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Vorrei rispondere al testo (http://new.decrescitafelice.it/content/un-gruppo-di-lavoro-sulla-transizione-agroalimentare-prima-parte - e seguenti) recentemente apparso sul sito del Movimento per la Decrescita Felice sulla formazione di un gruppo di lavoro sulla transizione alimentare. Non so se si tratta di una base per l’avviamento di un dibattito o se di una posizione già presa e definitiva da parte del MDF. Ad ogni modo voglio esprimere alcune perplessità che mi sono sorte leggendolo, sebbene sulla maggioranza delle cose che vi sono espresse mi trovi sostanzialmente d’accordo.
Mi domando se la Decrescita debba essere un movimento per soli vegetariani, se il tipo di argomenti alla base di una scelta vegetariana siano quelli peculiari della prospettiva decrescente o se invece questa non riguardi essenzialmente un approccio ai modelli economici dotato di un senso della misura che possa ridimensionare tutte le attività umane fino a riportarle a proporzioni sostenibili dagli ecosistemi e che si manifesti altrettanto come un buon-senso comprensibile da molti, evitando posizioni estreme e riuscendo ad aggregare consenso politico.
A dire il vero sono stato vegetariano anch’io, per tre anni, dai 16 ai 19, e considero l’opzione vegetariana una scelta personale nobile e meritevole. Ho smesso, però, quando sono venuto a vivere in campagna: ho trovato che anche l’allevamento e l’uccisione per alimentazione di altri animali rientra nell’insieme del funzionamento della Natura e nel sistema economico contadino (proprio nel senso di ecos-nomia, del rapporto con e gestione de l’ambiente ecosistemico di cui si fa parte secondo le sue proprie leggi). In natura gli esseri, nella misura del necessario, si uccidono tra di loro. In natura il conflitto ed anche la sopraffazione sono elementi della realtà; e lo sono sempre stati anche della realtà umana, che ci piaccia o no. Temo sia impossibile, purtroppo, immaginare un mondo dove questo non esista. Già sperare che si facciano strada le indicazioni per una riconversione decrescente del mondo sembra molto ottimista, ma addirittura puntare al giardino dell’Eden, mi pare un po’ troppo. Migliaia di specie animali si estinguerebbero se tutte dovessero essere vegetariane, moltissime civiltà e culture umane tradizionali (come ad esempio i Mongoli, gli Eschimesi, i Masai…. ) dovrebbero scomparire. Perfino nella lunga storia di una civiltà come quella indiana ci sono stati passaggi cruenti, non privi di vittime, senza i quali essa non avrebbe raggiunto quel livello di benessere tale da potersi permettere di produrre filosofie di non violenza come quella vegetariana. Non riesco ad immaginare bande di primi esseri umani vegetariane: penso piuttosto che mangiassero quel che potevano secondo ciò che, senza troppo sforzo né troppo rischio (laddove possibile) l’ecosistema gli offriva.
Capisco che possa sembrare antropocentrica la posizione di chi si arroga il diritto in quanto umano di uccidere altri animali per mangiarseli, ma non si tratta di un “diritto”: non c’è qualcosa come “i diritti” in natura (e anche tra gli umani la capacità di farne valere dipende in genere dai rapporti di forza). Si tratta di un fatto, un fatto tra i più comuni da che mondo è mondo. L’idea di poter rendere questo mondo pulito da ogni traccia di violenza, conflitto, sopraffazione, di renderlo “migliore”, ad immagine e somiglianza di ciò che ci appare “giusto”: forse proprio questo è antropocentrismo.
Il fatto di essere umani non ci esime da quello di essere animali umani, parte della Natura e funzionanti secondo le sue leggi.
Gli strumenti di comprensione, di saggezza, di autocontrollo che abbiamo come specie umana possono permetterci certamente di ridurre al minimo possibile le occasioni di conflitto, di trovare nella stragrande maggioranza – auspicabilmente nella quasi totalità - dei casi alternative alla violenza ed alla sopraffazione. Non di abolirle dalla realtà. In ultima analisi noi la realtà (e per realtà intendo la Natura) non possiamo “migliorarla”, ma solo comprenderla ed imparare sempre più profondamente il modo migliore (dal punto di vista più ampio possibile) di muoverci dentro ad essa così com’è.
Credo che, se la Decrescita vuole essere una visione veramente eco-centrica, dovrebbe sapersi differenziare da molti approcci ambientalisti-protezionisti che vedono la natura come “altro dall’uomo” - per quanto in positivo – e concepirla piuttosto come ecosistema del quale siamo parte: se vogliamo vedere le cose dal punto di vista ecosistemico, dobbiamo farlo in termini di equilibri ecosistemici, dinamici e funzionanti secondo linee che sono proprie del sistema naturale nel suo complesso e non di un punto di vista umano che su di esso si proietta.
Faccio l’esempio di una polemica che c’è stata in Francia tra José Bové e gli animalisti a causa del fatto che il famoso contadino altermondialista si è espresso a favore dell’autodifesa dei pastori contro i lupi che gli uccidevano le bestie e delle loro ragioni per sparargli per ridurne il numero. Se vogliamo vedere le cose nel senso della difesa della vita (specialmente di una specie selvatica ed affascinante) “senza se e senza ma” possiamo prendere le parti del lupo (peraltro infischiandocene delle pecore – oppure rifiutando il fatto stesso che queste debbano essere allevate per trarne alimenti). Ma, se vediamo la cosa in modo più ampio ed ecosistemico, è certamente un bene se sempre più persone possono vivere come pastori e contadini, autoproducendosi sostentamento e reddito secondo un’economia integrata con la Natura, anche ripopolando terre marginali e montane dove poco altro che l’allevamento può dare di che vivere. Se molte, moltissime persone, potessero sottrarre, col proprio destino economico-lavorativo, il sostegno ad un sistema industriale-consumistico globalmente distruttivo trovando un modo di vivere integrato con la Natura (per esempio) con le pecore in montagna, dal punto di vista dell’insieme dell’ecosistema, questo avrebbe certamente più rilevanza di qualche schioppettata tirata a qualche lupo di troppo.
Chiedo scusa della brutalità, ma a volte sembra di incorrere in una sorta di “ambientalismo da cittadini” che può anche essere lodevole nelle intenzioni, ma che è spesso carente nel sapersi mettere dal punto di vista dell’insieme ecosistemico naturale così com’è, come funziona, al di là di come ci piacerebbe a noi.
Allora, anche nel caso dell’alimentazione carni/pescivora, credo che il punto da inserire in un programma politico da proporre (anche solo come prospettiva di lungo termine) alla società sia riguardo al modo in cui avvengono queste “produzioni” e alla misura di questo tipo di “consumi” (per usare parole già brutte e a maggior ragione in questo caso in cui parliamo di esseri viventi), non puntare alla loro abolizione assoluta – scelta nobilissima che direi appartiene, però, al senso etico individuale, il quale si trova su un piano diverso.
Come è riconosciuto già nel testo, occorre unire all’utopia una misura di realismo, altrimenti si rischia di far discorsi improponibili in termini di proposta politica – se è questo di cui stiamo parlando. E la convinzione sulle ragioni del vegetarianesimo in quanto tale, a me onestamente non sembra sia molto diffusa nel nostro paese, né radicata nella nostra storia e nella nostra cultura. Ma soprattutto mi sembra che le posizioni vegetariane (o meglio vegetarianiste) coinvolgano argomentazioni e considerazioni estranee o almeno non necessarie al discorso complessivo della Decrescita.
Ciò che invece in tale contesto è certamente ineludibile è una critica radicale alle modalità di produzione del cibo di origine animale e alle proporzioni del suo consumo nelle società sviluppate. Questo è un discorso sacrosanto, ma è altro dalla scelta vegetariana tout-court.
Non c’è mai stato un mondo con un’umanità vegetariana, per cui non possiamo sapere quali conseguenze produrrebbe sugli equilibri biologici planetari. Ciò che sappiamo per certo, invece, è che, nella storia del mondo, le società degli attuali paesi ricchi ed emergenti con i loro livelli di consumo di carne e pesce sono una insostenibile anomalia. Nella dieta della generalità dei popoli tradizionali (compresi quelli occidentali prima del “boom economico”) carne e pesce erano (e sono) presenti, ma né ogni giorno, né – per molti – ogni settimana. E normalmente l’uso non è di mangiare un’intera bistecca o un intero pesce a testa, ma pezzetti dell’uno o dell’altro spesso mischiati a delle verdure. Si tratta inoltre di cibi cari e perciò usati in occasioni, se non proprio straordinarie, comunque un po’ speciali e distanziate nel tempo. Certo tutt’altra cosa rispetto ai nostri frigoriferi pieni di confezioni che in percentuale significativa vengono buttate senza neanche aprirle.
Credo che i danni alla salute ed al pianeta provocati da pesca e zootecnia siano dati dalla quantità spropositata dei loro prodotti che vengono acquistati e non dal fatto in sé che esistono persone che allevano o pescano come sempre è stato da millenni a questa parte. Il punto è che sono le tecniche e le quantità che andrebbero strettamente regolamentate e controllate: dovrebbero essere permesse solo aziende di dimensioni contenute con un numero limitato di capi i quali dovrebbero avere spazio sufficiente per pascolare, muoversi ed alimentarsi in modo naturale, fare una vita “dignitosa” per la loro specie; la pesca dovrebbe esser permessa solo ad imbarcazioni piccole dalla limitata capacità di pescato ed anche lì le tecniche dovrebbero essere regolamentate in modo da garantire un impatto facilmente sostenibile dagli ecosistemi.
In sostanza si dovrebbero recuperare le conoscenze e le tecniche tradizionali su piccola scala unendole alle facilitazioni tecnologiche a minimo impatto ed alle attuali conoscenze sul funzionamento e l’autoregolazione degli ecosistemi ed a partire da questo implementare regole del tutto nuove di allevamento e pesca. A ciò andrebbero affiancate misure per un trattamento il più possibile rispettoso ed incruento degli animali – cosa che comunque ogni allevatore che abbia motivo di essere soddisfatto del suo lavoro tende a fare spontaneamente.
Il costo ambientale delle attività di allevamento e di pesca dovrebbe essere accollato alle aziende responsabili.
Tali regole renderebbero zootecnia e pesca industriali impossibili e polverizzerebbero la produzione su un gran numero di aziende piccolissime a livello familiare o poco più. Aziende contadine. I volumi complessivi di produzione si ridurrebbero notevolmente e la qualità aumenterebbe senza paragone, mentre ciò creerebbe anche posti di lavoro dato l’aumento di manodopera necessaria con questo tipo di tecniche; ma senza che questo comporti investimenti eccessivi per avviare un’attività in questo campo trattandosi in questo modo di produzioni a basso impiego tecnologico e forte valore aggiunto di lavoro umano e competenze.
Ovviamente il prezzo della carne e del pesce aumenterebbe notevolmente. Questi prodotti tornerebbero ad essere per le occasioni speciali (ora, senza esagerare: ragionevolmente potrebbe essere un pasto da una volta o due a settimana per una famiglia media) e la qualità diventerebbe un requisito indispensabile. Questo, insieme alla diffusione capillare di aziende piccolissime, agirebbe in controtendenza all’accentramento della distribuzione e favorirebbe il rapporto diretto produttore-consumatore con la conseguenza collaterale di un contatto più diretto con le realtà dove nascono i prodotti e più in generale di un cambiamento culturale.
Si tratta, in buona sostanza, di una riconversione della produzione del cibo – ed ora non mi riferisco più solo a carne e pesce, ma a tutto il cibo – da un modello industriale ad un modello non agricolo-imprenditoriale, ma contadino.
Alcune caratteristiche distintive del modo contadino del fare agricoltura sono:
- l’essere diretto al maggior valore aggiunto possibile,
- la generazione di reddito in maniera indipendente usando, quanto più possibile, risorse autocreate ed autogestite,
- il produrre a partire da una base di risorse limitata di cui dunque deve essere conservata la qualità/salute biologica e che deve essere utilizzata con metodi ingegnosi ed autonomi che tengano conto degli effetti a lungo termine,
- l’avere limiti di sviluppo possibile già contenuti nella misura della base di risorse disponibili,
- l’essere un’agricoltura intensiva e non estensiva ed una produzione rivolta ad una varietà di prodotti diversi,
- il partire da una base di risorse integrata (non divisa in elementi contraddittori come lavoro e capitale o lavoro manuale ed intellettuale…) in cui le risorse materiali e sociali disponibili rappresentano un’unità organica e sono possedute e controllate da chi è direttamente coinvolto nel processo lavorativo,
- la centralità del lavoro e della qualità/cura delle risorse/mezzi di produzione insieme all’inventiva per migliorarle con i mezzi limitati a disposizione,
- il trattarsi di una produzione solo parzialmente rivolta al mercato ovvero, in termini “decrescenti”, di beni che solo in parte sono destinati a diventare anche merci,
- il rivolgersi ad un mercato personalizzato, con un volto, a consumatori con i quali va costruito e mantenuto un rapporto di fiducia.
Nell’Italia di oggi questo modo contadino di produrre cibo è schiacciato sotto una serie di normative fiscali, igienico-sanitarie, di giurisdizione sul lavoro, legali, burocratiche ecc… ecc.. che lo rendono pressoché impossibile, sempre sull’orlo dell’essere fuorilegge e costretto a dipendere da tecnici ed associazioni di categoria che fanno soprattutto i propri interessi. Ciò è perché le normative sono concepite a misura di agricoltura industriale mentre ciò che servirebbe è uno spazio legale – e dunque regole semplificate apposite – per l’agricoltura contadina e la vendita dei suoi prodotti.
Concepire, sostenere e rendere effettiva una tale legislazione – anche in attesa di un clima culturale diverso in cui norme restrittive impediscano zootecnia e pesca distruttive – significa dare spazio di mercato a prodotti di vera qualità che una volta diffusi e facilmente disponibili potrebbero fare una dura concorrenza ai cibi industriali.
Un’altra cosa che occorre è lavorare per una maggiore informazione/consapevolezza della centralità della produzione del cibo fatta in un determinato modo non solo per la qualità di ciò che si mangia (il che già basterebbe), ma per la salvaguardia del paesaggio e del territorio, per la biodiversità, per l’occupazione, le risorse idrogeologiche ecc… ecc… Una tale consapevolezza diffusa dovrebbe far accettare a sempre più persone che il cibo prodotto in un modo (a 360°) sano va pagato per il lavoro (e le rinunce) che costa e che la gente che vive in città e non può lavorare direttamente alla sorgente della riconversione complessiva che l’agricoltura bio-contadina può realizzare dovrebbe sostenerla spostando la propria capacità di spesa dai gadget consumistici tecnologici e modaioli al cibo di qualità - e magari a qualche gita per vedere le mille piccole aziende dalle quali nasce oggi del buon cibo e potrebbe rinascere domani un mondo più sano.
Risposta di Filippo Schillaci (autore firmatario del testo citato)
Nel rispondere vorrei fare alcune premesse. Innanzi tutto, il testo di Cabras tocca per almeno due terzi della sua lunghezza, temi distanti da quello su cui è concentrato il nostro lavoro: la sostenibilità ambientale dell’alimentazione. Le considerazioni a esso più pertinenti sono dunque quelle che si pongono sui due piani pragmatico e tecnico. Quelle, per così dire, filosofiche sono estranee alle tematiche che il nostro gruppo affronterà.
Aggiungo che sul piano pragmatico e nel breve periodo le mie posizioni sono molto vicine a quelle di Cabras, sul piano tecnico e nel medio periodo ne sono divergenti; sul piano filosofico e nel lungo periodo ne sono agli antipodi.
Premetto anche che credo sia il caso di non usare più termini come “vegetarianesimo” o vegetarianismo” che sanno tanto di setta religiosa o comunque di posizioni ideologiche. Non credo sia appropriato definire le mie scelte alimentari come “vegetarianesimo” più di quanto non sia appropriato, poiché ho installato sulla mia casa dei pannelli solari, parlare di “solarianesimo” o, poiché utilizzo l’acqua piovana, parlare di “pluvianesimo”. Una scelta alimentare non è un “…ismo” o un “…esimo”, è una relazione ecosistemica. Con tutte le implicazioni, anche culturali ed etiche del caso, naturalmente, ma innanzi tutto questo: una relazione funzionale fra sé e l’ecosistema di cui si è parte.
Detto ciò, comincio dal primo aspetto (pragmatico e di breve periodo). È evidentissimo che l’ipotesi di una transizione immediata dell’umanità verso un’alimentazione basata sui cibi vegetali è priva di fondamento realistico. Dobbiamo pensare piuttosto a una transizione lenta che passi attraverso fasi intermedie in cui il contributo di cibi animali sia sempre più ridotto fino a divenire residuale. Dunque lo scenario pratico proposto da Cabras nella parte finale del suo testo, se visto come fase di transizione, è esattamente quello verso cui occorre orientarsi. Il quadro generale che egli traccia inoltre è sotto ogni altro aspetto condivisibile e questa è certamente una componente positiva della sua riflessione. Purtroppo è l’unica.
Vorrei a questo punto precisare che pragmatismo non deve mai significare resa. È esatto ad esempio affermare che «la convinzione sulle ragioni del vegetarianesimo in quanto tale» non è «molto diffusa nel nostro paese, né radicata nella nostra storia e nella nostra cultura» infatti 6 milioni appena di vegetariani, di cui solo 800.000 vegani, sono appena il 10% della popolazione. Davvero pochi. Ma allo stesso modo è esatto affermare che è assente la convinzione sull’opportunità di non usare l’automobile, o sull’attuare ogni possibile accorgimento per il risparmio energetico in casa o perfino sulla corretta gestione dei rifiuti. Dunque? Rinunciamo a tutto? Non mi pare il caso.
Passiamo al secondo aspetto (tecnico e di medio periodo). Come disse Alexander von Humboldt, «uno stesso territorio può dar da vivere a un cacciatore, a dieci pastori o a cento contadini». Ora, tralasciando (speriamo) il cacciatore, e soffermandoci sul confronto pastore-contadino, dovremmo domandarci quali razionali considerazioni possono orientarci verso un modo di produrre il nostro cibo così dispendioso in termini di territorio quale è la zootecnia, sia pur praticata su scala ridottissima come lo stesso Cabras auspica. Perché scegliere un metodo produttivo dotato di un’efficienza di conversione delle proteine che è appena del 6% nei bovini e di poco più alta nelle altre specie animali? Perché fare nostra una simile cultura dello spreco? Coerentemente dovremmo accettare la legittimità di sprechi analoghi nel settore energetico, nei trasporti, nella gestione dei rifiuti e dell’acqua. Cosa resterebbe allora della cultura della Decrescita? Oppure dovremmo accettare l’incoerenza: razionali, oculati, ecosostenibili in ogni altro campo, spreconi nell’alimentazione. È autoevidente che entrambe queste alternative sono inaccettabili.
Cabras parla di destinare alla zootecnia contadina territori marginali non altrimenti destinabili. Sia pure. Ma, così come marginali sono questi territori, marginali sono questi discorsi. La realtà è che la gran parte dell’umanità vive nelle zone tropicali o temperate del pianeta, dove l’agricoltura è praticabilissima con buona produttività e l’allevamento pertanto non è necessario.
Metto a questo punto un paletto perché per quanto riguarda le tematiche pertinenti al lavoro del gruppo di MDF sull’alimentazione il discorso si pone esclusivamente in questi termini e pertanto si ferma qui. Chi è interessato a esso e solo a esso può interrompere la lettura a questo punto.
Il testo di Cabras, dicevo, allarga però enormemente l’orizzonte del discorso toccando temi ulteriori che considero prematuro affrontare ma che, essendo stati affrontati, impongono una risposta.
È riduttivo affermare che la Decrescita sia semplicemente un diverso approccio ai sistemi economici. Maurizio Pallante non perde occasione di affermare (e io concordo) che essa parte sì da una critica dell’economia dominante ma la trascende essendovi nella Decrescita implicazioni filosofiche che la rendono potenzialmente in grado di acquisire lo spessore di un nuovo rinascimento culturale. Ecco, sono proprio queste potenzialità quelle che fanno la differenza fra “un altro mondo possibile” e il classico “cambiare tutto affinché tutto resti com’era”.
Ancora Maurizio Pallante, nel rispondere a un lettore che aveva commentato un suo articolo scrisse: «quando si comincia a delineare un nuovo sistema di pensiero (…) le persone tendono a leggerlo in base ai criteri d’interpretazione fondati sul sistema di pensiero precedente e, quindi, a equivocarle».
Ecco, è questo equivoco che io vedo nelle parole di Cabras: il non concepire in termini realmente altri quell’altro mondo possibile di cui da più parti si parla per ridurlo infine a una variazione sul tema di questo stesso mondo.
Parlando di cultura contadina, dobbiamo fare attenzione infatti a distinguere fra un’attenzione analitica e critica nei confronti del patrimonio di esperienze da essa accumulate nel corso dei millenni e una mistica della civiltà contadina che si traduce in un’accettazione acritica di tutto ciò che odora di tradizione, e che è patrimonio più di correnti di pensiero come il Bioregionalismo che non della Decrescita. Questo atteggiamento pacatamente analitico risulta obbligato alla luce di qualche semplice riflessione.
È innanzi tutto irrealistico supporre che gli eventi planetari di cui siamo spettatori, protagonisti e vittime siano frutto di un’improvvisa sterzata dell’umanità, avvenuta senza preavviso in questi ultimi decenni. Non ha molto senso pensare a un’umanità che per millenni si comporta assennatamente e poi improvvisamente impazzisce e distrugge il pianeta. Noi stiamo vivendo in realtà l’esito di un processo storico plurimillenario che ebbe origine nel neolitico e si è andato evolvendo secondo un andamento analogo a quella curva esponenziale che abbiamo imparato a conoscere ai tempi dei primi studi del MIT sulla crescita: una curva che su gran parte del suo dominio cresce lentissimamente, con apparenza quieta e pacioccona, poi improvvisamente si impenna tendendo con incontrollabile rapidità, nell’astratto modo della matematica a proiettarsi verso l’infinito, nel più concreto mondo della biosfera a cozzare contro il muro dell’insostenibilità. Dico tutto ciò per chiarire come le radici di quanto stiamo vivendo oggi siano immerse proprio in certi aspetti di quella cultura contadina che troppi teorici dell’ “altro” mondo oggi osannano incondizionatamente.
È fondamentale in altre parole acquisire una visione storica di lungo periodo della genesi della società della crescita per mettersi al riparo da equivoci grossolani che possono portarci a considerare parte del nostro patrimonio culturale elementi che al contrario non ci appartengono.
Ma, si dirà, la società industriale ha distrutto la cultura contadina. Cito ancora Pallante: «Già negli anni Quaranta Schumpeter definiva “distruzione creatrice” la capacità innovativa su cui si basa la forza del capitalismo. Insomma affermava che per continuare a produrre e vendere sempre di più bisogna distruggere sistematicamente quello che si è fatto in precedenza». Bene, l’argomento di cui parliamo è un esempio di ciò: la società della crescita, proprio per questa esigenza di continua distruzione interna, ha distrutto la sua ormai inadeguata versione contadina e l’ha sostituita con la versione industriale che oggi conosciamo. Era il momento storico in cui la curva esponenziale cominciava la sua impennata, un’impennata già insita nelle premesse storiche.
Un ultimo punto riguarda l’immagine rigidamente statica che Cabras ci offre del cosiddetto ordine naturale: uno stato eterno e immutabile cui noi null’altro dobbiamo fare che adeguarci e soggiacere. E poiché quest’ordine naturale comprende in larga misura la violenza e la sopraffazione… eccetera. Anche questa è una visione vicina, più che alla Decrescita, al Bioregionalismo. Nonché, quando viene applicata anche all’interno della specie umana, al darwinismo sociale. Ripartiamo da zero e andiamo indietro nel tempo quanto basta per assistere alla nascita del primo organismo dotato di sistema nervoso centrale. Insieme a lui apparve sulla Terra quella inedita cosa che è la capacità di operare delle scelte. E poiché l’interazione individuo-ambiente è bilaterale, da quel momento le scelte di innumerevoli individui contribuirono a plasmare l’ambiente e le relazioni fra le sue parti. Ovvero contribuirono a plasmare il cosiddetto ordine naturale. E non hanno mai cessato di farlo; lo fanno ancora. Lo facciamo ancora. Voglio dire con ciò che quel che noi chiamiamo “ordine naturale” è in realtà un’entità dinamica, mutevole e che la sua fisionomia attuale né era a priori inevitabile né è oggi immutabile. E noi, tutti noi esseri senzienti, abbiamo una parte non trascurabile nel determinarne gli assetti futuri. Porre dunque l’esistenza della violenza in natura come fatto giustificatorio della pratica della violenza da parte degli uomini in quanto parte della natura è privo di fondamento. Ma di più: non è atteggiamento diverso da quello del signor Rossi che giustifica il suo inerte concedersi al sistema col dire: «cosa posso farci io? È così che va il mondo.» La differenza fra il discorso del signor Rossi e quello di Cabras è solo nella scala temporale: dalla scala dell’evoluzione sociale a quella dell’evoluzione biologica, ma a parte ciò, una volta di più, è il loro sistema di pensiero insinuatosi sotto mentite spoglie nel nostro.
Non posso inoltre fare a meno di notare che gli appelli all’ “ordine naturale” vengono sempre con riferimento alla presenza in esso di “violenza e sopraffazione”, mai ai numerosi casi di rapporti simbiotici fra le specie o di solidarietà fra membri della stessa specie, pur ampiamente esistenti all’interno dell’ “ordine naturale” presente.
Noi dunque, noi esseri senzienti, noi esseri capaci di operare scelte, possiamo scegliere. Possiamo ad esempio scegliere di somigliare all’oca selvatica, presso la quale è assente ogni forma di solidarietà al di fuori del confine della famiglia mononucleare, oppure ai tanto bistrattati topi i cui legami di solidarietà giungono al punto che le madri di una stessa comunità allevano collettivamente i figli. Entrambi sono esempi di ciò che è l’ordine naturale nella sua fase evolutiva presente. È in nostro potere dare il nostro contributo di specie a far pendere la bilancia nell’una o nell’altra direzione imprimendo così la spinta verso l’una o l’altra via, fra gli infiniti futuri possibili, alla storia a venire della vita sulla Terra. Perché l’ordine naturale, ripeto, siamo noi.
Un’ultima considerazione: il riferimento all’ “altermondista” José Bovè mi ha fatto ricordare che Bovè non è, a quanto si racconta, solo sui lupi che ritiene lecito sparare. Intervenni tempo fa a un incontro romano cui partecipava un suo seguace il quale a un certo punto, raccontando di scontri fra i gruppi francesi di Bovè e la polizia in cui da entrambe le parti si usarono armi da fuoco, deplorò che in Italia tali cose non accadessero. Ancora una volta domando: è questo il mondo che vogliamo?
Filippo Schillaci.
Mia replica a Filippo Schillaci
Caro Filippo,
ti rispondo riprendendo i tre livelli progressivi delle nostre divergenze, che riconosco pienamente.
Limitatamente al piano che definisci “pragmatico e di breve periodo” ti sembra che le nostre visioni siano in realtà sostanzialmente compatibili. Sembra anche a me. E da questo punto di vista direi che il tuo errore principale sia quello di non fermarti qui. Come ti ho detto credo sia della massima importanza fare una chiara differenza fra le scelte etiche personali e ciò che si propone come la posizione programmatica di un movimento, in questo caso quello della DecrescitaFelice, che aspiri ad aggregare consenso per incidere sulla realtà.
Dici bene che pragmatismo non vuol dire resa, ma, pragmatismo o resa, rispetto a quali obiettivi? Quando questi sono troppo ideologici o irrealizzabili, la resa può rappresentare anche il fare spazio ad un principio di realtà.
Nella fase politico-culturale in cui siamo mi sembra che una linea pragmatica sarebbe quella di proporre ipotesi di lavoro condivisibili da chi abbia a cuore in senso ampio la salute del pianeta e non solo da chi si pone su posizioni, forse anche avanzate, ma che suonano abbastanza settarie e che comunque non credo possano passare senza un adeguato dibattito.
Ora, tu rifiuti l’ “-ismo” aggiunto alla parola “vegetariano” e dici che si tratta solo di una scelta alimentare e quindi di una relazione ecosistemica. Bene. Ma, se questo vale per la scelta personale in sé (che, come ripeto, io apprezzo moltissimo anche se non la faccio mia) quando la si rivendica come la presa di posizione propria di un movimento per la trasformazione del modello di società, si passa oggettivamente sul piano dell’ideologia. E ciò è tanto più vero quando sembra che la si voglia far passare come un aspetto necessario di questa transizione mentre non lo è. Perché, se la Decrescita si pone l’obiettivo di riproporzionare le modalità di produzione e le quantità dei consumi a livelli sostenibili, ha certamente senso affermare che zootecnia e pesca industriali come si danno oggi non rientrano assolutamente in tali livelli. Ma se arriviamo a pretendere che allevamento e pesca in quanto tali siano da rifiutare “allo stesso modo delle centrali nucleari “, ci mettiamo su posizioni francamente risibili agli occhi di chiunque non sia ideologicamente predeterminato a far passare questi discorsi insieme ad altri molto più sensati – quelli propri della Decrescita – rispetto ai quali serve un ridimensionamento e un radicale cambiamento di queste attività, ma non necessariamente l’abolizione. Niente affatto, dato che il pianeta – e l’umanità con esso - potrebbe continuare a vivere in ottima salute per un tempo indefinito pur con allevamento e pesca sostenibili, come del resto è stato fino a pochi decenni fa quando per questi ancora erano usate le metodologie tradizionali.
Il problema è che attualmente il sistema sviluppista ha raggiunto una tale egemonia – anche nell’immaginario – che ciò che ne resta al di fuori viene automaticamente ignorato nelle sue specificità. Ed è per tanto facile accorpare queste attività nella loro versione tradizionale a quelle attuali industriali. Come è facile dire che riconoscere il valore di allevamento e pesca come risorsa per le realtà marginali sia esso stesso un discorso “marginale”. Nei fatti, di terre marginali ce ne stanno moltissime anche nei paesi sviluppati come il nostro come ce ne sono, nel resto del mondo, all’interno stesso delle pianure coltivate industrialmente, delle periferie delle città, in tutti gli spazi utilizzabili, piccoli e dimenticati, che sono però una risorsa per moltissime persone, marginali anch’esse, che ne traggono una sussistenza, molto spesso con l’allevamento di qualche animale da latte o da cortile o con un po’ di pesca. Anche nelle zone tropicali e temperate dove spesso si vedono modesti branchi di oche o capre e piccoli stagni autorealizzati per tenervi dei pesci tra una risaia e l’altra. Queste risorse sono importanti, anche dove l’agricoltura è prospera, per molte fasce deboli della popolazione che non hanno terra o quasi, perché la marginalità non riguarda solo i terreni, ma anche le persone. E non si deve dimenticare che gli animali avranno pure una capacità di conversione dei vegetali in proteine molto bassa, ma, allevati a livello familiare, valorizzano sostanzialmente il “nulla” in quanto possono essere nutriti con alimenti di scarto, sottoprodotti che andrebbero buttati, portati a pascolare su terreni altrimenti improduttivi, boschi, savane, rovaie, beni che altrimenti andrebbero persi comunque e sui quali l’agricoltura industriale non ha interesse a mettere le mani e che quindi restano alla portata di chi non ha sufficiente terra buona propria da coltivare (cosa che vale anche qui da noi dove un eventuale neo-contadino senza grandi mezzi finanziari può trovare una possibilità solo in territori ormai abbandonati perché considerati insufficientemente produttivi). Inoltre gli animali o i prodotti derivati (carne, formaggi) una volta venduti sono una fonte di denaro liquido (sempre il bene più difficile da ottenere per i contadini) decisamente superiore alle verdure. E, se vogliamo pensare ad un’agricoltura che sia biologica, gli animali sono indispensabili per l’apporto del letame – che li rende trasformatori di vegetali in una duplice valenza e che permette (gratuitamente) di avere una resa in cibo vegetale (anche vendibile) superiore a parità di superficie coltivata (che non è una differenza da poco per molte popolazioni povere nel mondo). Se poi vogliamo considerare quali sono le zone dove si concentra la maggior parte dell'umanità, oltre (e insieme) alle zone tropicali e temperate, queste sono le coste dove - anche lì – non tutti hanno accesso alla terra il che rende la (piccola) pesca irrinunciabile per milioni di persone.
Il piccolissimo allevamento, dunque, non solo da noi, ma nel mondo (così come la piccola pesca) sono risorse che fanno la differenza per una parte non trascurabile dell'umanità. Che sia costoro sia i terreni che utilizzano (a tutte le latitudini) siano definiti “marginali” è un concetto che appartiene ai criteri di valutazione dell’agricoltura industriale, sviluppista e destinata essenzialmente ad alimentare gli abitanti delle città: al mondo della crescita per il quale un terreno coltivato in maniera contadina è marginale già solo per questo, al di là di dove si trovi. Ed evidentemente anche per chi ha interiorizzato (magari senza rendersene conto) questi criteri, anche i discorsi che si pongono il problema di chi vive su tali terreni, sono ugualmente marginali. Faccio presente che, se oggi il mondo non è ancora andato del tutto in malora, schiacciato sotto il peso del consumismo e dei suoi effetti collaterali, ciò non è tanto perché alcune persone mettono i pannelli solari sul tetto o perché un paese piccolissimo come la Danimarca si sta per produrre tutta l’energia con l’eolico – per ottime, sacrosante, importantissime e necessarie che siano entrambe queste cose e molte altre misure di questo genere (non vorrei esser frainteso) – quanto soprattutto perché metà della popolazione mondiale vive ancora di piccola agricoltura di sussistenza, ovvero perché è composta ancora da contadini (ed anche da pastori e pescatori) che non aderiscono – che sia per scelta o per impossibilità – all’economia consumista. Non riconoscere a questo l’importanza che ha fa parte dell’incapacità propria della visione tipicamente occidentale, positivista e progressista – sempre impegnata nella sua costruzione di “mondi migliori” - di vedere a volte anche il valore semplicemente del non-fare.
Il vero problema oggi non è che nel mondo ci sono troppe persone che mangiano carne o pesce (a parte considerazioni di quantità, modalità di produzione e qualità), ma che ci sono troppe persone che vivono in città e che dipendono totalmente dal sistema consumistico. Dipendono dalla possibilità di sprecare anche solo per sopravvivere.
Dunque a me appare prioritario, di fronte a qualsiasi altra considerazione, che bisogna ci siano le possibilità economiche di sussistenza per chi ancora vive fuori da questi meccanismi per restarci e per chi ne vuole uscire per avere un’alternativa. Quest’alternativa, su scala di massa, la può dare esclusivamente l’economia contadina. Forme di economia che – al di là di come oggi potranno esprimersi esteriormente e culturalmente, e quindi a prescindere da aspetti estetici, ideologici e da qualsiasi tipo di “mistica” - possano essere definiti contadini per le loro oggettive caratteristiche strutturali e funzionali e il loro tipo di interazione ecosistemica. E perciò, se determinate attività di allevamento e pesca a livello contadino possono permettere una sussistenza (relativamente) liberata da questo sistema (e quindi costituire anche elementi di sostegno sottratti ad esso) è importante che queste ci siano, prima e al di sopra di ogni altra considerazione, se vogliamo guardare le cose in un’ottica ecosistemica e planetaria, per l'insieme dei diversi popoli della Terra nelle loro diverse condizioni e, viste le alternative, nell'interesse anche di tutte le specie viventi nel loro complesso.
Se vogliamo rimanere sulle tematiche strettamente attinenti la prospettiva economica della Decrescita, potremmo, come giustamente dici, fermarci qui.
Ma, quando si equipara ogni produzione e consumo di carne e pesce al nucleare; quando si presenta come intrinseca alla Decrescita (che mi sembra essere la via per salvare il pianeta) l'opzione vegetariana (e magari perfino vegana) la posizione è talmente manifestamente ideologica che non credo di tirarcelo io, ma è il discorso che si allarga da sé su altri piani.
Anch’io concordo con Pallante sul fatto che la visione della Decrescita non si riduce all’economia, ma ha la potenzialità di aprire una fase storica nuova al tempo stesso sul piano economico, su quello culturale e per una diversa visione del mondo. Direi anzi che, in realtà, il cambiamento che comporta la proposta della Decrescita si trovi a buon diritto in primo luogo sul piano filosofico. Però, il problema è che, se mettiamo le cose su questo piano nel presentare pubblicamente delle proposte “programmatiche”, cadiamo immediatamente nella debolezza della frammentazione. Perché, sul piano filosofico o, come dici tu, di lungo periodo, ognuno di noi può avere la sua idea – ognuna diversa dall'altra per fondamenti o anche per sfumature, che, in questi casi diventano regolarmente importantissime – ed è giusto che abbia la libertà di avercela. Io, ad esempio, posso essere convinto che la meditazione sia una pratica che, su scala di massa, sarebbe in grado di per sé di cambiare il mondo in meglio; molto più di tante altre cose. Ma non mi sognerei mai di porre questo come un punto necessario tra le proposte di un movimento che cerchi di operare una trasformazione del modello di società. Si tratta di scelte personali, sulle quali ben venga il dialogo e il confronto, ma che su questo piano devono restare. Se vogliamo attenerci ad una linea pragmatica faremmo meglio a limitarci ai punti indispensabili per riconvertire l'economia verso livelli e modalità sostenibili, che siano così oggettivamente tali da poter aggregare un consenso da più parti e poter effettivamente ottenere qualche risultato. Altrimenti staremo a definire con precisione filosofica quali sono i contenuti che appartengono peculiarmente al pensiero della Decrescita distinguendoli da quelli del Bioregionalismo o da quelli (Dio ce ne liberi) del darwinismo sociale o di quant'altro. Ma, all'atto pratico, temo non faremo che ripetere il destino – questo sì che ha una tradizione lunga e inconfondibile – delle Sinistre italiane radicali: quello di essere divise in gruppi e gruppetti, ognuna con una grande visione e mille “distinguo”.... e di contare perennemente come il due a briscola.
E mi ritrovo altrettanto nel riscontrare che, quando va prendendo forma un nuovo modo di pensare molti continuano a interpretarlo con le lenti dei concetti vecchi a cui già sono abituati. Ma il punto è capire qual è questo nuovo pensiero, perché a me pare di riscontrare questo tipo di atteggiamento equivocante proprio nelle tue parole, non nelle mie.
A chi la attribuisci questa “mistica” della civiltà contadina e di tutto ciò che “odora di tradizione”?
Non vorrei che mi proiettassi addosso l’immagine di qualcun altro. Sai, anche con le persone capita di equivocare basandosi su incontri precedenti. Io, se guardi bene, non ho “osannato incondizionatamente” proprio niente, però ho elencato una serie di caratteristiche che definiscono il modo contadino di lavorare in agricoltura (gestire il proprio lavoro indipendente e la propria interazione ecosistemica) che sono tutte di tipo funzionale e non estetico-culturale o mitologico: sono tutte caratteristiche che puoi immaginarle tanto per un contadino antico-etnico-esotico-tradizionale quanto per un neo-contadino che (per ipotesi) ama la musica rock e la sera beve birra con gli amici, divorziato (pure omosessuale se vuoi) e quant’altro. E per sgombrare il campo da altri ed eventuali equivoci ti dirò che se riconosco la realtà della violenza/sopraffazione come una componente della realtà lo dico solo come un dato di fatto e senza alcuna “mistica” di qualunque tipo la volessi immaginare – magari confinante con il darwinismo sociale o qualche altra amenità che non ha nulla a che fare con le cose di cui parlo.
È invece nel tuo modo di vedere che ci trovo, al contrario, un tipo diverso di “mistica”: la mistica del Progresso…..purtroppo un parente filosoficamente molto stretto della Crescita e dello Sviluppismo.
Un’abitudine mentale che rispunta ovunque e che impedisce ancora di andare davvero al di là della dicotomia politico-filosofica destra-sinistra. Forse soprattutto per chi viene da sinistra dato che, mentre per la destra il progresso si è sempre identificato di diritto con la volontà del potere (e quindi si è sempre concentrata – pragmaticamente - sui modi per prenderlo e mantenerlo) per la sinistra il progresso è sempre stato il fine supremo rispetto al quale il potere era solo il mezzo (diciamo, almeno per quelli ideologicamente onesti). Lo sguardo era sempre rivolto a un qualche “sol dell'avvenire”: si è sempre trattato di creare un'umanità migliore, un mondo migliore; qualcosa che andava di molto al di là delle singole piccole questioni concrete sulle quali non ci si poteva unire a chi non aveva uno stesso così nobile obiettivo. Meglio continuare a perseguire quello dunque e non perderlo di vista (la resa).....anche a costo di assistere al mondo che andava da tutt'altra parte.
Per non infrangere il tabù dell’intoccabilità del progresso si finisce troppo spesso per leggere le cose in modo fuorviante.
Ad esempio: è un fatto di facile intuizione che i semi dell’oggi fossero presenti già ieri. Certo, ma dove? Tu dici che il processo storico che porta al sistema della Crescita è iniziato nel neolitico (forse quando gruppi umani originariamente vegetariani, pacifici – ed immagino anche matriarcali, probabilmente? – avrebbero fatto un’improvvisa – questa sì – “sterzata senza preavviso” diventando cacciatori, carnivori e così poi pastori e perciò inevitabilmente guerrieri, conquistatori, monoteisti, patriarcali, fascisti, razzisti, sessisti ecc…?) e che i germi dell’industrialismo consumista attuale erano già presenti nella dimensione di vita contadina del passato. Ma, nella tua visione storica di lungo periodo, tu forse dimentichi che civiltà agricole di ogni altra latitudine nel mondo non hanno dato origine a modelli economico-social-culturali in alcun modo simili a quello dell’occidente moderno e che neanche le stesse popolazioni contadine occidentali lo hanno fatto perché non sono mai state loro ad avere le posizioni di comando né di egemonia culturale nella civiltà occidentale. Una cosa è riconoscere che la dimensione di vita che apparteneva alla gran parte della popolazione in epoca premoderna era la civiltà contadina ed altro è dire che la visione del mondo occidentale moderna e capitalista che dopo una lunga incubazione si è manifestata come sistema della crescita infinita è la fase successiva della civiltà contadina. Sarebbe come dire che un organismo devastato dai vermi è la fase successiva di quell'organismo quando era sano. Non è affatto così: è la fase successiva dello stadio larvale di quel parassita. Se poi vogliamo parlare delle componenti di avidità, inconsapevolezza, egoismo, ristrettezza mentale, aggressività che anche fanno parte della natura umana, vabbé….ma credo fossero presenti anche prima del neolitico, quanto a questo, né, temo, basti essere vegetariani per liberarsene.
Ma se è del sistema della Crescita che vogliamo parlare, questo è nato tecnologicamente dall’industrialismo ed economicamente dal capitalismo – nonché culturalmente dall’illuminismo/progressismo – tutti fenomeni propri delle classi dominanti cittadine. È nato dall’attitudine tutta occidentale, universalistica ed antropocentrica (o, se vuoi, umanista) di vedere l’essere umano come separato dalla Natura, la realtà come creazione culturale dell’uomo e per il resto come mèra materia grezza da trasformare in un mondo “migliore” a immagine e somiglianza delle proprie fantasie, aspirazioni, paure, della propria incapacità di stare anche un po’ in silenzio e contemplazione.
È del tutto falso e fuorviante dire che il sistema attuale della Crescita sia la prosecuzione in modo più “efficiente” di una sua versione precedente che ebbe forma contadina. Bisogna capire che non tutto ciò che è esistito prima di una certa data ed avesse a che fare con l’agricoltura si possa indifferentemente definire “contadino” – senza parlare del resto dell’umanità fuori dall’Europa (quasi tutti contadini anch’essi che certo non hanno “prodotto” il sistema della crescita ma l’hanno totalmente subito). Ed inoltre, di quale periodo della storia contadina dell’uomo stiamo parlando? Gli esseri umani ovunque sono stati (e sono tuttora in gran parte) contadini (e pastori e pescatori) non solo nell’ultimo secolo o due prima della rivoluzione industriale, ma per migliaia e migliaia di anni a dir poco e la loro economia è sempre stata di tipo sostanzialmente “circolare”, senza crescita e tendente al mantenimento delle risorse e degli stili di vita.
Dire che il sistema della Crescita sia la prosecuzione sotto altre spoglie di caratteristiche già insite nella civiltà contadina solo perché quest’ultima l’ha preceduta mi sembra una superficiale semplificazione, come dire che gli USA sono la prosecuzione dell’alleanza tra le tribù Sioux. E neppure si può così facilmente sorvolare sulla fortissima stratificazione sociale che c’era al momento dell’avvio del capitalismo, della rivoluzione industriale e della modernità, per la quale fenomeni che avvenivano nella stessa nazione potevano benissimo avere origini in contesti materiali e culturali propri di una classe (in questo caso quella cittadina borghese) che rimanevano del tutto estranei a quelli di un’altra (quella rurale contadina) che fu letteralmente travolta e colonizzata dai processi in atto. Questo senza “osannare”, idealizzare né misconoscere nulla. Ma - anche senza neppure entrare nel merito di giudizi di valore - non si può mischiare tutto a proprio piacimento e chiamare questo “una visione storica di lungo periodo”.
Né si possono mischiare cose che non c’entrano nulla come il Darwinismo sociale. L’errore grossolano di questa corrente di pensiero familiare al fascismo – ma a ben vedere neanche così estranea al progressismo se la misuriamo su scala mondiale – non è nel riconoscimento che anche tra le società umane si affermano in termini di dominio e di egemonia anche culturale quelle più forti e più adatte a sfruttare le circostanze a proprio vantaggio, perché questo è solo un fatto. Ma nell’attribuire a questo fatto un valore di superiorità oggettiva dei popoli/culture momentaneamente vincenti, quasi fosse il segno di una superiorità naturale e senza tener presente che in Darwin il successo evolutivo è indice di adattamento alle condizioni contingenti e non di una qualche “superiorità” (non c’è “superiorità” nella Natura: nessun “giardino dell’Eden”, nessuna “età dell’oro” né nel passato, ma neanche nel futuro). Confondere la scala temporale dell’evoluzione biologica con quella delle società umane è sempre fonte di grossi guai. Ma, anche restando sul tempo umano, dovremmo prendere atto che solo alcune società/culture tradizionali, tribali e contadine hanno saputo creare e mantenere una forma in grado di sopravvivere e durare davvero a lungo mentre grandi civiltà con i loro progetti di mondi migliori sorgevano e scomparivano. Chi è stato allora il “vincente” sul lungo periodo?
Non so però se tu, nel tirare in ballo il Darwinismo sociale, e denunciarne l’accettazione della violenza/sopraffazione come fenomeno presente nella competizione tra gruppi umani, noti anche quest’altro aspetto, della presunzione di superiorità del vincitore, che lo caratterizza.
È interessante, perché è un tema di fondo dell’ottica progressista, come lo è quello di mischiare ordine naturale ed ordine sociale, nella presunzione – questa davvero antropocentrica, anzi, prometeica – di poter agire sul primo come si può fare sul secondo (e, alla prova dei fatti storici, abbiamo visto che….. pure sul secondo,.. non è così semplice). In realtà il successo evolutivo o la durata dei modelli sociali dipende dalle circostanze storico-ambientali, perché tanto il sistema degli aborigeni australiani che il celeste impero cinese son durati molto a lungo, ma sono finiti quando le condizioni rispetto alle quali rappresentavano un adattamento funzionale sono cambiate. Un saggio modello di società dunque sarebbe quello di organizzarsi in modo da mantenere relativamente stabili (“circolari”) le proprie relazioni con l’ecosistema e con le altre società. Tutt’altra impostazione del progressismo, direi.
Mischiare la possibilità (presunta, ma diamola per buona) di agire sul sociale umano con quella di poter fare lo stesso con l’ordine naturale in base all’idea che entrambi si costruiscano a partire dalla capacità di scelta ed azione conseguente degli individui (non solo umani mi pare di capire) e non in base ai limiti consentiti da condizioni contingenti date, dà luogo, mi sembra, ad un panorama abbastanza fantasioso come in una sorta di “evoluzionismo karmico” in cui forse gli animali carnivori hanno “scelto” di essere tali, l’oca di essere un consorte geloso e possessivo (chiuso in casa con la moglie a guardarsi “Porta a Porta” forse?) e la madre topo di essere una “compagna” solidale e comunitaria e tutti insieme danno forma al mondo e concorrono alle sue tendenze evolutive un po’ come i vari gruppi socio-politico-culturali alla società. Non so… se a questo punto volessimo concludere – perdonami la volgare ironia intesa davvero solo a sdrammatizzare – che le oche saranno pure di destra, ma la topa è di sinistra, mi pare non farebbe una grinza con questo tipo di ragionamento antropomorfizzante.
In questo contesto noi umani dovremmo dunque fare la nostra parte verso il raggiungimento di un qualche progresso – dovremmo fare le nostre scelte. Fare il nostro lavoro “politico” (evolutivo) all’interno della natura: dare la forma migliore all’ordine naturale, che, in fin dei conti, siamo noi.
Ma, dire che l’ordine naturale siamo noi e che possiamo agire su di esso dandogli una forma secondo le nostre scelte (come si farebbe sulla società – sempre che questo sia possibile) equivale a dire che un ordine naturale semplicemente non esiste in quanto tale. E siamo alla solita vecchia storia progressista (ha almeno due secoli: è vecchia anche lei ormai, nonostante il nome) per cui la natura è materiale inerte per la costruzione del progresso, espressione suprema di noi umani – che poi, a ben guardare, siamo noi moderni e occidentali(/zzati), perché gli altri perlopiù se ne infischiano di queste cose.
Dunque noi possiamo migliorare il mondo e pertanto dobbiamo farlo: abbiamo un ruolo salvifico verso un livello superiore, quello del progresso (moralmente inteso).
Come c’è chi crede che per superare la crisi della crescita ci voglia più crescita (magari di un altro tipo) così c’è, a un livello diverso, chi vorrebbe risolvere gli approdi disastrosi della modernità con un nuovo progressismo. Ma mai si coglie l’occasione di capire che è da un piano del tutto diverso che occorre ripartire. Direi che è una storia che ben conosciamo, come ne conosciamo i risultati piuttosto disastrosi, proprio per por rimedio ai quali ultimamente si stanno manifestando nuove prospettive di pensiero, come quella – almeno, secondo come l’ho capita io – della Decrescita. Il tipo di rimedio (ed il tipo di ragioni) che la Decrescita va a porre non va inteso (secondo vecchie ottiche) in termini morali, ma in termini funzionali, oggettivi e pragmatici dati dai limiti fisici del pianeta.
Il pragmatismo, il limitare gli obiettivi dei movimenti e delle loro campagne a singoli temi concreti, in quest’ottica, non è dunque solo tattico, ma significa aver consapevolezza che il punto è soprattutto rimediare ai gravissimi errori umani che agiscono a tanti livelli, non puntare a costruire una qualche utopia comunque sia concepita. Limitarsi ad aggregare sostegno e consenso di diversa provenienza su una serie di punti concreti e strutturali che definiscano e realizzino un diverso modello economico già di per sé darebbe luogo ad una società molto diversa e che avrebbe soprattutto un diverso impatto (una diversa compatibilità) verso il pianeta e le altre società, mentre quanto al modo in cui ne intendiamo il significato filosofico ed i valori fondanti potremmo anche lasciare questo alla dimensione personale e relazionale di ognuno. E questo limitarsi si basa nella fiducia che nell’ecosistema pianeta Terra, nella Natura, una fondamentale sanità e saggezza c’è già, senza bisogno di missioni salvifiche umane. E ci sarebbe anche negli uomini, se un po’ più alla Natura (ed alla pura e semplice accettazione della sua biodiversità si riavvicinassero).
E qui arriviamo al punto dell’ordine naturale che è poi quello sul quale, a mio avviso, si esprime nel modo più chiaro la tua visione fondamentalmente progressista – che, nello spostarsi dal piano sociale a quello biologico/evoluzionistico/planetario si manifesta esplicitamente come una “mistica”.
E’ certamente vero che l’ordine naturale non è qualcosa di statico, dato una volta per sempre. Non c’è nulla di così “fisso” nell’universo. Ma qual’è la sua scala temporale? La Natura, come la conosciamo oggi (e pure quella che vive dentro di noi), i suoi equilibri, le sue leggi e le caratteristiche, i comportamenti – come anche i limiti – propri dei diversi esseri viventi sono il risultato della somma delle esperienze e delle interazioni di tutte le forme di vita che si sono succedute in milioni e milioni di anni condizionate a loro volta dalle leggi fisiche, chimiche, biologiche, dalla struttura del sistema solare e dell’universo ecc… Tutte cose certamente non statiche, ma che esistono (o meglio avvengono) su tempi evolutivi così lunghi che noi dobbiamo rispettarne i risultati come fossero eterni.
Sappiamo pure che la curva del tempo vicino al Sole o a Giove, a causa della loro massa, non sarebbe la stessa che sulla Terra, ma, all’atto pratico, questo ci cambia qualcosa quanto a come vivere qui?
Credo dovremmo uscire un po’ di più dall’astrattismo occidentale e ricordare che la nostra vita è in primo luogo fisica e la nostra esperienza in primo luogo empirica, e diretta.
Ed è senz’altro altrettanto vero che l’ordine naturale siamo ANCHE noi, ma anche; insieme ad un’infinità di altre cose e forme di vita molto diverse da noi – che non tutte possiamo né potremo mai comprendere del tutto. Dobbiamo rassegnarci al fatto che la realtà – nonostante la nostra evoluta intelligenza – va infinitamente al di là di noi. E che perfino al nostro interno la nostra parte cosciente, pensieri, opinioni, aspirazioni, sentimenti ecc… è solo una frazione parzialissima di ciò che siamo. Siamo parte dell’ordine naturale soprattutto come corpo, energia, vita: qualcosa in cui l’aspetto teorico, culturale e ciò che sta nella nostra capacità di scelta e di controllo è limitatissimo e non riguarda le cose fondamentali. È veramente un’ingenuità moderna e progressista credere di poter trattare con l’ordine naturale delle cose come con le nostre analisi sulla società.
Non è un caso che ogni sorta di utopia sociale non si sia mai realizzata. Perché, non solo erano insufficienti i presupposti al livello dell’analisi dell’ordine sociale, ma anche quelli (spesso del tutto assenti) relativi al nostro posto nell’ordine naturale. Forse è proprio questione in primo luogo di mettere un po’ d’ordine: noi umani apparteniamo alla Natura e non viceversa, tanto è vero che potremmo benissimo scomparire senza danno per l’insieme del pianeta (anzi)….e figuriamoci poi per l’universo. Bisogna riconoscere che la nostra condizione di base è un ordine naturale che ci comprende e che ha preso forma – dinamicamente – in un tempo immensamente più ampio della nostra comprensione (quella reale, non quella teorica della curva del tempo su Saturno). Quando condizioni e risposte si sono ripetute funzionalmente fino a diventare una costante si sono manifestano delle “leggi” o caratteristiche della realtà che sono quelle della vita su questo pianeta. Per noi umani queste cose sono fondamentali, eterne – anche se sulla scala dell’universo possono essere momentanee e potranno cambiare. Quel giorno noi, anche come specie – e probabilmente il nostro stesso pianeta – non ci saremo più da un pezzo.
Queste “leggi” ci assegnano certi “limiti” solo all’interno dei quali - è evidente che a questo punto siamo molto al di là del discorso vegetariani o meno - possiamo vivere armonicamente con il mondo e con noi stessi. Queste “leggi” dobbiamo comprenderle, vederne l’impersonale intelligenza intrinseca e ad esse imparare ad adeguarci. Non c’è altro da fare.
Poi, sulla base di questo – cosa per la quale occorre prima sapersi fermare e cercare di capire – possiamo agire e lavorare per cercare di modificare le nostre società nel modo più giusto ed equilibrato secondo il punto di vista di noi umani (o quantomeno della maggior parte possibile). Ma si tratta di una cosa che – a parte i danni che altrimenti potremmo fare e che stiamo facendo – non è di così grande rilevanza per l’insieme della vita sul pianeta.
Qui sta la “piccola” differenza tra il mio atteggiamento e quello del sig.Rossi, caro Filippo, la cui equiparazione, scusami, ma mi sembra sia una cosa che sta, come si suol dire, “fuori dalla grazia di Dio”. E’ come equiparare un monaco zen che medita in un monastero ed un autistico grave in un ospedale psichiatrico perché entrambi passano delle ore immobili senza cambiare posizione.
Laddove il proverbiale sig.Rossi si adegua ad un ordine che lo danneggia, ma che in certa misura gli appartiene, lo riguarda direttamente e che lui di fatto contribuisce a creare e/o a mantenere e dunque effettivamente potrebbe cambiare (almeno per l’effetto che ha su sé stesso), l’ordine naturale è qualcosa a cui noi apparteniamo, che è la nostra stessa natura – che ce ne rendiamo conto, e che ci piaccia, o no – che si trasforma su una scala temporale sulla quale noi non possiamo intervenire se non a livelli inconsci, genetici, su quel piano in cui il corpo e la mente sfumano l’uno nell’altra e ai quali ci possiamo cominciare ad avvicinare solo quando cominciamo a fermarci, porre fine ai danni che creiamo con i nostri sogni prometeici e a pensare un po’ alla qualità della nostra vita reale attuale (e non quella di un radioso domani) e cambiare in essa ciò che va cambiato a partire dalla base di un riconoscimento profondo nella Natura e nel suo ordine.
Possiamo riconoscere ed onorare l’infinita serie di esperienze ed interazioni e dunque la saggezza della quale è forma, cercare di capirlo per quanto possiamo ed interagire con esso nel modo meglio armoniosamente inserito possibile adeguandoci alle sue caratteristiche.
Sulla base di questo fondamentale adeguamento, limitatamente a ciò che può essere “inventato” all’interno del nostro mondo sociale e culturale – che è la forma di adattamento evolutivo propria della nostra specie umana – possiamo esercitare la nostra ampia facoltà di scelta che non è piccola, a cui non dobbiamo rinunciare e che certo non va sprecata.
Non senza seguire il principio che ha prodotto sempre tutte le forme di questa storia evolutiva senza direzione: quello di rispondere alle circostanze e rispettare un senso della misura e delle proporzioni.
Non solo per limitare il “peggio”, ma anche per limitare le pretese di “meglio”, che hanno fatto – proprio con le migliori intenzioni – già troppi danni.
Essere appieno ciò che già siamo realizzando noi stessi all’interno dei limiti del posto che ci è proprio secondo l’armonia degli equilibri ecosistemici.
E vivere, senza metterci dell’altro sopra, è l’ordine naturale.
domenica 31 ottobre 2010
sabato 23 ottobre 2010
Presentazione della Carta per il rinascimento della campagna
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di Vandana Shiva
Anche se potete pensare che i nostri contadini indiani siano al sicuro nelle loro libertà, devo ricordare che le stesse leggi e politiche che hanno distrutto le basi su cui si reggevano i piccoli contadini in Italia, gli stessi processi sono stati avviati anche in India in questo periodo e i nostri sforzi e la nostra lotta è la stessa, per una medesima libertà.
Sono tre i processi coi quali le libertà dei contadini sono soffocate: il primo è il furto dei semi, la trasformazione dei semi in un prodotto industriale e attraverso questo in proprietà intellettuale di cinque società monopolistiche mondiali per mezzo dell’ingegneria genetica e dei relativi brevetti.
In Europa alcune di queste libertà sono state spazzate via senza che la gente se ne accorgesse. Ma quando in India hanno tentato di introdurre i brevetti sui semi o imporre la coltivazione di sementi registrate, facendo in modo che lo stato acquistasse il potere di dare il permesso al contadino di coltivare o meno un dato seme, abbiamo cominciato un grande movimento gandhiano che abbiamo chiamato il satyagraha dei semi, un po’ come il satyagraha del sale.
Ricordate che quando gli inglesi decisero di istituire il monopolio del sale, Gandhi fece una marcia fino alla riva del mare e disse che avevamo bisogno del sale per la nostra sopravvivenza: la natura ce lo dà gratis, ci faremo il nostro sale e non permetteremo che farsi il sale diventi un reato. Ci siamo ispirati a quell’episodio e abbiamo detto: «La natura ci da gratis la biodiversità e i nostri antenati da tempo immemorabile hanno migliorato queste varietà usandole, sappiamo a chi e come possono dare da mangiare, non permetteremo che conservare e scambiare i nostri semi diventi un reato». Gandhi ha anche detto che è solo se ci facciamo dominare da leggi ingiuste che le leggi ingiuste possono stare in vigore. Perciò la Carta per il Rinascimento agricolo che viene proposta qui contiene la decisione di non essere governati da leggi ingiuste. E ricordo che il Manifesto dei semi che abbiamo scritto insieme alla Commissione Internazionale sul futuro del cibo ha fatto sì che la Regione Toscana applicasse queste regole della libertà per il contadino di avere le proprie varietà e scambiarle liberamente.
Il secondo sistema col quale il piccolo contadino viene mandato a gambe all’aria o riempito di un numero insopportabile di regole è il falsissimo argomento della sicurezza alimentare. Eppure tutti gli attentati alla nostra sicurezza alimentare vengono dai processi industriali. I danni vengono dalle sostanze chimiche messe dalle industrie negli alimenti, dai pesticidi usati per coltivare a macchina le piante alimentari, dalle sostanze chimiche usate per trasformare gli alimenti e dalle condizioni in cui vengono allevati gli animali nei capannoni delle fabbriche. Ovviamente molti alimenti sono prodotti in processi industriali, dove migliaia di galline e migliaia di mucche sono tenute insieme in capannoni nelle condizioni ideali per lo svilupparsi di malattie.
Flagelli come la mucca pazza e l’influenza aviaria sono stati generati dai processi industriali ma queste leggi di falsa sicurezza non ne tengono conto e provocano due conseguenze.
Per prima cosa impongono i parametri industriali sul singolo piccolo contadino per impedirgli di essere libero e perciò di essere vitale. E la seconda cosa che fanno è distruggere i piccoli contadini privilegiando questi parametri e rendendoli obbligatori per tutta l’agricoltura e la società.
Voglio fare solo due esempi.
Nel 1998 l’industria della soia negli Stati Uniti decise di impadronirsi del mercato mondiale dell’olio alimentare, ma già all’epoca la maggior parte della soia coltivata negli USA era geneticamente manipolata. In India abbiamo degli oli meravigliosi, non abbiamo olio d’oliva ma abbiamo il nostro olio di senape, abbiamo l’olio di sesamo, l’olio di cocco e ogni cucina regionale decide liberamente l’olio da usare in base alle piante che si coltivano tradizionalmente nella zona.
Così nel Kerala c’è l’olio di cocco, nell’India settentrionale l’olio di senape ecc. I gruppi di pressione legati all’industria della soia hanno manipolato la nostra situazione e sono riusciti a ottenere, dai governanti e funzionari ai vari livelli, la messa al bando degli oli indiani non ottenuti industrialmente ma prodotti nei frantoi a freddo dei villaggi. Questi frantoi funzionano in certi casi con un solo animale e un contadino può portarci a frangere anche un quintale di semi appena. È l’olio più puro, sicuro e naturale che possa esistere. Porti i tuoi semi oleosi, le tue noci, il tuo cocco e tutto succede lì davanti ai tuoi occhi, e ti riprendi il tuo olio. Il frantoiano non può far altro, è suo interesse, che proteggere la sicurezza dell’olio anche perché si prende la sua percentuale. È un’economia senza denaro e i tuoi occhi comunque sono là a garantirne la sicurezza. Non c’è bisogno di polizia, di controlli esterni, perché le persone che vivono con te nei villaggi non saranno loro a consentire che si peggiori la qualità dell’olio. Ma sono riusciti a bandire questi oli. Allora ho cominciato un satyagraha, un movimento di disobbedienza civile. Ho chiamato il presidente del Consiglio dei Ministri a Delhi e gli ho detto:»Hai messo al bando i nostri oli tradizionali e i contadini dei villaggi sono in marcia; dicono che non possono mangiare cibi cotti con l’olio di soia. I nostri bambini non mangiano quella roba, vanno a letto con la fame, fai qualcosa.» Siamo arrivati marciando a migliaia nelle vie di Delhi, abbiamo rovesciato la soia nelle strade e abbiamo avvisato che avremmo violato il bando e disobbedito ai divieti, avremmo prodotto l’olio più sano di tutti: l’olio di senape. «E voglio che tu riceva in dono la prima bottiglia». Il Primo ministro ha perso il posto ma l’olio si è salvato. La legge è ancora là sulla carta ma non può essere usata per minacciare la gente e costringerla a abbandonare le sue coltivazioni tradizionali.
L’altro caso lo si è visto in televisione tutti i giorni per diverso tempo: si tratta della folle gestione dell’influenza aviaria. L’influenza è cominciata nei capannoni degli allevamenti industriali di polli ma si sono visti regolarmente uomini vestiti di tute lunari scendere nei villaggi, arraffare le galline e macellarle: in Vietnam, in Tailandia, in Indonesia, in Birmania, in India, perché l’Asia è l’ultima riserva di galline che vivono libere.
Le grandi società hanno usato la diffusione dell’influenza aviaria provocata da loro affinché, invece di chiudere gli allevamenti industriali di polli, venissero vietate le galline libere e fatti chiudere gli allevamenti all’aperto.
Parlando di galline mi viene in mente una conversazione che ho avuto con un giovane amico tedesco nella quale ci siamo resi conto che i piccoli contadini in India sono come le galline in libertà, che sanno come tirar su i propri vermi, cosa mangiare, sanno vivere senza un capitale e senza una gabbia. E il piccolo coltivatore diretto europeo è come una gallina di un allevamento industriale a cui è stato fatto credere che la gabbia è l’unico posto dove si può stare. Ma adesso dobbiamo mettere insieme i movimenti, il nostro delle galline libere per evitare di esser spinte dentro le batterie industriali e il movimento di voi che siete stati in gabbia e volete venir fuori all’aperto, perciò il nostro luogo d’incontro è la porta dell’allevamento in batteria dove voi rifiutate di restare e noi rifiutiamo di entrare, così che insieme possiamo, uniti, riprenderci e difendere le nostre libertà.
La Carta per il Rinascimento e la liberazione del piccolo contadino che si presentata qui è molto importante per i contadini di tutto il mondo e vorrei trasformare questo in un dibattito globale in modo che, come abbiamo preparato un manifesto sul futuro del cibo e sul futuro dei semi, si prepari anche un manifesto sul futuro del piccolo contadino in quanto dichiarazione della nostra libertà e indipendenza. Questa dichiarazione è diventata un imperativo scientifico, una necessità per poter far arrivare il cibo alla gente, una necessità per proteggere il pianeta.
La libertà del piccolo contadino non assomiglia alla libertà delle società monopolistiche multinazionali.
Le società si prendono la libertà allo scopo di inquinare, avvelenare, distruggere. Quando i piccoli contadini si prendono la libertà lo fanno per nutrire il mondo e questo diventerà sempre più importante nei prossimi anni.
La stessa industria che dieci anni fa’ tentò di costringerci a bere, mangiare e cucinare con il suo olio di soia geneticamente modificato, oggi trova più vantaggioso, a causa dei sussidi governativi, usare quell’olio come carburante per le macchine. Tutta questa nuova corsa alla produzione industriale di biocarburanti invece di alimenti dalle piante, ha fatto raddoppiare i prezzi del cibo. Secondo i miei calcoli non c’è abbastanza terra nel mondo per sostituire i carburanti fossili necessari a far funzionare il sistema industriale.
Se il prezzo del cibo è raddoppiato in un anno è segno che non ci sarà da mangiare per la gente. Voi avete l’aumento della pasta, il Messico l’aumento delle tortillias, noi abbiamo l’aumento dei chapati e del riso e i prezzi degli alimenti hanno superato le capacità di spesa del 60% dell’umanità.
Quello che nessun governo è in grado di controllare è la rabbia della gente quando i prezzi degli alimenti non sono più alla sua portata. Perciò assisteremo a una crescente instabilità sociale e in questo contesto il piccolo contadino, le produzioni locali, la distribuzione su piccola scala a livello locale, la vendita diretta, sono la sola sicurezza futura, se non le ricostruiamo non ci sarà nessuna sicurezza alimentare. Ecco perché il piccolo contadino deve essere libero: affinché il resto della società possa essere liberata dal pericolo della fame.
È per questa ragione che dobbiamo difendere con decisione i piccoli contadini e la loro libertà, proprio per i prezzi che, senza di loro, il pianeta sarebbe costretto a pagare, compresa la catastrofe climatica e il caos. Secondo le ricerche che ho fatto in occasione del nuovo manifesto sul futuro del cibo in un periodo di cambiamento climatico, circa il 25% delle emissioni di gas serra che stanno cambiando il clima dipendono dal modo con cui vengono prodotti e distribuiti gli alimenti.
Se lavoriamo in modo ecologico, con piccole aziende agricole locali, possiamo eliminare da un giorno all’altro il 25% delle emissioni.
In questo impegno, coloro che si sono battuti dalla parte della terra, che hanno lavorato per il suolo, coloro che capiscono l’ecologia dei processi in agricoltura, troveranno nelle piccole realtà agricole e nella coltivazione ecologica il vero sbocco del movimento ecologista.
Sfortunatamente molti amici dei nostri movimenti che lavorano seduti negli uffici, con le carte, costruendo le campagne di mobilitazione, improvvisamente sono nel panico per il cambiamento climatico. Ma da ora in poi sarà il movimento per i piccoli contadini la guida nell’indicare i veri obiettivi ecologici per cui operare.
La passata generazione dei movimenti ecologisti è obsoleta per il nostro tempo, con le loro concezioni di una natura selvatica e senza gli esseri umani, non possono più essere liberanti, possono solo peggiorare la situazione. Perciò il movimento per i piccoli contadini è il solo movimento ecologista autentico e reale oggi nell’offrire soluzioni agli enormi problemi che abbiamo davanti.
La terza ragione per cui abbiamo bisogno di questo rinascimento dell’agricoltura fondato sul piccolo contadino è perché si tratta di un imperativo scientifico.
Sono una scienziata e considero un abuso trattare nello stesso modo l’agricoltura chimica e quella biologica, l’industria degli affari della Carghill nei campi come l’agricoltura di un piccolo contadino. Le azioni sono diverse, i metodi sono diversi, e i prodotti che ne risultano sono diversi. L’unica cosa che la scienza esige è la capacità di distinguere fra cose diverse. Non è scienza quando cose diverse sono messe nella stessa scatola e trattate come un’unica cosa. Alimenti contaminati chimicamente, cibi che hanno viaggiato per migliaia di chilometri producendo enormi quantità di emissioni di ossido di carbonio non possono essere trattati come i cibi coltivati con cura e amore e distribuiti faccia a faccia nell’ambito dei rapporti umani di una comunità. Sono diversissimi nella loro condizione e sono diversissimi nelle loro qualità intrinseche.
Abbiamo bisogno di dare riconoscimento al buon cibo, abbiamo bisogno della libertà di evitare i cibi cattivi.
Sono consapevole che tutta l’offensiva contro la buona agricoltura, e la buon agricoltura si basa necessariamente sul piccolo contadino, ha tre origini.
Una è il paradigma industriale, il modo industriale di guardare al mondo, di vederlo come una macchina, cioè la visione meccanicistica; la seconda viene dal fatto che da tempo si è formata una discriminazione culturale contro coloro che producono il cibo, considerato il lavoro di minor valore e io penso che sia giunto il momento nell’evoluzione umana in cui questo lavoro deve cominciare ad essere considerato il più importante, la maniera più alta di vivere e servire la terra e la gente: si tratta di una questione culturale. E la terza origine viene dalle grandi società internazionali solo avide che manipolano i regolamenti e le leggi, e in totale consapevolezza snaturano il sistema della libertà economica per instaurare il loro monopolio. E noi dobbiamo affrontare tutte e tre questi motivi. Dobbiamo affrontare il paradigma industriale, meccanicista, dobbiamo affrontare l’esclusione culturale contro le aree agricole. E naturalmente dobbiamo affrontare le società monopolistiche, le loro bugie e le loro distorsioni della realtà.
Se io potessi morire dopo che avremo riportato i contadini al centro del pensiero economico e al centro del rispetto sociale, avrei vissuto una vita degna di essere vissuta.
E stando seduti in questa bellissima sala rinascimentale, con la frase «provando e riprovando» scritta qua sopra, non dimentichiamo che mentre le regole che hanno distrutto la terra e il suolo manifestano il proprio fallimento, abbiamo di nuovo bisogno del contadino, di ricostruire i nostri poderi, di provarci e riprovarci ancora senza mai stancarsi. Nella storia l’insaziabile avidità degli imperi ha distrutto la terra, ha distrutto l’economia agricola ed è stata il fondamento della loro rovina e poi di nuovo il suolo recupera e le comunità agricole rinascono. Così proviamo e proviamo di nuovo: è già successo, dobbiamo continuare a farlo, ma siamo in un momento unico della storia per dare inizio a questa chiamata al Rinascimento agricolo nelle campagne.
CARTA PER IL RINASCIMENTO DELLA CAMPAGNA
E DELLE LIBERTÀ ORIGINARIE DEI CONTADINI E DEI POPOLI INDIGENI
PRINCIPI
L’agricoltura con le attività forestali è indispensabile alla sopravvivenza umana.
La campagna provvede a tutti i bisogni fondamentali di acqua, aria, biodiversità, cibo, energia, fibre (cotone, lana, lino ecc) e a tutti i materiali da costruzione.
La terra è sacra, non l’abbiamo fatta noi. È la dimora naturale di ogni essere vivente.
Sulla terra si fonda l’identità delle comunità umane se non è alienata, frammentata e non è basata su mere considerazioni utilitaristiche.
Il suolo su cui camminiamo è mescolata la polvere dei nostri antenati; i nostri corpi, morendo, arricchiscono la terra dimostrando che essa non ci appartiene ma noi apparteniamo alla terra.
La campagna è una comunità vivente di innumerevoli organismi e come un corpo deve essere nutrita, curata, fatta riposare. Si parla con lei attraverso il proprio corpo.
La campagna è essenziale per rigenerare la società umana, perciò occorre arricchire le campagne, riscoprendone la sacralità.
Tutte le civiltà si basano sull’agricoltura, compresa quella industriale, ma nessuna è stata così distruttiva per la natura come la nostra che è perciò la più fragile di tutte.
Le tecnologie industriali applicate alla terra — prodotti chimici di sintesi come diserbanti, concimi chimici, anticrittogamici, macchine a energia fossile, sementi geneticamente manipolate, monocolture di merci per il mercato internazionale, che modificano il paesaggio per renderlo funzionale alle macchine — non sono agricoltura ma attività industriali, e non devono godere di privilegi per “pubblico interesse”.
Il furto anche di una sola mela è un reato punito penalmente, ma il saccheggio sistematico dell’eredità genetica e l’inquinamento dei cicli alimentari con conseguenze immense sulle popolazioni, non è considerato illegale dai governi, eppure viola i diritti fondamentali di tutti i popoli. Non c’è profitto derivante da questa distruzione che possa giustificarla.
La terra non è e non sarà mai una merce. È un bene comune. Il suo destino naturale è l’uso e il godimento comune.
Comune è l’aria che gli alberi e i venti rendono pura, comune è l’acqua che le radici delle piante, le rocce, le cascate rendono potabile e salutare come nessun impianto tecnologico può fare, comune è l’humus che si forma sotto gli alberi e nei campi ben coltivati perché arricchisce la catena alimentare, la quale è comune anch’essa insieme al polline dei fiori e a tutto ciò che serve a far vivere gli insetti, gli uccelli, gli animali e le piante selvatiche, delle quali comuni sono i semi spontanei così come quelli delle piante coltivate, selezionate dall’opera di tanti contadini e comunità indigene anonime che da sempre hanno lasciato in eredità gratuita a tutte le generazioni i risultati delle loro fatiche e scoperte. Comune infine è la terra per le popolazioni tribali. Ma anche nelle società contadine in cui è ben instaurata la proprietà privata, restano forme di usi civici e comuni sono le strade vicinali, la rete dei fossi, le sponde dei fiumi e i ruscelli, l’uso delle sorgenti liberamente aperto alla sete dei vicini e dei viandanti.
Coloro che conservano e trasmettono questa ricchezza insostituibile, obbedendo alle leggi naturali di alimentazione delle piante, migliorando la depurazione naturale e l’accumulo delle acque nelle falde, aumentando l’assorbimento di anidride carbonica e di acqua nelle biomasse sotto forma di humus, arricchendo i suoli, neutralizzando e trasformando le sostanze tossiche in utili e sane, proteggendo la terra dall’erosione, aumentando e migliorando la qualità degli alimenti per se stessi e le comunità locali, imprimendo sul paesaggio i segni della bellezza domestica, svolgono il lavoro fondante il pubblico interesse. Questo lavoro precede e supera quello degli stati e delle organizzazioni internazionali.
I contadini e i popoli indigeni non sono produttori di merci, sono guardiani della terra e della nostra sopravvivenza comune. Producendo beni strategici per la loro sussistenza, nutrono il paesaggio e lo umanizzano, cioè lo rendono domestico per la comunità di esseri, viventi o meno, a cui apparteniamo.
Le culture contadine e indigene sono orali, perché si basano su un’intelligenza e intuizione analogica e simbolica diretta, un linguaggio comune con la natura: scrivono nel paesaggio, con le piante, gli animali, gli strumenti e i beni che producono, non sulla carta. Nel loro operare lasciano spazio alle voci e al silenzio di tutti gli esseri viventi.
Le comunità contadine e tribali applicano l’etica della sussistenza, cioè soddisfano i loro bisogni essenziali direttamente dalla natura, rispettandone l’ordine, in economie locali di circuito, fondate su pratiche di coltivazione e uso della terra ereditate da saperi e abilità ancestrali che comportano l’impegno continuo a mantenere e ricostruire equilibri naturali, sociali e culturali. Il ciclo alimentare è per sua qualità intrinseca locale, finalizzato alla sussistenza.
DOVERI NATURALI
Il lavoro dei piccoli contadini e dei popoli tribali che obbediscono all’etica della sussistenza, in quanto la protezione e cura che dedicano ai loro luoghi ha effetti sul mondo intero, adempie ai seguenti doveri:
- conservare e arricchire il suolo, usando le biomasse per moltiplicare l’humus;
- favorire il manto vegetale perenne sia di leguminose che di siepi e alberi, rispettando la necessaria e salutare convivenza del maggior numero di specie;
- aumentare la capacità di assorbimento delle acque nel suolo, nelle falde e sorgenti e proteggerne la potabilità locale e gli altri usi comuni;
- curare i suoli tramite la manutenzione e adattamento di fossi, viottoli, muri a secco, ciglionature, strade vicinali, campi terrazzati ecc.
- migliorare le varietà e il ripopolamento delle specie vegetali e animali adattate ai luoghi aumentando così la biodiversità ed evitando le monocolture;
- curare la pulizia delle loro abitazioni, la salute dei loro alimenti e territori che abitano senza prodotti tossici, di sintesi e di plastica;
- produrre alimenti ugualmente sani per se stessi e per gli altri;
- rispettare la sovranità alimentare, cioè l’autosufficienza regionale: infatti solo se ogni popolo si nutre coi prodotti della sua terra è sicuro della sua indipendenza politica e di non rubare alimenti agli affamati dei paesi poveri;
- fare la manutenzione delle parti comunitarie della terra, dell’accessibilità dell’acqua da bere per la sete dei viandanti, delle strade vicinali, dei boschi e degli altri percorsi tradizionali;
- praticare e trasmettere le loro culture orali, che non escludono nessun essere vivente, e difendono il silenzio come diritto di uso civico;
- tendere allo stadio climax e alla massima simbiosi degli esseri umani con le altre forme viventi e i loro sostrati minerali.
DIRITTI NATURALI DEI CONTADINI E DEI POPOLI INDIGENI
Conseguentemente, chi opera sulla terra in violazione dei suddetti doveri non può vantare alcun diritto di precedenza e non può indennizzare le popolazioni con esborsi economici ma solo ripristinando l’ecosistema locale o bacino imbrifero nelle condizioni precedenti ai danni.
Chi opera sulla terra per fini di profitto esercita un’attività industriale e deve essere sottoposto a ogni regolamento, certificazione, controllo sanitario ecc. riservato a tali attività, rispettando tassativamente i limiti imposti dalle leggi nelle forme indicate dallo stato in cui opera. Gli Stati agiscono illegittimamente ogni volta che garantiscono alle imprese industriali diritti che sono in conflitto coi diritti tradizionali dei contadini.
A coloro che, anche soltanto su un fazzoletto di terra, assolvono i suddetti doveri appartengono i seguenti diritti originari, inalienabili e imprescrittibili:
1) il diritto di conservare la prosperità e la natura comunitaria della terra che rende immorale e illecito ogni e qualsiasi esproprio, anche per pubblica utilità, in quanto la pubblica utilità di chi esercita i doveri di cui sopra è superiore a ogni altra utilità;
2) il diritto all’analfabetismo, cioè il diritto di vivere e comunicare per mezzo di una cultura orale in tutto ciò che riguarda la campagna e le sue opere, il che comporta il divieto di obblighi scritturali o elettronici o certificatori di alcun genere per le attività contadine che saranno esclusivamente a carico degli uffici burocratici, per i popoli tribali ciò comporta anche il divieto di pretendere una documentazione scritta di proprietà della terra, bastando l’uso prolungato ab immemorabili;
3) il diritto alla gratuità dello scambio e della selezione dei semi che comporta il divieto di brevettare esseri viventi ancorché manipolati dalla scienza e dalla tecnica. Le varietà adattate ai luoghi fin da tempo immemorabile sono state il risultato attività svolte gratuitamente per il bene della comunità;
4) il diritto di accesso all’acqua e il divieto di qualsiasi attività che comprometta le falde, privatizzi le acque e ne riduca la disponibilità per i piccoli contadini, le popolazioni indigene o gli residenti/utenti;
5) il diritto al regime di esenzione dalle norme igieniche imposte dai governi: gli organismi sanitari di controllo hanno l’onere della prova nel caso sostengano che specifiche pratiche tradizionali adottate dall’agricoltura contadina provochino danni alla salute del suoi utenti.
6) il diritto al regime di esenzione dalle norme commerciali in quanto le attività di vendita diretta al pubblico e a dettaglianti da parte dei contadini e indigeni sono sempre state libere e non considerate attività commerciali.
Giannozzo Pucci, Vandana Shiva, Wendell Berry, Maurizio Pallante
di Vandana Shiva
Anche se potete pensare che i nostri contadini indiani siano al sicuro nelle loro libertà, devo ricordare che le stesse leggi e politiche che hanno distrutto le basi su cui si reggevano i piccoli contadini in Italia, gli stessi processi sono stati avviati anche in India in questo periodo e i nostri sforzi e la nostra lotta è la stessa, per una medesima libertà.
Sono tre i processi coi quali le libertà dei contadini sono soffocate: il primo è il furto dei semi, la trasformazione dei semi in un prodotto industriale e attraverso questo in proprietà intellettuale di cinque società monopolistiche mondiali per mezzo dell’ingegneria genetica e dei relativi brevetti.
In Europa alcune di queste libertà sono state spazzate via senza che la gente se ne accorgesse. Ma quando in India hanno tentato di introdurre i brevetti sui semi o imporre la coltivazione di sementi registrate, facendo in modo che lo stato acquistasse il potere di dare il permesso al contadino di coltivare o meno un dato seme, abbiamo cominciato un grande movimento gandhiano che abbiamo chiamato il satyagraha dei semi, un po’ come il satyagraha del sale.
Ricordate che quando gli inglesi decisero di istituire il monopolio del sale, Gandhi fece una marcia fino alla riva del mare e disse che avevamo bisogno del sale per la nostra sopravvivenza: la natura ce lo dà gratis, ci faremo il nostro sale e non permetteremo che farsi il sale diventi un reato. Ci siamo ispirati a quell’episodio e abbiamo detto: «La natura ci da gratis la biodiversità e i nostri antenati da tempo immemorabile hanno migliorato queste varietà usandole, sappiamo a chi e come possono dare da mangiare, non permetteremo che conservare e scambiare i nostri semi diventi un reato». Gandhi ha anche detto che è solo se ci facciamo dominare da leggi ingiuste che le leggi ingiuste possono stare in vigore. Perciò la Carta per il Rinascimento agricolo che viene proposta qui contiene la decisione di non essere governati da leggi ingiuste. E ricordo che il Manifesto dei semi che abbiamo scritto insieme alla Commissione Internazionale sul futuro del cibo ha fatto sì che la Regione Toscana applicasse queste regole della libertà per il contadino di avere le proprie varietà e scambiarle liberamente.
Il secondo sistema col quale il piccolo contadino viene mandato a gambe all’aria o riempito di un numero insopportabile di regole è il falsissimo argomento della sicurezza alimentare. Eppure tutti gli attentati alla nostra sicurezza alimentare vengono dai processi industriali. I danni vengono dalle sostanze chimiche messe dalle industrie negli alimenti, dai pesticidi usati per coltivare a macchina le piante alimentari, dalle sostanze chimiche usate per trasformare gli alimenti e dalle condizioni in cui vengono allevati gli animali nei capannoni delle fabbriche. Ovviamente molti alimenti sono prodotti in processi industriali, dove migliaia di galline e migliaia di mucche sono tenute insieme in capannoni nelle condizioni ideali per lo svilupparsi di malattie.
Flagelli come la mucca pazza e l’influenza aviaria sono stati generati dai processi industriali ma queste leggi di falsa sicurezza non ne tengono conto e provocano due conseguenze.
Per prima cosa impongono i parametri industriali sul singolo piccolo contadino per impedirgli di essere libero e perciò di essere vitale. E la seconda cosa che fanno è distruggere i piccoli contadini privilegiando questi parametri e rendendoli obbligatori per tutta l’agricoltura e la società.
Voglio fare solo due esempi.
Nel 1998 l’industria della soia negli Stati Uniti decise di impadronirsi del mercato mondiale dell’olio alimentare, ma già all’epoca la maggior parte della soia coltivata negli USA era geneticamente manipolata. In India abbiamo degli oli meravigliosi, non abbiamo olio d’oliva ma abbiamo il nostro olio di senape, abbiamo l’olio di sesamo, l’olio di cocco e ogni cucina regionale decide liberamente l’olio da usare in base alle piante che si coltivano tradizionalmente nella zona.
Così nel Kerala c’è l’olio di cocco, nell’India settentrionale l’olio di senape ecc. I gruppi di pressione legati all’industria della soia hanno manipolato la nostra situazione e sono riusciti a ottenere, dai governanti e funzionari ai vari livelli, la messa al bando degli oli indiani non ottenuti industrialmente ma prodotti nei frantoi a freddo dei villaggi. Questi frantoi funzionano in certi casi con un solo animale e un contadino può portarci a frangere anche un quintale di semi appena. È l’olio più puro, sicuro e naturale che possa esistere. Porti i tuoi semi oleosi, le tue noci, il tuo cocco e tutto succede lì davanti ai tuoi occhi, e ti riprendi il tuo olio. Il frantoiano non può far altro, è suo interesse, che proteggere la sicurezza dell’olio anche perché si prende la sua percentuale. È un’economia senza denaro e i tuoi occhi comunque sono là a garantirne la sicurezza. Non c’è bisogno di polizia, di controlli esterni, perché le persone che vivono con te nei villaggi non saranno loro a consentire che si peggiori la qualità dell’olio. Ma sono riusciti a bandire questi oli. Allora ho cominciato un satyagraha, un movimento di disobbedienza civile. Ho chiamato il presidente del Consiglio dei Ministri a Delhi e gli ho detto:»Hai messo al bando i nostri oli tradizionali e i contadini dei villaggi sono in marcia; dicono che non possono mangiare cibi cotti con l’olio di soia. I nostri bambini non mangiano quella roba, vanno a letto con la fame, fai qualcosa.» Siamo arrivati marciando a migliaia nelle vie di Delhi, abbiamo rovesciato la soia nelle strade e abbiamo avvisato che avremmo violato il bando e disobbedito ai divieti, avremmo prodotto l’olio più sano di tutti: l’olio di senape. «E voglio che tu riceva in dono la prima bottiglia». Il Primo ministro ha perso il posto ma l’olio si è salvato. La legge è ancora là sulla carta ma non può essere usata per minacciare la gente e costringerla a abbandonare le sue coltivazioni tradizionali.
L’altro caso lo si è visto in televisione tutti i giorni per diverso tempo: si tratta della folle gestione dell’influenza aviaria. L’influenza è cominciata nei capannoni degli allevamenti industriali di polli ma si sono visti regolarmente uomini vestiti di tute lunari scendere nei villaggi, arraffare le galline e macellarle: in Vietnam, in Tailandia, in Indonesia, in Birmania, in India, perché l’Asia è l’ultima riserva di galline che vivono libere.
Le grandi società hanno usato la diffusione dell’influenza aviaria provocata da loro affinché, invece di chiudere gli allevamenti industriali di polli, venissero vietate le galline libere e fatti chiudere gli allevamenti all’aperto.
Parlando di galline mi viene in mente una conversazione che ho avuto con un giovane amico tedesco nella quale ci siamo resi conto che i piccoli contadini in India sono come le galline in libertà, che sanno come tirar su i propri vermi, cosa mangiare, sanno vivere senza un capitale e senza una gabbia. E il piccolo coltivatore diretto europeo è come una gallina di un allevamento industriale a cui è stato fatto credere che la gabbia è l’unico posto dove si può stare. Ma adesso dobbiamo mettere insieme i movimenti, il nostro delle galline libere per evitare di esser spinte dentro le batterie industriali e il movimento di voi che siete stati in gabbia e volete venir fuori all’aperto, perciò il nostro luogo d’incontro è la porta dell’allevamento in batteria dove voi rifiutate di restare e noi rifiutiamo di entrare, così che insieme possiamo, uniti, riprenderci e difendere le nostre libertà.
La Carta per il Rinascimento e la liberazione del piccolo contadino che si presentata qui è molto importante per i contadini di tutto il mondo e vorrei trasformare questo in un dibattito globale in modo che, come abbiamo preparato un manifesto sul futuro del cibo e sul futuro dei semi, si prepari anche un manifesto sul futuro del piccolo contadino in quanto dichiarazione della nostra libertà e indipendenza. Questa dichiarazione è diventata un imperativo scientifico, una necessità per poter far arrivare il cibo alla gente, una necessità per proteggere il pianeta.
La libertà del piccolo contadino non assomiglia alla libertà delle società monopolistiche multinazionali.
Le società si prendono la libertà allo scopo di inquinare, avvelenare, distruggere. Quando i piccoli contadini si prendono la libertà lo fanno per nutrire il mondo e questo diventerà sempre più importante nei prossimi anni.
La stessa industria che dieci anni fa’ tentò di costringerci a bere, mangiare e cucinare con il suo olio di soia geneticamente modificato, oggi trova più vantaggioso, a causa dei sussidi governativi, usare quell’olio come carburante per le macchine. Tutta questa nuova corsa alla produzione industriale di biocarburanti invece di alimenti dalle piante, ha fatto raddoppiare i prezzi del cibo. Secondo i miei calcoli non c’è abbastanza terra nel mondo per sostituire i carburanti fossili necessari a far funzionare il sistema industriale.
Se il prezzo del cibo è raddoppiato in un anno è segno che non ci sarà da mangiare per la gente. Voi avete l’aumento della pasta, il Messico l’aumento delle tortillias, noi abbiamo l’aumento dei chapati e del riso e i prezzi degli alimenti hanno superato le capacità di spesa del 60% dell’umanità.
Quello che nessun governo è in grado di controllare è la rabbia della gente quando i prezzi degli alimenti non sono più alla sua portata. Perciò assisteremo a una crescente instabilità sociale e in questo contesto il piccolo contadino, le produzioni locali, la distribuzione su piccola scala a livello locale, la vendita diretta, sono la sola sicurezza futura, se non le ricostruiamo non ci sarà nessuna sicurezza alimentare. Ecco perché il piccolo contadino deve essere libero: affinché il resto della società possa essere liberata dal pericolo della fame.
È per questa ragione che dobbiamo difendere con decisione i piccoli contadini e la loro libertà, proprio per i prezzi che, senza di loro, il pianeta sarebbe costretto a pagare, compresa la catastrofe climatica e il caos. Secondo le ricerche che ho fatto in occasione del nuovo manifesto sul futuro del cibo in un periodo di cambiamento climatico, circa il 25% delle emissioni di gas serra che stanno cambiando il clima dipendono dal modo con cui vengono prodotti e distribuiti gli alimenti.
Se lavoriamo in modo ecologico, con piccole aziende agricole locali, possiamo eliminare da un giorno all’altro il 25% delle emissioni.
In questo impegno, coloro che si sono battuti dalla parte della terra, che hanno lavorato per il suolo, coloro che capiscono l’ecologia dei processi in agricoltura, troveranno nelle piccole realtà agricole e nella coltivazione ecologica il vero sbocco del movimento ecologista.
Sfortunatamente molti amici dei nostri movimenti che lavorano seduti negli uffici, con le carte, costruendo le campagne di mobilitazione, improvvisamente sono nel panico per il cambiamento climatico. Ma da ora in poi sarà il movimento per i piccoli contadini la guida nell’indicare i veri obiettivi ecologici per cui operare.
La passata generazione dei movimenti ecologisti è obsoleta per il nostro tempo, con le loro concezioni di una natura selvatica e senza gli esseri umani, non possono più essere liberanti, possono solo peggiorare la situazione. Perciò il movimento per i piccoli contadini è il solo movimento ecologista autentico e reale oggi nell’offrire soluzioni agli enormi problemi che abbiamo davanti.
La terza ragione per cui abbiamo bisogno di questo rinascimento dell’agricoltura fondato sul piccolo contadino è perché si tratta di un imperativo scientifico.
Sono una scienziata e considero un abuso trattare nello stesso modo l’agricoltura chimica e quella biologica, l’industria degli affari della Carghill nei campi come l’agricoltura di un piccolo contadino. Le azioni sono diverse, i metodi sono diversi, e i prodotti che ne risultano sono diversi. L’unica cosa che la scienza esige è la capacità di distinguere fra cose diverse. Non è scienza quando cose diverse sono messe nella stessa scatola e trattate come un’unica cosa. Alimenti contaminati chimicamente, cibi che hanno viaggiato per migliaia di chilometri producendo enormi quantità di emissioni di ossido di carbonio non possono essere trattati come i cibi coltivati con cura e amore e distribuiti faccia a faccia nell’ambito dei rapporti umani di una comunità. Sono diversissimi nella loro condizione e sono diversissimi nelle loro qualità intrinseche.
Abbiamo bisogno di dare riconoscimento al buon cibo, abbiamo bisogno della libertà di evitare i cibi cattivi.
Sono consapevole che tutta l’offensiva contro la buona agricoltura, e la buon agricoltura si basa necessariamente sul piccolo contadino, ha tre origini.
Una è il paradigma industriale, il modo industriale di guardare al mondo, di vederlo come una macchina, cioè la visione meccanicistica; la seconda viene dal fatto che da tempo si è formata una discriminazione culturale contro coloro che producono il cibo, considerato il lavoro di minor valore e io penso che sia giunto il momento nell’evoluzione umana in cui questo lavoro deve cominciare ad essere considerato il più importante, la maniera più alta di vivere e servire la terra e la gente: si tratta di una questione culturale. E la terza origine viene dalle grandi società internazionali solo avide che manipolano i regolamenti e le leggi, e in totale consapevolezza snaturano il sistema della libertà economica per instaurare il loro monopolio. E noi dobbiamo affrontare tutte e tre questi motivi. Dobbiamo affrontare il paradigma industriale, meccanicista, dobbiamo affrontare l’esclusione culturale contro le aree agricole. E naturalmente dobbiamo affrontare le società monopolistiche, le loro bugie e le loro distorsioni della realtà.
Se io potessi morire dopo che avremo riportato i contadini al centro del pensiero economico e al centro del rispetto sociale, avrei vissuto una vita degna di essere vissuta.
E stando seduti in questa bellissima sala rinascimentale, con la frase «provando e riprovando» scritta qua sopra, non dimentichiamo che mentre le regole che hanno distrutto la terra e il suolo manifestano il proprio fallimento, abbiamo di nuovo bisogno del contadino, di ricostruire i nostri poderi, di provarci e riprovarci ancora senza mai stancarsi. Nella storia l’insaziabile avidità degli imperi ha distrutto la terra, ha distrutto l’economia agricola ed è stata il fondamento della loro rovina e poi di nuovo il suolo recupera e le comunità agricole rinascono. Così proviamo e proviamo di nuovo: è già successo, dobbiamo continuare a farlo, ma siamo in un momento unico della storia per dare inizio a questa chiamata al Rinascimento agricolo nelle campagne.
CARTA PER IL RINASCIMENTO DELLA CAMPAGNA
E DELLE LIBERTÀ ORIGINARIE DEI CONTADINI E DEI POPOLI INDIGENI
PRINCIPI
L’agricoltura con le attività forestali è indispensabile alla sopravvivenza umana.
La campagna provvede a tutti i bisogni fondamentali di acqua, aria, biodiversità, cibo, energia, fibre (cotone, lana, lino ecc) e a tutti i materiali da costruzione.
La terra è sacra, non l’abbiamo fatta noi. È la dimora naturale di ogni essere vivente.
Sulla terra si fonda l’identità delle comunità umane se non è alienata, frammentata e non è basata su mere considerazioni utilitaristiche.
Il suolo su cui camminiamo è mescolata la polvere dei nostri antenati; i nostri corpi, morendo, arricchiscono la terra dimostrando che essa non ci appartiene ma noi apparteniamo alla terra.
La campagna è una comunità vivente di innumerevoli organismi e come un corpo deve essere nutrita, curata, fatta riposare. Si parla con lei attraverso il proprio corpo.
La campagna è essenziale per rigenerare la società umana, perciò occorre arricchire le campagne, riscoprendone la sacralità.
Tutte le civiltà si basano sull’agricoltura, compresa quella industriale, ma nessuna è stata così distruttiva per la natura come la nostra che è perciò la più fragile di tutte.
Le tecnologie industriali applicate alla terra — prodotti chimici di sintesi come diserbanti, concimi chimici, anticrittogamici, macchine a energia fossile, sementi geneticamente manipolate, monocolture di merci per il mercato internazionale, che modificano il paesaggio per renderlo funzionale alle macchine — non sono agricoltura ma attività industriali, e non devono godere di privilegi per “pubblico interesse”.
Il furto anche di una sola mela è un reato punito penalmente, ma il saccheggio sistematico dell’eredità genetica e l’inquinamento dei cicli alimentari con conseguenze immense sulle popolazioni, non è considerato illegale dai governi, eppure viola i diritti fondamentali di tutti i popoli. Non c’è profitto derivante da questa distruzione che possa giustificarla.
La terra non è e non sarà mai una merce. È un bene comune. Il suo destino naturale è l’uso e il godimento comune.
Comune è l’aria che gli alberi e i venti rendono pura, comune è l’acqua che le radici delle piante, le rocce, le cascate rendono potabile e salutare come nessun impianto tecnologico può fare, comune è l’humus che si forma sotto gli alberi e nei campi ben coltivati perché arricchisce la catena alimentare, la quale è comune anch’essa insieme al polline dei fiori e a tutto ciò che serve a far vivere gli insetti, gli uccelli, gli animali e le piante selvatiche, delle quali comuni sono i semi spontanei così come quelli delle piante coltivate, selezionate dall’opera di tanti contadini e comunità indigene anonime che da sempre hanno lasciato in eredità gratuita a tutte le generazioni i risultati delle loro fatiche e scoperte. Comune infine è la terra per le popolazioni tribali. Ma anche nelle società contadine in cui è ben instaurata la proprietà privata, restano forme di usi civici e comuni sono le strade vicinali, la rete dei fossi, le sponde dei fiumi e i ruscelli, l’uso delle sorgenti liberamente aperto alla sete dei vicini e dei viandanti.
Coloro che conservano e trasmettono questa ricchezza insostituibile, obbedendo alle leggi naturali di alimentazione delle piante, migliorando la depurazione naturale e l’accumulo delle acque nelle falde, aumentando l’assorbimento di anidride carbonica e di acqua nelle biomasse sotto forma di humus, arricchendo i suoli, neutralizzando e trasformando le sostanze tossiche in utili e sane, proteggendo la terra dall’erosione, aumentando e migliorando la qualità degli alimenti per se stessi e le comunità locali, imprimendo sul paesaggio i segni della bellezza domestica, svolgono il lavoro fondante il pubblico interesse. Questo lavoro precede e supera quello degli stati e delle organizzazioni internazionali.
I contadini e i popoli indigeni non sono produttori di merci, sono guardiani della terra e della nostra sopravvivenza comune. Producendo beni strategici per la loro sussistenza, nutrono il paesaggio e lo umanizzano, cioè lo rendono domestico per la comunità di esseri, viventi o meno, a cui apparteniamo.
Le culture contadine e indigene sono orali, perché si basano su un’intelligenza e intuizione analogica e simbolica diretta, un linguaggio comune con la natura: scrivono nel paesaggio, con le piante, gli animali, gli strumenti e i beni che producono, non sulla carta. Nel loro operare lasciano spazio alle voci e al silenzio di tutti gli esseri viventi.
Le comunità contadine e tribali applicano l’etica della sussistenza, cioè soddisfano i loro bisogni essenziali direttamente dalla natura, rispettandone l’ordine, in economie locali di circuito, fondate su pratiche di coltivazione e uso della terra ereditate da saperi e abilità ancestrali che comportano l’impegno continuo a mantenere e ricostruire equilibri naturali, sociali e culturali. Il ciclo alimentare è per sua qualità intrinseca locale, finalizzato alla sussistenza.
DOVERI NATURALI
Il lavoro dei piccoli contadini e dei popoli tribali che obbediscono all’etica della sussistenza, in quanto la protezione e cura che dedicano ai loro luoghi ha effetti sul mondo intero, adempie ai seguenti doveri:
- conservare e arricchire il suolo, usando le biomasse per moltiplicare l’humus;
- favorire il manto vegetale perenne sia di leguminose che di siepi e alberi, rispettando la necessaria e salutare convivenza del maggior numero di specie;
- aumentare la capacità di assorbimento delle acque nel suolo, nelle falde e sorgenti e proteggerne la potabilità locale e gli altri usi comuni;
- curare i suoli tramite la manutenzione e adattamento di fossi, viottoli, muri a secco, ciglionature, strade vicinali, campi terrazzati ecc.
- migliorare le varietà e il ripopolamento delle specie vegetali e animali adattate ai luoghi aumentando così la biodiversità ed evitando le monocolture;
- curare la pulizia delle loro abitazioni, la salute dei loro alimenti e territori che abitano senza prodotti tossici, di sintesi e di plastica;
- produrre alimenti ugualmente sani per se stessi e per gli altri;
- rispettare la sovranità alimentare, cioè l’autosufficienza regionale: infatti solo se ogni popolo si nutre coi prodotti della sua terra è sicuro della sua indipendenza politica e di non rubare alimenti agli affamati dei paesi poveri;
- fare la manutenzione delle parti comunitarie della terra, dell’accessibilità dell’acqua da bere per la sete dei viandanti, delle strade vicinali, dei boschi e degli altri percorsi tradizionali;
- praticare e trasmettere le loro culture orali, che non escludono nessun essere vivente, e difendono il silenzio come diritto di uso civico;
- tendere allo stadio climax e alla massima simbiosi degli esseri umani con le altre forme viventi e i loro sostrati minerali.
DIRITTI NATURALI DEI CONTADINI E DEI POPOLI INDIGENI
Conseguentemente, chi opera sulla terra in violazione dei suddetti doveri non può vantare alcun diritto di precedenza e non può indennizzare le popolazioni con esborsi economici ma solo ripristinando l’ecosistema locale o bacino imbrifero nelle condizioni precedenti ai danni.
Chi opera sulla terra per fini di profitto esercita un’attività industriale e deve essere sottoposto a ogni regolamento, certificazione, controllo sanitario ecc. riservato a tali attività, rispettando tassativamente i limiti imposti dalle leggi nelle forme indicate dallo stato in cui opera. Gli Stati agiscono illegittimamente ogni volta che garantiscono alle imprese industriali diritti che sono in conflitto coi diritti tradizionali dei contadini.
A coloro che, anche soltanto su un fazzoletto di terra, assolvono i suddetti doveri appartengono i seguenti diritti originari, inalienabili e imprescrittibili:
1) il diritto di conservare la prosperità e la natura comunitaria della terra che rende immorale e illecito ogni e qualsiasi esproprio, anche per pubblica utilità, in quanto la pubblica utilità di chi esercita i doveri di cui sopra è superiore a ogni altra utilità;
2) il diritto all’analfabetismo, cioè il diritto di vivere e comunicare per mezzo di una cultura orale in tutto ciò che riguarda la campagna e le sue opere, il che comporta il divieto di obblighi scritturali o elettronici o certificatori di alcun genere per le attività contadine che saranno esclusivamente a carico degli uffici burocratici, per i popoli tribali ciò comporta anche il divieto di pretendere una documentazione scritta di proprietà della terra, bastando l’uso prolungato ab immemorabili;
3) il diritto alla gratuità dello scambio e della selezione dei semi che comporta il divieto di brevettare esseri viventi ancorché manipolati dalla scienza e dalla tecnica. Le varietà adattate ai luoghi fin da tempo immemorabile sono state il risultato attività svolte gratuitamente per il bene della comunità;
4) il diritto di accesso all’acqua e il divieto di qualsiasi attività che comprometta le falde, privatizzi le acque e ne riduca la disponibilità per i piccoli contadini, le popolazioni indigene o gli residenti/utenti;
5) il diritto al regime di esenzione dalle norme igieniche imposte dai governi: gli organismi sanitari di controllo hanno l’onere della prova nel caso sostengano che specifiche pratiche tradizionali adottate dall’agricoltura contadina provochino danni alla salute del suoi utenti.
6) il diritto al regime di esenzione dalle norme commerciali in quanto le attività di vendita diretta al pubblico e a dettaglianti da parte dei contadini e indigeni sono sempre state libere e non considerate attività commerciali.
Giannozzo Pucci, Vandana Shiva, Wendell Berry, Maurizio Pallante
sabato 16 ottobre 2010
Decrescita e Sviluppo Sostenibile: una con-fusione da rifiutare
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Ho assistito alla tavola rotonda/dibattito che si è svolta sabato 9 a Perugia dopo l’intervento di Maurizio Pallante al meeting su “Progettare il futuro” ed ho potuto constatare quanto sia difficile far passare il messaggio della Decrescita presso interlocutori che – pur disposti al dialogo - sono comunque persone ben inserite nel sistema della crescita e portatori dunque di mentalità ed interessi ad essa legati, politici e non.
La riflessione che ho tratto da questo incontro è la seguente: chi non capisce il vero contenuto del messaggio della Decrescita – o chi ha interesse a “disinnescarne” la potenziale radicalità – cade spesso in con-fusioni ed equivoci che, in buona o in cattiva fede, si presentano solitamente in due varianti: prima di capirla, la Decrescita viene confusa con la recessione e, dopo averla “capita” , con lo “sviluppo sostenibile”. Ai politici e gli amministratori specialmente “di sinistra” - che devono cercare di cavalcare ogni sorta di contraddizioni e rimanere comunque in sella – è soprattutto questo secondo tipo di equivoco ad essere indispensabile, perciò cercano spesso di minimizzarlo riducendolo a una disquisizione nominale, un po’ oziosa ed inutile, come di qualcuno che la usa strumentalmente per distinguersi da chi già è lì a fare il lavoro che va fatto, ovvero il cosiddetto “sviluppo sostenibile”. In quella occasione mi è sembrato ci fosse chi arrivava quasi a rivendicare una sorta di (concettualmente acrobatica) “crescita della Decrescita” pur di non lasciar passare un’accezione negativa del primo dei due termini.
Il fatto, dunque, di lasciar spazio a certi equivoci e confusioni, che siano ad arte o in buona fede, tra Decrescita e sviluppo sostenibile (o varianti simili) non è un punto da poco: ne va, tra l’altro, che la proposta della Decrescita venga recepita col potenziale di alternativa a tutto tondo che ha o che si esponga costantemente al rischio di essere fatta rientrare nei ranghi del sostanzialmente innocuo, del già detto e dunque del sostanzialmente inutile se non del pretestuoso.
Appare dunque della massima importanza, nel considerare la prospettiva della Decrescita, non solo vedere ciò che va fatto nell’immediato, ma anche quale è l’esito verso cui si va a parare, il punto di fuga verso cui si guarda. Anche per non prestare il fianco a spesso strumentali confusioni.
E’ possibile dimostrare, dati alla mano (come puntualmente ha fatto Pallante quella sera), che la crescita non ha mai prodotto nuova occupazione e che potrebbe essere invece proprio la Decrescita a crearne, abbassando la produzione/consumo di merci che non sono beni ed aumentando (nei limiti del necessario) quella di merci che sono anche beni e quella di beni che non sono merci. Non solo non si perderebbero (sul totale) ma perfino si creerebbero nuovi posti di lavoro grazie ad una riconversione del modello di produzione/consumo in senso decrescente/sostenibile a partire dalla ricerca/implementazione di nuove soluzioni tecnologiche per il risparmio energetico nell’efficienza degli edifici, nei consumi termoelettrici e dei carburanti per autotrazione. La via percorribile sarebbe una fase di riconversione tecnico/economica (oltre che culturale ecc…) che durerebbe prevedibilmente alcuni decenni per realizzarsi nelle proporzioni dovute e, se il processo fosse guidato con pianificazione ed accortezza, questo non comporterebbe una recessione, ma, al contrario, un aumento dell’occupazione e del benessere complessivo. Questo, però, non potrebbe essere chiamato “crescita” in quanto non consisterebbe in un incremento nei parametri che misurano il PIL, bensì in una loro diminuzione in quanto si tratterebbe di un risvolto virtuoso di una riduzione nei consumi e dei loro danni collaterali (che anch’essi innalzano il PIL).
C’è un’enorme riconversione da fare e se questo farà perdere numerosi posti di lavoro (per il calo di determinati consumi) ne produrrà possibilmente anche di più in una sorta di soluzione “win-win” in cui saranno sia la società che l’ambiente a guadagnarci e questo con una diminuzione del PIL e non con un suo aumento, confutando così la “superstizione” della crescita.
Benissimo. Però, se il problema non è solo un errato sistema di calcolo e valutazione dello sviluppo/benessere col falso metro del PIL, ma si tratta di qualcosa di ben più sostanziale, allora la citazione di Latouche come fautore del “de-consumo” da parte di un architetto presente al dibattito, pur errata nella lettera (visto che la décroissance di cui parla Latouche è correttamente tradotta in italiano con Decrescita), è vera nella sostanza. Voglio dire che ciò che occorre è, almeno in prospettiva, una riduzione dei consumi in termini assoluti e non solo un cambiamento da un certo tipo di consumi/produzione/occupazione ad un altro.
Mi sembra innegabile che, dopo un periodo, anche relativamente lungo, di riconversione (con tutto il dinamismo economico ed occupazionale che questa può dare), una volta che questa sarà avvenuta, si dovrà necessariamente approdare ad un modello economico più “circolare”, più tendente, se non proprio allo statico, ad una condizione di equilibrio, se si vorrà vivere in una dimensione rispettosa di ritmi propriamente umani e naturali nella quale si trovi effettivamente la “felicità” (a tutto tondo) sostenibile della Decrescita. Se la riconversione sarà stata effettiva, molti dei posti di lavoro da essa creati saranno destinati ad un certo punto ad esaurirsi o a ridimensionarsi notevolmente (a meno che non continuino parallelamente – e in funzione complementare – le attività che abbisognano di riconversione). Se i beni prodotti saranno più duraturi e meno impattanti, i consumi in assoluto diminuiranno (e con loro gli addetti alla produzione e allo smaltimento) e credo che neanche i beni/servizi immateriali potranno fornire occupazione retribuita oltre una certa misura, certo non tale da interessare la gran parte dei cittadini.
In altre parole questo significa che, almeno in prospettiva, bisogna riconoscere che l’occupazione – a riconversione avvenuta e senza un nuovo ciclo di consumismo, magari di un altro genere di prodotti, ma a lungo andare con effetti analoghi – dovrà essere in gran parte una occupazione non retribuita (o solo in parte retribuita) ovvero un’occupazione di autoproduzione. Una occupazione che occupa a tutti gli effetti e che produce beni (anche col forte elemento di creatività e soddisfazione che questo può dare), ma che non dà reddito in termini monetari.
Ora, una società composta in larga misura da persone che si trovano - in un contesto ecosostenibile - in questa condizione (almeno per una parte significativa della loro occupazione) non può essere che una società composta in parte preponderante da contadini o meglio – immaginandola in questa fase post-sviluppo e post-riconversione - di neo-contadini. Il che naturalmente non significa che non sarà anche composta da molte altre figure, ma che l’autoproduzione alimentare ed artigianale (e magari energetica) con tecnologie semplici, alla portata di tutti e tali da mantenere costante e disponibile anche nel futuro il capitale di risorse offerto dalla Natura, sarà l’occupazione largamente più diffusa – eventualmente accompagnata da altre attività che diano una parte di reddito monetario.
Probabilmente questo può suonare a qualcuno come pura utopia, ma è forse piuttosto – e semplicemente - un discorso di prospettiva che oggi vien fatto apparire di fronte al grande pubblico come una di quelle eresie (o anche assurdità) come era il caso, venti o trent’anni fa, di molte delle cose di cui parliamo correntemente adesso.
E, in realtà, per molti neanche si tratta solo di lontane prospettive. L’Umbria, regione dove si svolgeva quel dibattito, non è solo la vetrina verde d’Italia, ma anche una regione dove in tanti (nativi o trasferitisi lì appositamente) abbiamo scelto da decenni di sperimentare forme di sussistenza felice e decrescente che con un po’ di aiuto pubblico (anche solo legislativo e non finanziario) sarebbero alla portata di molti di più. Sono forme di sussistenza che hanno comportato (su scala personale/familiare) un notevole impegno finanziario e lavorativo per un certo numero di anni (come sarebbe – fatte le dovute proporzioni - per una riconversione su scala molto più grande) ma che in seguito sono generalmente in grado di mantenere un livello abbastanza costante ed equilibrato di economia grazie al fatto di reggersi (non del tutto, ma) in parte importante su un’occupazione autoproduttiva, non retribuita e dunque su una ricchezza non monetaria che è cioè non solo denaro risparmiato, ma denaro non-prodotto.
Una ricchezza che è sempre stata (anche nelle forme proprie di epoche precedenti) la ricchezza contadina.
La ricchezza a cui credo la prospettiva della Decrescita dovrà necessariamente approdare e che forse potrebbe essere rivendicata a volte in modo più esplicito come uno importante fra gli elementi che distinguono la Decrescita da prospettive antitetiche di crescita illimitata, per quanto spacciata come sostenibile.
Ci sarebbero molte possibilità di campagne di opinione, disegni di legge (un esempio quello di www.agricolturacontadina.org ), punti programmatici da inserire nel contesto delle proposte della Decrescita che potrebbero essere volti a favorire chi volesse fin da subito (e magari fin da giovane) rivolgersi alla vita in campagna e all’autoproduzione contadina preparando così il terreno per quando questa prospettiva sarà più largamente riconosciuta e credibile. C’è da pensare a normative facilitate per i piccoli produttori agricoli biologici, sia in termini legali/fiscali che di regole igienico-sanitarie, in alternativa a quelle vigenti che attualmente li strozzano mentre favoriscono la grande distribuzione con la qualità che sappiamo; ci sarebbe da istituire una categoria professionale ad hoc per i produttori che per dimensioni di attività e di reddito oltre che per sistemi di lavorazione si possano considerare “ecosistemici” e che andrebbero premiati e favoriti per questo svolgendo un ruolo utile per l’intera collettività rappresentando un “anticipo volontario di riconversione”; ci sarebbe da fare pressioni perché le amministrazioni pubbliche usino il potere che il federalismo demaniale gli conferisce per destinare ad un recupero bio-contadino case coloniche e terreni abbandonati di loro proprietà (un altro esempio: www.ecofondamentalista.it/bozzaproplegge.htm) anziché venderle come si accingono a fare per riaggiustare i loro bilanci di cassa.
La differenza tra la prospettiva della Decrescita e l’ossimoro dello sviluppo “sostenibile” sta anche nel saper distinguere, difendere e riproporre le forme di economia/sussistenza che valgono oggi come varranno domani e come valevano ieri perché esprimono il posto dell’uomo su questa Terra.
Ho assistito alla tavola rotonda/dibattito che si è svolta sabato 9 a Perugia dopo l’intervento di Maurizio Pallante al meeting su “Progettare il futuro” ed ho potuto constatare quanto sia difficile far passare il messaggio della Decrescita presso interlocutori che – pur disposti al dialogo - sono comunque persone ben inserite nel sistema della crescita e portatori dunque di mentalità ed interessi ad essa legati, politici e non.
La riflessione che ho tratto da questo incontro è la seguente: chi non capisce il vero contenuto del messaggio della Decrescita – o chi ha interesse a “disinnescarne” la potenziale radicalità – cade spesso in con-fusioni ed equivoci che, in buona o in cattiva fede, si presentano solitamente in due varianti: prima di capirla, la Decrescita viene confusa con la recessione e, dopo averla “capita” , con lo “sviluppo sostenibile”. Ai politici e gli amministratori specialmente “di sinistra” - che devono cercare di cavalcare ogni sorta di contraddizioni e rimanere comunque in sella – è soprattutto questo secondo tipo di equivoco ad essere indispensabile, perciò cercano spesso di minimizzarlo riducendolo a una disquisizione nominale, un po’ oziosa ed inutile, come di qualcuno che la usa strumentalmente per distinguersi da chi già è lì a fare il lavoro che va fatto, ovvero il cosiddetto “sviluppo sostenibile”. In quella occasione mi è sembrato ci fosse chi arrivava quasi a rivendicare una sorta di (concettualmente acrobatica) “crescita della Decrescita” pur di non lasciar passare un’accezione negativa del primo dei due termini.
Il fatto, dunque, di lasciar spazio a certi equivoci e confusioni, che siano ad arte o in buona fede, tra Decrescita e sviluppo sostenibile (o varianti simili) non è un punto da poco: ne va, tra l’altro, che la proposta della Decrescita venga recepita col potenziale di alternativa a tutto tondo che ha o che si esponga costantemente al rischio di essere fatta rientrare nei ranghi del sostanzialmente innocuo, del già detto e dunque del sostanzialmente inutile se non del pretestuoso.
Appare dunque della massima importanza, nel considerare la prospettiva della Decrescita, non solo vedere ciò che va fatto nell’immediato, ma anche quale è l’esito verso cui si va a parare, il punto di fuga verso cui si guarda. Anche per non prestare il fianco a spesso strumentali confusioni.
E’ possibile dimostrare, dati alla mano (come puntualmente ha fatto Pallante quella sera), che la crescita non ha mai prodotto nuova occupazione e che potrebbe essere invece proprio la Decrescita a crearne, abbassando la produzione/consumo di merci che non sono beni ed aumentando (nei limiti del necessario) quella di merci che sono anche beni e quella di beni che non sono merci. Non solo non si perderebbero (sul totale) ma perfino si creerebbero nuovi posti di lavoro grazie ad una riconversione del modello di produzione/consumo in senso decrescente/sostenibile a partire dalla ricerca/implementazione di nuove soluzioni tecnologiche per il risparmio energetico nell’efficienza degli edifici, nei consumi termoelettrici e dei carburanti per autotrazione. La via percorribile sarebbe una fase di riconversione tecnico/economica (oltre che culturale ecc…) che durerebbe prevedibilmente alcuni decenni per realizzarsi nelle proporzioni dovute e, se il processo fosse guidato con pianificazione ed accortezza, questo non comporterebbe una recessione, ma, al contrario, un aumento dell’occupazione e del benessere complessivo. Questo, però, non potrebbe essere chiamato “crescita” in quanto non consisterebbe in un incremento nei parametri che misurano il PIL, bensì in una loro diminuzione in quanto si tratterebbe di un risvolto virtuoso di una riduzione nei consumi e dei loro danni collaterali (che anch’essi innalzano il PIL).
C’è un’enorme riconversione da fare e se questo farà perdere numerosi posti di lavoro (per il calo di determinati consumi) ne produrrà possibilmente anche di più in una sorta di soluzione “win-win” in cui saranno sia la società che l’ambiente a guadagnarci e questo con una diminuzione del PIL e non con un suo aumento, confutando così la “superstizione” della crescita.
Benissimo. Però, se il problema non è solo un errato sistema di calcolo e valutazione dello sviluppo/benessere col falso metro del PIL, ma si tratta di qualcosa di ben più sostanziale, allora la citazione di Latouche come fautore del “de-consumo” da parte di un architetto presente al dibattito, pur errata nella lettera (visto che la décroissance di cui parla Latouche è correttamente tradotta in italiano con Decrescita), è vera nella sostanza. Voglio dire che ciò che occorre è, almeno in prospettiva, una riduzione dei consumi in termini assoluti e non solo un cambiamento da un certo tipo di consumi/produzione/occupazione ad un altro.
Mi sembra innegabile che, dopo un periodo, anche relativamente lungo, di riconversione (con tutto il dinamismo economico ed occupazionale che questa può dare), una volta che questa sarà avvenuta, si dovrà necessariamente approdare ad un modello economico più “circolare”, più tendente, se non proprio allo statico, ad una condizione di equilibrio, se si vorrà vivere in una dimensione rispettosa di ritmi propriamente umani e naturali nella quale si trovi effettivamente la “felicità” (a tutto tondo) sostenibile della Decrescita. Se la riconversione sarà stata effettiva, molti dei posti di lavoro da essa creati saranno destinati ad un certo punto ad esaurirsi o a ridimensionarsi notevolmente (a meno che non continuino parallelamente – e in funzione complementare – le attività che abbisognano di riconversione). Se i beni prodotti saranno più duraturi e meno impattanti, i consumi in assoluto diminuiranno (e con loro gli addetti alla produzione e allo smaltimento) e credo che neanche i beni/servizi immateriali potranno fornire occupazione retribuita oltre una certa misura, certo non tale da interessare la gran parte dei cittadini.
In altre parole questo significa che, almeno in prospettiva, bisogna riconoscere che l’occupazione – a riconversione avvenuta e senza un nuovo ciclo di consumismo, magari di un altro genere di prodotti, ma a lungo andare con effetti analoghi – dovrà essere in gran parte una occupazione non retribuita (o solo in parte retribuita) ovvero un’occupazione di autoproduzione. Una occupazione che occupa a tutti gli effetti e che produce beni (anche col forte elemento di creatività e soddisfazione che questo può dare), ma che non dà reddito in termini monetari.
Ora, una società composta in larga misura da persone che si trovano - in un contesto ecosostenibile - in questa condizione (almeno per una parte significativa della loro occupazione) non può essere che una società composta in parte preponderante da contadini o meglio – immaginandola in questa fase post-sviluppo e post-riconversione - di neo-contadini. Il che naturalmente non significa che non sarà anche composta da molte altre figure, ma che l’autoproduzione alimentare ed artigianale (e magari energetica) con tecnologie semplici, alla portata di tutti e tali da mantenere costante e disponibile anche nel futuro il capitale di risorse offerto dalla Natura, sarà l’occupazione largamente più diffusa – eventualmente accompagnata da altre attività che diano una parte di reddito monetario.
Probabilmente questo può suonare a qualcuno come pura utopia, ma è forse piuttosto – e semplicemente - un discorso di prospettiva che oggi vien fatto apparire di fronte al grande pubblico come una di quelle eresie (o anche assurdità) come era il caso, venti o trent’anni fa, di molte delle cose di cui parliamo correntemente adesso.
E, in realtà, per molti neanche si tratta solo di lontane prospettive. L’Umbria, regione dove si svolgeva quel dibattito, non è solo la vetrina verde d’Italia, ma anche una regione dove in tanti (nativi o trasferitisi lì appositamente) abbiamo scelto da decenni di sperimentare forme di sussistenza felice e decrescente che con un po’ di aiuto pubblico (anche solo legislativo e non finanziario) sarebbero alla portata di molti di più. Sono forme di sussistenza che hanno comportato (su scala personale/familiare) un notevole impegno finanziario e lavorativo per un certo numero di anni (come sarebbe – fatte le dovute proporzioni - per una riconversione su scala molto più grande) ma che in seguito sono generalmente in grado di mantenere un livello abbastanza costante ed equilibrato di economia grazie al fatto di reggersi (non del tutto, ma) in parte importante su un’occupazione autoproduttiva, non retribuita e dunque su una ricchezza non monetaria che è cioè non solo denaro risparmiato, ma denaro non-prodotto.
Una ricchezza che è sempre stata (anche nelle forme proprie di epoche precedenti) la ricchezza contadina.
La ricchezza a cui credo la prospettiva della Decrescita dovrà necessariamente approdare e che forse potrebbe essere rivendicata a volte in modo più esplicito come uno importante fra gli elementi che distinguono la Decrescita da prospettive antitetiche di crescita illimitata, per quanto spacciata come sostenibile.
Ci sarebbero molte possibilità di campagne di opinione, disegni di legge (un esempio quello di www.agricolturacontadina.org ), punti programmatici da inserire nel contesto delle proposte della Decrescita che potrebbero essere volti a favorire chi volesse fin da subito (e magari fin da giovane) rivolgersi alla vita in campagna e all’autoproduzione contadina preparando così il terreno per quando questa prospettiva sarà più largamente riconosciuta e credibile. C’è da pensare a normative facilitate per i piccoli produttori agricoli biologici, sia in termini legali/fiscali che di regole igienico-sanitarie, in alternativa a quelle vigenti che attualmente li strozzano mentre favoriscono la grande distribuzione con la qualità che sappiamo; ci sarebbe da istituire una categoria professionale ad hoc per i produttori che per dimensioni di attività e di reddito oltre che per sistemi di lavorazione si possano considerare “ecosistemici” e che andrebbero premiati e favoriti per questo svolgendo un ruolo utile per l’intera collettività rappresentando un “anticipo volontario di riconversione”; ci sarebbe da fare pressioni perché le amministrazioni pubbliche usino il potere che il federalismo demaniale gli conferisce per destinare ad un recupero bio-contadino case coloniche e terreni abbandonati di loro proprietà (un altro esempio: www.ecofondamentalista.it/bozzaproplegge.htm) anziché venderle come si accingono a fare per riaggiustare i loro bilanci di cassa.
La differenza tra la prospettiva della Decrescita e l’ossimoro dello sviluppo “sostenibile” sta anche nel saper distinguere, difendere e riproporre le forme di economia/sussistenza che valgono oggi come varranno domani e come valevano ieri perché esprimono il posto dell’uomo su questa Terra.
mercoledì 6 ottobre 2010
La Decrescita è progressista o reazionaria?
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L’atteggiamento mentale che realizza la decrescita sembra essere per alcuni difficile da capire. Ciò è forse, anche, perché tendiamo ancora a formularlo secondo le vie proprie della Modernità: secondo modelli teorici e categorie culturali per le quali se si riconosce un elemento della realtà si entra nella dimensione etichettata “premoderna/reazionaria” e se se ne riconosce un altro in quella “progressista” dicotomizzata a sua volta in orientata verso la società o verso l’individuo (o come si fa più spesso oggi verso l’uno o l’altro secondo i casi ed ignorandone le contraddizioni).
Credo che il punto con la decrescita sia quello di mettersi su un piano diverso fin dall’inizio e di farlo a partire dal fallimento manifesto delle ideologie dei modelli proprie della Modernità, proprie di una visione astrattista, positivista, con velleità di poter “scientificare” e pianificare tutto. E’ a partire dalla capacità di distinguere tra la nostra capacità di immaginare categorie e modelli e la nostra capacità (ben più modesta) di fare qualcosa di reale che dobbiamo partire. E dalla nostra attuale urgenza di farlo qualcosa di reale, soprattutto per quanto riguarda le nostre vite.
Mi sembra dunque che il messaggio della decrescita si ponga e si proponga su un piano molto pratico, concreto e diretto. Non che non ci sia anche molta filosofia da farci su, volendo. Ma il punto è mettere direttamente in pratica una serie di comportamenti virtuosi che, moltiplicati per tutte le persone (e gruppi di) che li vorranno applicare, possono effettivamente cambiare le sorti del mondo - così come sono le scelte (o non-scelte) di molti che lo stanno spingendo dove sta andando.
Se partiamo da migliaia di comportamenti individuali, di individui che hanno in mente dei valori ed una direzione (la quale non può stare altro che nel futuro, dato che noi viviamo oggi) - ma che sono pure inevitabilmente condizionati dal presente e dal passato che lo ha creato - ciò che ne risulterà sarà quello che saremo capaci di creare ed avrà poco senso stare ad analizzare se, come ingredienti di base all’origine, ci stiamo mettendo più o meno di ciò che può essere etichettato come “progressista” o “reazionario”. Queste sono targhe che appartengono ad un’ottica finita. E finita in quanto è manifestamente non in grado di immaginare vie d’uscita ai vicoli ciechi che ha imboccato.
Credo che non sia interesse del movimento della decrescita (ed ancor meno delle persone che ai suoi contenuti si ispirano) delineare sistemi sociali ideali a cui puntare, ma spingere perché una serie di comportamenti concreti (certo a partire da una precisa consapevolezza) si diffondano e siano riconosciuti sempre di più come praticabili e credibili.
La semplicità delle cose pratiche alla portata di tutti.
La forza delle scelte coerenti e personali.
Se abbiamo un orizzonte a cui riferirci, io credo, non può essere che quello della Natura nei suoi modi di funzionamento fondamentali. Ciò che è con essa compatibile, sostenibile, o meno, è dato dagli ecosistemi, dalle loro funzioni biologiche; la capacità limitata di sopportazione di questi è un fatto, non è un’opinione di destra o di sinistra: non appartiene al passato o al futuro, ma ad un presente su scala cosmica (o, almeno, planetaria): così lungo da essere, per noi umani, eterno.
E’ il criterio-base di un (buon)senso della misura, di un’armonia tra noi e il mondo a cui apparteniamo che dovrebbe restare ad ispirarci oggi che tutte le nostre creazioni teoriche (dalle velleità prometeiche cultura-centriche) sono crollate e che le loro conseguenze pratiche stanno per trascinarci nel loro fallimento.
La decrescita, in fin dei conti, è un fatto di buon senso, di senso della misura, di una basilare saggezza perduta che ognuno di noi può cercare, nella pratica, di ritrovare.
E’ nel fare queste scelte, a partire dal mettere al primo posto il senso della misura insito nella Natura, dalle circostanze concrete in cui per questa via si troverà, dai limiti che questa gli porrà ed il senso che proprio in questi limiti troverà, che ognuno di noi a suo modo, credo, potrà trovare quella giusta miscela di cosiddetto “pre-moderno” e cosiddetto “post-moderno” con cui realizzerà un nuovo presente.
L’atteggiamento mentale che realizza la decrescita sembra essere per alcuni difficile da capire. Ciò è forse, anche, perché tendiamo ancora a formularlo secondo le vie proprie della Modernità: secondo modelli teorici e categorie culturali per le quali se si riconosce un elemento della realtà si entra nella dimensione etichettata “premoderna/reazionaria” e se se ne riconosce un altro in quella “progressista” dicotomizzata a sua volta in orientata verso la società o verso l’individuo (o come si fa più spesso oggi verso l’uno o l’altro secondo i casi ed ignorandone le contraddizioni).
Credo che il punto con la decrescita sia quello di mettersi su un piano diverso fin dall’inizio e di farlo a partire dal fallimento manifesto delle ideologie dei modelli proprie della Modernità, proprie di una visione astrattista, positivista, con velleità di poter “scientificare” e pianificare tutto. E’ a partire dalla capacità di distinguere tra la nostra capacità di immaginare categorie e modelli e la nostra capacità (ben più modesta) di fare qualcosa di reale che dobbiamo partire. E dalla nostra attuale urgenza di farlo qualcosa di reale, soprattutto per quanto riguarda le nostre vite.
Mi sembra dunque che il messaggio della decrescita si ponga e si proponga su un piano molto pratico, concreto e diretto. Non che non ci sia anche molta filosofia da farci su, volendo. Ma il punto è mettere direttamente in pratica una serie di comportamenti virtuosi che, moltiplicati per tutte le persone (e gruppi di) che li vorranno applicare, possono effettivamente cambiare le sorti del mondo - così come sono le scelte (o non-scelte) di molti che lo stanno spingendo dove sta andando.
Se partiamo da migliaia di comportamenti individuali, di individui che hanno in mente dei valori ed una direzione (la quale non può stare altro che nel futuro, dato che noi viviamo oggi) - ma che sono pure inevitabilmente condizionati dal presente e dal passato che lo ha creato - ciò che ne risulterà sarà quello che saremo capaci di creare ed avrà poco senso stare ad analizzare se, come ingredienti di base all’origine, ci stiamo mettendo più o meno di ciò che può essere etichettato come “progressista” o “reazionario”. Queste sono targhe che appartengono ad un’ottica finita. E finita in quanto è manifestamente non in grado di immaginare vie d’uscita ai vicoli ciechi che ha imboccato.
Credo che non sia interesse del movimento della decrescita (ed ancor meno delle persone che ai suoi contenuti si ispirano) delineare sistemi sociali ideali a cui puntare, ma spingere perché una serie di comportamenti concreti (certo a partire da una precisa consapevolezza) si diffondano e siano riconosciuti sempre di più come praticabili e credibili.
La semplicità delle cose pratiche alla portata di tutti.
La forza delle scelte coerenti e personali.
Se abbiamo un orizzonte a cui riferirci, io credo, non può essere che quello della Natura nei suoi modi di funzionamento fondamentali. Ciò che è con essa compatibile, sostenibile, o meno, è dato dagli ecosistemi, dalle loro funzioni biologiche; la capacità limitata di sopportazione di questi è un fatto, non è un’opinione di destra o di sinistra: non appartiene al passato o al futuro, ma ad un presente su scala cosmica (o, almeno, planetaria): così lungo da essere, per noi umani, eterno.
E’ il criterio-base di un (buon)senso della misura, di un’armonia tra noi e il mondo a cui apparteniamo che dovrebbe restare ad ispirarci oggi che tutte le nostre creazioni teoriche (dalle velleità prometeiche cultura-centriche) sono crollate e che le loro conseguenze pratiche stanno per trascinarci nel loro fallimento.
La decrescita, in fin dei conti, è un fatto di buon senso, di senso della misura, di una basilare saggezza perduta che ognuno di noi può cercare, nella pratica, di ritrovare.
E’ nel fare queste scelte, a partire dal mettere al primo posto il senso della misura insito nella Natura, dalle circostanze concrete in cui per questa via si troverà, dai limiti che questa gli porrà ed il senso che proprio in questi limiti troverà, che ognuno di noi a suo modo, credo, potrà trovare quella giusta miscela di cosiddetto “pre-moderno” e cosiddetto “post-moderno” con cui realizzerà un nuovo presente.
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