quella della massima libertà individuale, ma una libertà che è al tempo stesso la massima in-differenza = irrilevanza. Delle tradizioni? Si, ma anche delle opinioni, delle visioni del mondo, della biodiversità, dell’indipendenza e dell’autonomia culturale. Delle persone comuni, in definitiva, e delle comunità umane. Sarebbero gli integralisti islamici i difensori di questa indipendenza e biodiversità? Certamente no! E senza dubbio la soluzione non è quella di restaurare protezioni legali per simboli “sacri” o dare spazio ad oscurantismi vari. Si tratta piuttosto, se ci si dice pluralisti, di avere l’onestà di un comportamento conseguente e comprendere che l’avanzamento di una civiltà si misura su un piano evolutivo, nel saper abbandonare la strada ripetuta di insistere a ripetere i propri stessi modelli all’infinito affinché vincano su tutti gli altri. Capire che frutto di un raggiunto livello di potere, di benessere e di diritti civili può anche essere invece il riconoscimento teorico e pratico della realtà e del valore del limite, della parzialità della propria visione. E la libertà di scegliere ciò che è più opportuno ed utile verso la coesistenza pacifica di realtà diverse. A volte è la libertà del fare. Per chi è in posizione di vantaggio molto spesso quella di non fare.