domenica 13 novembre 2011

Finiti i giochi: si viene al dunque

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Nel mezzo della comprensibile euforia per quella che sembra esser la fine della ventennale parabola politica di Berlusconi, mi sembra utile richiamare l'attenzione sull'incredibile rapidita' e facilita' con cui il premier ha dovuto stavolta, diversamente dal suo solito, rassegnarsi a lasciare il posto (e con cio' probabilmente presto ad uscire del tutto di scena). Un passaggio avvenuto con una immediatezza che ha dell'incredibile proprio nel senso che dovrebbe far ricredere molti su tante cose, a cominciare dal fatto che sia la democrazia il valore primo e fondante dell'Occidente (tale per cui si pretende perfino di giustificare guerre in suo nome).
A far cadere Berlusconi non sono bastate la defezione di Casini e poi quella di Fini, ne' la indefessa monotematicita' delle opposizioni che, dentro e fuori il Parlamento, hanno fatto per vent'anni del pericolo da lui rappresentato la loro vieppiu' unica ragion d'essere. Ora vincendo (e non di poco) le elezioni, ora comprandosi il sostegno di politicanti a un tanto al voto, l'imbonitore di Arcore e' riuscito a restare al governo per gran parte degli ultimi vent'anni nonostante scandali sessuali, una sequela interminabile di processi per corruzione e la sfacciataggine manifesta di una serie di leggi ad personam.
Vien quasi da non credere a quante parole ed energie politiche siano state spese in questo paese sulla questione Berlusconi si, Berlusconi no, quasi che da cio' dipendesse la salvezza della democrazia dal pericolo comunista o viceversa dall'avvento di un nuovo fascismo. Ed e' soprendente, visto cio' che sta avvenendo in queste ore, quanto la questione della democrazia fosse al centro di questo dibattito.

E che succede ora? Succede che nel teatrino della politica vengono fuori dei problemi tecnici, strutturali per il funzionamento dello spettacolo. Problemi urgenti sui quali non c'e' tempo da perdere: si e' aperto uno squarcio sul telo di fondo e, per un momento si intravedono i macchinisti, e perfino qualcuno di quelli che da dietro tirano le fila e fanno muovere le marionette. Il guasto va riparato immediatamente e gli stessi tecnici/burrattinai sono costretti a far salire sul palco qualcuno dei loro.......gli tocchera' atteggiarsi anche lui a personaggio, almeno finche' di nuovo the show can go on.
Succede che la Grecia si azzarda anche solo ad ipotizzare un referendum in cui la gente possa esprimersi sull'accettazione del “sostegno” (di questo si dovrebbe trattare, no?) e delle relative misure economiche “proposte” dall'UE ed immediatamente il suo premier Papandreu deve dimettersi e lasciare il posto a Papademos, uomo della Goldman Sachs (la piu' grande banca d'affari americana e mondiale).
Succede che contemporaneamente i Btp italiani arrivano ad uno spread di oltre 500 punti rispetto ai bond tedeschi, subito dopo che la Borsa di Milano aveva registrato perdite del 7% in un giorno (2/11) e che (non va sottovalutato nel nesso tra gli avvenimenti) le azioni Mediaset perdono di colpo il 12% del loro valore.
L'Italia sembra esser appesa al filo di quale sara' l'andamento delle borse all'inizio della settimana seguente. Napolitano, questo baluardo della Repubblica che non aveva finora fatto valere il suo ruolo contro ogni sorta di leggi ad personam, trova - in modo quantomeno irrituale - l'Eletto (niente affatto eletto) che dovra' sostituire Berlusconi e questo, gia' in precedenza sopravvissuto a tutto e ad ogni costo (e' il caso di dire), rassegna le dimissioni in men che non si dica.
Non lo aveva ancora detto, infatti, che gia' Mario Monti (anch'egli uomo di Goldman Sachs come pure Mario Draghi), appena ricevuta una patina di leggittimita' politica dalla tempestiva nomina a senatore a vita da parte di Napolitano, stava facendo il suo giro di consultazioni per il suo nuovo governo. E neppure ha fatto in tempo a porre, il nostro ex-premier dall'improbabile ancorche' innegabile longevita' politica, le sue condizioni per lasciare il posto al quale lo avevano eletto gli Italiani: deve essergli stato fatto capire chiaramente che ora e' arrivato il tempo di chi comanda davvero e gli argomenti per convincersene non devono essergli mancati vista la fretta con cui e' per giunta passato dall'”elezioni subito” all'appoggio “responsabile” - esterno o meno che sara'.
Un passaggio analogo, anche nei tempi, lo abbiamo visto da parte di Di Pietro. Sembra purtroppo che, a ricordarci che cio' che sta avvenendo sotto i nostri occhi e' del tutto fuori dalle regole democratiche e incurante del rispetto per la volonta' popolare espressa nel voto (che gia' era andata a farsi friggere con la vigente legge elettorale) siano rimasti solo i Ferrara, i Feltri, i Sallusti, il ministro Romano, la Santanche', La Russa... ovvero, in sostanza, i buffoni di corte, quelli di contorno, che ravvivano il paesaggio facendo “a chi la spara piu' grossa”, personaggi che, fuori dal sottobosco mediatico-politicoide legato al berlusconismo, sanno bene di non poter sopravvivere mantenendo il proprio status.
Resta ora da vedere cosa faranno coloro che nell'opposizione a Berlusconi hanno trovato la propria unica identita' e ci hanno magari anche costruito un personaggio pubblico ed una carriera. Del PD, ovviamente, gia' sapevamo in anticipo: sono sessant'anni che stanno li', dietro mentite spoglie, a garantire il proprio appoggio (che sia implicito e di fatto, esterno o attivamente esplicito) ai poteri forti soprattutto internazionali, in attesa di superare i loro esami di affidabilita' e, cambiato il nome e diluitisi ancora una cinquantina di volte come un farmaco omeopatico, un giorno forse ormai prossimo accederanno finalmente in pianta stabile al governo di questo paese (a rappresentare, ovviamente, gli interessi di coloro che hanno in realta' sempre appoggiato).
Siamo dunque al punto: un governo “tecnico”, non eletto, composto da personaggi tutti o quasi non votati dal popolo, che si presenta come “meno e' politico e meglio e'” il cui compito – tutti ben lo sappiamo – e' quello di farci sputare lacrime e sangue in nome di ideali alti e nobili come il pareggio di bilancio e la riduzione dello spread. Alla fine se tutto va bene saremo noi ad essere votati e giudicati: dalle agenzie di rating.
Ma non erano queste, insieme alle grandi banche, come Goldman Sachs (che oltre che qui in Europa ha sempre avuto suoi uomini ben piazzati nei ruoli chiave dell'amministrazione americana, compresa quella attuale di Obama) ad esser dietro alla crisi del 2008, ad aver continuato poi a lucrare sui fondi spazzatura e derivati? Non hanno proprio loro il potere di far salire e scendere a piacimento gli andamenti delle borse? Non sono loro che hanno creato il problema e che dunque dovrebbero pagare? (vedi pure http://www.enzodifrennablog.it/index.php/nformazione/goldman-sachs-e-il-default-mondiale-nel-2012.html che spiega ampiamente come tutto cio' sia avvenuto).
Sono invece qui a piazzare i loro uomini al vertice delle nostre istituzioni e dirci cosa dobbiamo fare, noi, per pagare il loro debito o, meglio, la forma contabile/finanziaria in cui si palesa l'insostenibilita' del modello di economia del quale vivono e solo all'interno del quale possono non solo prosperare, ma anche soltanto sussistere. Cio' che piu' sconcerta e' che tanta gente vede questo passaggio come una liberazione e che la presunta “neutralita'” del prossimo governo, proprio in quanto “tecnico” sia considerata una sorta di garanzia per un miglioramento. Non ci si rende conto di quanto cio' che si presenta come “politica” oggi non sia che una variante del mondo dello spettacolo mentre la politica vera, quella che conta, sta in realta' proprio in questo mondo di “tecnici”. Cosi' come in altri contesti geografico-culturali le etichette di “destra“ e “sinistra” nascondono gruppi tribali di interesse, nel mondo globale sviluppato non son rimaste che ristrette elites superclaniche (vedi Giulietto Chiesa) del potere iper-capitalista......ed il resto e' teatrino, buono per chi preferisce questo intrattenimento alle partite di calcio.

Non e' un caso che questo salto di livello cosi' sfacciato sul piano politico avvenga nel momento in cui nell'elemento piu' debole e sotto pressione del quadro si sia tentato di nominare la possibilita' del referendum ovvero la questione dell'autodeterminazione popolare: questo e' un terreno pericoloso sul quale non e' assolutamente consentito avventurarsi e che va prevenuto all'origine (in Grecia l'hanno bloccato in extremis, in Italia ci si muove fin da ora): non si sa come va a finire (vedi il voto sulla Costituzione europea).
Ma la cosa che rende il discorso ancor piu' serio di quanto non sembri e' che, dal loro punto di vista, ovvero da quello di chi e' ben addentro alla conoscenza dei meccanismi del Sistema, l'ipotesi di lasciare alla gente la parola decisiva sulle misure da prendere e' realmente impraticabile; cosi' come e' realisticamente impercorribile una trafila politica tradizionalmente (e correttamente) istituzionale in quanto i mercati seguono leggi, tempi e meccanismi del tutto estranei a quelli non tanto della politica, ma soprattutto di una autentica democrazia. E sono i mercati, cioe' i soldi, non altro, il valore per eccellenza del mondo globalizzato.
Quando le cose giungono al “dunque”, percio', non dobbiamo stupirci che il potere venga allo scoperto e si apra da se' la nuova strada che gli serve. Ora qui la chiameranno la “terza repubblica”, ma, come per la seconda, si tratta solo di avvicendamenti nella parte piu' visibile dei gruppi dominanti nel controllo sullo Stato, non di reali passaggi costituzionali o di sistema....di nuovo, dunque, nulla su cui farsi illusioni, alla fine.
La tendenza che realmente si sta facendo strada, invece, e' il progressivo e sempre piu' esplicito autonomizzarsi del potere economico-finanziario dalla propria facciata e dai propri prestanome propriamente politici. Questo comporta un passaggio di efficienza/accelerazione di tutto il Sistema, passaggio necessario non in quanto ulteriore grado in un percorso evolutivo, ma, al contrario a causa della crisi a cui il Sistema e' inesorabilmente destinato per la sua stessa natura di entita' a crescita infinita e con cio' soggetta al progressivo restringersi dei suoi spazi di agibilita' nel contesto della societa' e del pianeta.
Ma, se questo e' vero, e' ben difficile appellarsi ad una difesa della democrazia senza mettere in questione l'interezza di questo Sistema. Il punto che purtroppo non si comprende ancora abbastanza e' che qui non si tratta di superare una crisi finanziaria, di far trovare agli economisti le ricette piu' efficaci e veloci per uscirne ne' di difendere procedure piu' democratiche per sceglierle: la questione in gioco e' di ben piu' ampia portata.
In un Sistema come questo nel quale occorrono competenze di una complessita' tale che perlopiu' in realta' mancano anche agli addetti ai lavori (i quali e' chiaro che non sanno davvero cosa fare, ma solo cercano di allontanare l'orizzonte del collasso – vedi il rialzo del tetto del debito USA) l'autodeterminazione dei popoli non e' piu' un valore da salvaguardare all'interno del percorso di salvezza del Sistema, ma e' invece in alternativa a questa salvezza.
E' solo al di fuori di un tale Sistema che potremo salvare una partecipazione realmente democratica delle persone, la nostra sovranita', la nostra autodeterminazione. Solo all'interno di un sistema altro, che rispetti noi come individui umani ed il mondo come lo spazio vitale di cui facciamo parte, non come un nostro strumento o la nostra scorta di materie prime. Solo all'interno di un sistema che sia a nostra misura e che possiamo gestire e controllare e conoscere sia in termini di dimensioni che di complessita'.
Non illudiamoci di salvarci dalla crisi e di salvare pure la democrazia senza uscire radicalmente da questo modello, da questo Sistema. Ancora mentre questo esiste e' necessario costruire dal basso e nel piccolo altri modi di vivere, di produrre, di consumare (di usare i beni), di scambiare. Un po' come e' avvenuto in Argentina subito dopo il default, ma con un progetto che vada al di la' dell'emergenza.
Sara' questo non solo l'embrione di un modello futuro, ma la piu' immediatamente necessaria strategia di sopravvivenza per molti di noi. E lo vedremo presto, non appena la crisi da un lato e le “contro”misure che i “tecnici”/salvatori si apprestano ad imporci avranno iniziato ad entrare davvero nel vivo.

martedì 18 ottobre 2011

Quando salgono le acque

Foto tratta dall'edizione online del Bangkok Post del 16 ottobre 2011





Era il 1963 quando Bob Dylan cantava “radunatevi gente, ovunque voi siate, ed accettate che l'acqua intorno a voi e' salita” perche' “sara' una pioggia dura quella che cadra' ”.
Ora, quasi cinquant'anni dopo, forse quell'acqua e' arrivata al punto in cui anche i piu' recalcitranti a riconoscere l'evidenza saranno costretti ad aprire gli occhi, ed e' significativo che qualcuno, autoelettosi ad avanguardia avanzata di questa evidenza, si presenti come il “blocco nero”; sintomo inquietante del buio che sta al posto della capacita' di immaginare alternative reali.

Il 15 ottobre non sono andato alla manifestazione: mentre si svolgevano i fatti di Roma stavo partendo per Bangkok, per accompagnare un gruppo di turisti in Laos, lavoro che svolgo occasionalmente per un operatore di Turismo Responsabile. Nel Laos (da dove ora scrivo) e soprattutto in Thailandia, durante le ultime settimane ci sono state piogge torrenziali, ben oltre l'ordinario, con conseguenti frane, alluvioni, allagamenti, per un totale di circa 300 morti (contando anche quelli in Cambogia e Vietnam). Sara' forse troppo semplicistico attribuire questi disastri – come tanti altri che si susseguono – al cambiamento climatico di origine antropica? Vorremo aspettare che squilibri diventati ormai irreversibili ce ne diano le prove oggettive insieme a milioni di morti e di profughi?
Fatto sta che qui la gente dice che questa non e' una cosa normale. Come non lo e', ad esempio la siccita' ad ottobre che ho lasciato a casa, il caldo esagerato ad agosto ed il freddo che c'e' stato fino a giugno quest'anno da noi. La gente di Bangkok protegge l'entrata di case e negozi ammucchiando sacchetti di sabbia in attesa dell'allagamento di parte della citta' previsto come possibile nei prossimi giorni. Tutti seguono con apprensione il bollettino meteo per prepararsi a cio' che verra'.

Io su internet cerco invece notizie su qualcosa che e' gia' avvenuto, un altro tipo di “alluvione” che ha invaso il cuore di Roma pochi giorni fa. Ma qui e' meno facile capire la sostanza che ha allagato la capitale, una cosa che sarebbe utile per immaginare previsioni del tempo che seguira'. Mi sembra si sia trattato essenzialmente di un'ondata di rabbia ormai inarginabile di fronte alla sfacciataggine con cui vengono privatizzate (legalmente e non) le risorse pubbliche, al divaricarsi delle condizioni di vita tra i ceti sociali, ad una democrazia sempre piu' di facciata gestita sopra la testa della gente, allo strapotere impunibile di banche e finanzieri. Una rabbia ormai incontenibile perfino in un paese altrimenti cosi' anestetizzato, ipnotizzato da chiacchiericci detti talk show e da false mitologie rappresentate nelle pubblicita'.

Una rabbia quantomai giustificata e comprensibile, ma finora – e purtroppo – temo, poco piu' che rabbia. Di proposte effettivamente alternative e credibili se ne sentono poche e quelle poche trovano un seguito ancora molto debole, mentre e' a queste che bisognerebbe pensare invece che farsi agganciare dalle trappole mediatiche. Purtroppo in questa pseudo-cultura in cui regna la colonizzazione dell'immaginario (vedi Latouche) il tema del giorno ce lo danno media ed opinion makers prezzolati – e tutti li' ad accodarsi come in un riflesso condizionato. Cosi', dopo il corteo del 15, il centro dei problemi italiani sembra siano diventati quelle poche centinaia di “violenti” etichettati “black bloc”: l'immancabile “emergenza” di turno rispetto alla quale tutti sentono di dover esprimersi e misurare la propria distanza.

Le acque mentre salgono diventano anche piu' torbide (ci va in mezzo di tutto) e bisogna fare chiarezza; non lasciarsi trarre in inganno. I cosidetti blackbloc saranno forse degli infiltrati strumentali ed eterodiretti o dei teppisti fascistoidi o degli ingenui sprovveduti con la sensazione di aver nulla da perdere, tante frustrazioni ed ancor piu' voglia di menare le mani, ci sara' semplicemente gente incazzata che non ha piu' voglia di farsi prendere in giro ne' di prenderle soltanto e zitti....o piu' probabilmente ci saranno tutte queste cose insieme. Ma non credo sia questo il problema per chi vuol radicalmente cambiare le cose in questo mondo ed impegnarsi per costruirne uno altro e possibile, pulito e sostenibile. Chi si riconosce in questa prospettiva non solo non dovrebbe farsi illusioni sulla praticabilita' di una lotta violenta in questa fase storica, ma dovrebbe pure essere consapevole del carattere insufficiente, primitivo, velleitario e, in ultima analisi, superfluo che essa avrebbe di fronte alla portata e alla profondita' dei cambiamenti che oggi ci si presentano come necessari e non piu' rimandabili.

Questo significa certamente esprimere una estraneita' netta rispetto a chiunque usi strumentalmente i cortei di massa, di ispirazione non violenta, per compiere atti che non avrebbe il coraggio o la capacita' di realizzare da solo, cosi' come non sarebbe neanche lontanamente in grado di raccogliere un numero di persone significativo in una piazza, ne' di esprimere qualcosa che assomigli ad un progetto politico. Questa estraneita' non equivoca dovrebbe esprimersi con l'allontanamento fisico (dicasi “a calci in culo”, se necessario) da parte degli stessi organizzatori, ancor prima che della Polizia, di chiunque si presenti ad un corteo con chiare intenzioni bellicose. E' bene distinguere nettamente le due pratiche politiche e di lotta e che chi vuol seguirne una violenta si organizzi cortei o altre iniziative per proprio conto.
Su questo non ci dovrebbero essere indecisioni o malintesi concetti di pluralismo e “liberta'”. Sono scelte che vanno prese a monte: se si vuol praticare una lotta violenta occorre dotarsi di una organizzazione/gerarchia/tattiche di tipo militare, altrimenti si va solo a prendere un sacco di botte. Le BR ci hanno provato e sappiamo come e' andata a finire, con le conseguenze legali (per loro) e politiche (per tutti) che hanno condizionato la storia italiana per tutti gli anni a seguire (per non pensare a cosa sarebbero state capaci di fare le BR semmai fossero riuscite in quel modo a prendere il potere – ed oggi siamo di fronte a questioni ben piu' ampie e complesse di allora).

Detto questo, pero', e restando all'esempio dell'epoca degli anni ' 70, non era affatto fuori luogo allora lo slogan “ne' con lo Stato, ne' con le BR”, cosi' come, dopo l'11 settembre 2001 “ne' con gli USA, ne' con Bin Laden”, sarebbe stata una risposta appropriata al “siamo tutti americani” che andava per la maggiore nella propaganda di quei giorni.
Voglio dire: una volta che nelle parole e nei fatti abbiamo dichiarato la nostra estraneita' rispetto alle pratiche di lotta violente, dobbiamo noi, proprio noi che vorremmo veder crollare il sistema delle speculazioni finanziarie e dello strapotere delle banche, pronunciare mezza parola contro chi le volesse colpire con qualsiasi mezzo al di fuori delle nostre iniziative?
Dovremmo essere noi, che consideriamo gli eserciti come il braccio armato degli interessi della super-casta globale, ad esprimere una parola di condanna se qualcuno con eventuali azioni sue proprie dovesse bruciare un archivio del ministero della Difesa? Dovremmo forse essere noi a sentirci in qualsiasi modo solidali con coloro che hanno costruito giorno per giorno per puro profitto personale i drammi umani e i disastri ecologici che pesano e peseranno su tutti noi, i nostri figli e nipoti?
Certo che no!! alla solidarieta' verso queste persone e centri di potere e di interesse siamo e saremo estranei almeno quanto ripetto ai gruppetti di backbloc - e senza mancare di vedere l'enorme sproporzione tra i danni minimi causati da questi ultimi e quelli di ben altra portata dei primi.
Bisogna aver chiaro cos'e' una linea di lotta non violenta e non antagonista, ma al tempo stesso radicalmente alternativa: cosi' com'era nella concezione di Gandhi si trattava di una cosa dalle conseguenze altrettanto dure di una guerra; neanche un colpo veniva inferto al nemico, ma ogni forma di collaborazione gli era negata alla radice; veniva lasciato alle conseguenze delle sue azioni, almeno finche' non vi avesse personalmente e fattivamente posto riparo.

Prima che le acque si facciano troppo torbide per distinguere chi e' chi e cosa significano le parole, e' importante aver chiaro quale e' il problema che ci ha fatto muovere, dove sta la sua origine e dove va rivolta l'attenzione. Non e' certo il caso di farci fregare dagli appelli alla difesa della democrazia (questa si', quando conviene, bene comune da proteggere) utili a far passare fantasiose “novita'” giudiziarie come la “flagranza differita” di reato o la fidejussione obbligatoria per coprire gli eventuali danni causati da un corteo – cosi', se negli USA occorre essere molto ricchi per una campagna presidenziale, ora in Italia questo sara' indispensabile anche solo per indire una manifestazione. Ne' dobbiamo certamente dar credito ad uno che ha lavorato una vita per Goldman Sachs, diventa presidente della BCE, rappresenta al massimo livello gli interessi di banche e finanzieri per conto dei quali si prepara a mettere le mani anche sul governo italiano (magari indirettamente tramite prestanomi “tecnici” e “di sinistra”) e ci viene a dire che “capisce” le ragioni degli 'indignati”. Meno male che c'e' uno che “capisce”....anche Berlusconi all'inizio rappresentava il “nuovo” in antitesi ai politici corrotti.

Una cosa che va detta chiara e netta e' che con questa gente NON siamo sulla stessa barca e che chi ancora ci sta e' bene faccia presto ad abbandonarla e quindi a rifiutarsi di pagare la crisi e i costosissimi quanto inutili inganni con cui vorrebbero puntellare il loro sistema ormai giunto al collasso. E' invece di costruire reti alternative ed indipendenti di scambi e di servizi che abbiamo bisogno; di togliere strutturalmente sostegno e base ai poteri dominanti; di cominciare a far funzionare un'economia altra che dia luogo ad un mondo altro e possibile; di metterci realmente in condizione di fare a meno di questi mistificatori e dei meccanismi che li tengono al potere.
Questo comporta una strada lontana anni luce da quella di gruppetti violenti e disperati, ma significa altrettanto che non avremo bisogno di dire neppure mezza parola di condanna quando qualcuno di essi andra' a prendere a casa chi ha delle responsabilita' per dargli cio' che si merita. Ai potenti di oggi, perdenti di domani (vedi Gheddafi, ultimo esempio) bisogna al piu' presto togliere la base (che siamo noi quando ci adeguiamo e partecipiamo al loro sistema) e lasciarli al loro destino per quando la storia se li scrollera' finalmente di dosso. Non sono i blackbloc il problema nostro, ricordiamoci chi e' il problema, cosa e' il problema: il problema e' la violenza? Si', ma quella vera, quella che pesa sul pianeta e su milioni di esseri umani. Non lasciamoci deviare dagli specchietti per le allodole.

Questo, se davvero vogliamo un mondo diverso, piu' equo e sostenibile; se non stiamo dando solo sfogo ad una rabbia immediata, causata dalla crisi, ma pronti a farci recuperare dalla prossima coalizione partitica di turno con le sue promesse d'occasione; se veramente ora abbiamo aperto gli occhi e non siamo solo in attesa di poter tornare al piu' presto dove eravamo appena ieri quando i disastri del mondo – causati dal nostro modello economico e stile di vita – non avevano ancora iniziato ad intaccare anche il nostro portafoglio.
Se non siamo solo in attesa che le acque si riabbassino e magari vadano semplicemente ad affogare qualcun altro da qualche altra parte.

sabato 24 settembre 2011

“Fondata sul Lavoro” ?

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Qualche tempo fa ho riincontrato una vecchia conoscente, figlia di amici di famiglia, che non vedevo da quando eravamo bambini. Le ho chiesto cosa facesse ora e, guardandomi con un’aria tra l’ironico ed il rimproverante, mi ha risposto”io lavoro”. L’espressione voleva significare la sua scarsa considerazione per il tipo di economia che mi sono scelto – di cui sa per sentito dire – in cui solo lavori a termine, occasionali e saltuari, concorrono ad integrare monetariamente la mia forma di sussistenza di base che definisco come ‘neo-contadina’ e dunque fatta in ampia misura da autoproduzioni ed in parte svincolata dal denaro. Questa persona è impiegata come grafica pubblicitaria presso un’azienda, il che significa che passa la sua giornata essenzialmente seduta davanti ad un computer in un ambiente riscaldato d’inverno e con aria condizionata d’estate. Con tutto il rispetto per chi svolge questo tipo di occupazioni, devo confessare i miei dubbi sul fatto che in esse ci sia più fatica che nelle mille diverse attività che compongono la mia giornata, dallo spostare pietre, al tagliare legna, al vangare e zappare, potare alberi tutto il giorno in cima ad una scala, lavorare con trattore ed attrezzi vari….sempre fuori in tutte le stagioni. Questa persona però intendeva dirmi che lei si guadagnava da vivere lavorando…e io no.

La Costituzione italiana dice che la nostra è una Repubblica “fondata sul lavoro”. Ma l’esempio appena citato serve a mostrare come, nel senso comune, il valore non sta nel fatto in sé di lavorare, bensì in quello di percepire uno stipendio: nel fare un’attività per la quale si ottengono in cambio dei soldi. Se c’è un salario è lavoro altrimenti non lo è, questo è il punto. Un po’ come quando, nelle statistiche degli organismi internazionali sui paesi “in via di sviluppo”, il contadino quasi autosufficiente del villaggio di montagna è considerato più povero del manovale occasionale e perfino del ladro o del mendicante nello slum alla periferia della città perché, a differenza di questi ultimi, per la sua sussistenza non fa quasi alcun uso del danaro contante ed è perciò del tutto escluso dall’economia capitalista. L’idea è forse che il fatto di partecipare a questa sia già in sé un contributo al progresso dell’umanità, ma direi che i disastri ecologici e non solo a cui siamo di fronte dovrebbero far pensare piuttosto il contrario: che il contributo stia invece nel sotrarre una persona in più a questi meccanismi, al consumo del territorio e delle risorse naturali e nel rapportarsi con la Natura in modo equilibrato e sostenibile, come fanno appunto gli abitanti dei villaggi tradizionali.

Ma, a ben guardare, neppure è l’aver soldi o ricchezze il vero valore fondante nella nostra società: molto di più questo sta nel fatto di spenderli. Se si ha la possibilità di spendere – e lo si fa – lì davvero si acquistano status e considerazione.
Non a caso le imposte si applicano in modo molto più pesante quando le proprietà sono mantenute nella loro forma statica, conservativa: le case - gli immobili per l’appunto – vengono tassate pesantemente mentre i patrimoni finanziari (fondi vari ecc…) non devono neppure essere dichiarati. In questa fase terminale del capitalismo sempre più accelerata, finanziaria, virtuale e con sempre meno rapporti con l’economia reale-produttrice/conservatrice di beni utili, i soldi, la capacità di spesa, i mezzi devono muoversi, partecipare al vortice del mercato: se seguono ritmi più lenti, più prudenti, se tendono a risparmiarsi e mantenersi (né disperdersi né accrescersi) bisogna fargliela pagare, come in un parcheggio a pagamento. Non basta che ti sei comprato una macchina, questa deve continuare a (far) circolare (denaro), anche quando sta ferma.
La capacità di spesa ed il suo esercizio è il fondamento della dignità della persona, del suo apprezzamento sociale (potremmo dire del suo rating, perché no? Del resto segna lo spread che c’è tra lui ed i suoi simili) ed infatti è la cosa che molti ostentano, perfino quando non ce l’hanno veramente, perfino quando per questo sono costretti a indebitarsi. Le società umane si basano su valori culturali, di status, come le melodie del pifferaio magico di turno dietro al quale i più si accodano danzando fino ed oltre il precipizio.

Nessuno spot è stato più berlusconianamente rappresentativo della nostra epoca di quello in cui tutti i passanti ringraziavano il “signor Rossi” che se ne andava in giro con la borsa della spesa piena di acquisti, come un eroe (forse neanche più borghese, ma nazional-popolare) che aveva contribuito al benessere del Paese: non a caso, non con il suo lavoro (lo spot non ci dice mica come li ha fatti i soldi, né a molti ciò interessa più nulla, neppure se lo dovessero votare), ma con la sua spesa.
La busta della spesa, simbolo del consumatore, potrebbe degnamente sostituire il tricolore nazionale come nuova bandiera, aggiornata ai tempi (potremmo suggerirla per la Padania eventualmente, quando si farà). E la si potrebbe fare comunque in tre colori, gli altri due a significare altri due sensi per cui il simbolo della ‘busta’ rappresenta ciò che è fondante davvero in questo paese: la ‘busta paga’ come elemento di ricatto che tiene insieme la pace sociale, e la ‘bustarella’ che continua ad oliare e far girare tutto il sistema nel suo intreccio tra istituzioni e mondo degli affari.

Ma il processo è in via di perfezionamento: non basta ormai una comune capacità di spesa; lo spread sociale aumenta e mentre i ricchi si arricchiscono c’è una fascia della popolazione (mondiale da sempre, ma vieppiù anche qui da noi) che rimane ai margini e sotto al minimo sufficiente per essere rilevante. Ci si preoccupa di tassare i ricchi perché sarebbero questi a far girare l’economia anche per gli altri. Per questa nicchia sociale di massimo livello tutti devono preoccuparsi, anche perché, sebbene i loro profitti resteranno privati, le loro eventuali perdite sarebbero socializzate, e questo non è interesse di nessuno. Nel sistema capitalistico giunto a questo livello di sviluppo non è la popolazione di un paese nel suo insieme che serve a mantenere in salute l’economia: il problema diventa, al contrario, mantenere in vita la parte più debole della società in modo che tiri avanti senza crear troppi problemi e troppa spesa. Senza richiedere troppe risorse che sarebbero destinate allora a fini pubblici mentre i beneficiari non potrebbero comunque costituire un target rilevante di consumatori.
La colpa della gente normale è evidentemente quello di sapersi accontentare – oltre un certo limite - di vivere in condizioni normali o il realismo di capire che non si può esser sempre tutti in competizione e sempre tutti vincenti. Tutt’altro.

Basta dunque che questa fascia di popolazione a basso reddito sopravviva e guardi la televisione; continui a credere nei miraggi consumistici come orizzonte mentale, ma anche si accontenti perché tanto dovrà farlo comunque. Importante è che si continui a credere di star tutti nella stessa barca, che gli interessi di chi ha creato il debito sovrano e di chi deve pagarlo siano comuni.

In queste settimane sto lavorando come avventizio presso un’azienda agricola per la raccolta dell’uva. Assunzione in regola e tariffa oraria legale accettata dai sindacati a livello territoriale. Regione ‘rossa’ del centro Italia, non siamo al Sud. Sapete quant’è? Quattro virgola sei (4,6) euro netti l’ora: la “bellezza” di 37 euro al giorno per otto ore (5+3) ininterrottamente a raccogliere uva, in piedi o piegati, con il sole o con il fango e, se piove, si aspetta che smetta sotto un riparo di fortuna anche un paio d’ore…naturalmente non pagate. Tranne uno spagnolo, un indiano e un macedone, i miei quaranta colleghi di lavoro sono tutti italiani e ce ne sono diversi sopra i sessant’anni che vivono di queste occupazioni da tutta la vita.
I vendemmiatori sono generalmente persone che sanno mantenere il buonumore; ieri c’era parecchio fango per terra e qualcuno scherzando diceva: “…e a noi invece ci hanno ‘affondato nel lavoro’”. Una battuta azzeccata in un senso anche molto più generale.

giovedì 14 luglio 2011

Un appello per le api e per gli apicoltori

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Rispondo volentieri all'appello di Marisa Valente e Renato Bologna cercando di contribuire alla sua diffusione. Anche io ho da poco iniziato ad allevare api e credo sia comunque un problema di tutti per l'importanza fondamentale che esse hanno per l'ecosistema, insieme agli apicoltori




Sciopero della fame e presidio contro i neonicotinoidi




di Marisa Valente e Renato Bologna

"... Nel 2004 non siamo più riusciti a far passare l'inverno alle famiglie tanto erano spopolate, al punto da essere costretti a riacquistarne una sessantina, complete sui 10 favi per poter affrontare la stagione apistica 2005 e reintegrare l'apiario. Quest'anno ci ritroviamo in una situazione ancora peggiore: abbiamo potuto constatare che nel periodo luglio-agosto il calo è stato drastico, dell'80%, e stiamo procedendo a riunioni esasperate per tentare di salvare almeno qualche vecchio ceppo di api più resistenti alla varroa..."

Con questa lettera, il 7 settembre 2005, denunciavamo per la prima volta, ai vari amministratori della nostra regione, la situazione critica della nostra attività.

Siamo arrivati al 2011 e nulla è cambiato. Ogni anno lo stesso problema in quanto la nostra azienda è situata in una delle più rinomate zone di coltivazione della vite dell'astigiano, ai margini del Parco Naturale di Rocchetta Tanaro. La moria delle api causata dai trattamenti "obbligatori" per la flavescenza dorata delle viti, trattamenti che tra l'altro non hanno ancora risolto il problema. Pesticidi a base di neonicotinoidi che irrorati anche una sola volta sono letali per le api. E questo è conclamato: infatti tali prodotti erano utilizzati anche per la concia delle sementi del mais e sono stati vietati già da qualche anno.
Ad oggi più di 50 prodotti diversi a base di neonicotinoidi sono stati iscritti nel registro del Ministero della Sanità (molti sono autorizzati addirittura per la "lotta integrata") per l'impiego sulle principali colture ortofrutticole, (pomodoro, melanzana, peperone, cetriolo, zucchino, melone, cocomero, cavolo a infiorescenza, a foglia, a testa, cavolo rapa, cardo, prezzemolo, basilico, rosmarino, cerfoglio, erba cipollina, lattughe e altre insalate, fagiolo, fagiolino, pisello, porro, cipolla, carciofo, fragola, patata, frumento, orzo, erba medica, tabacco, olivo, melo, pero, pesco, susino, ciliegio, mandorlo, albicocco, arancio, clementino, mandarino, limone, pompelmo, vite), per la floricoltura e per altri impieghi collaterali (antitarme, moschicidi, antipulci), senza minimamente preoccuparsi della loro grave tossicità anche a dosi subletali sugli insetti come le api. Un fatto gravissimo in quanto importanti studi scientifici ne hanno già provato la tossicità sia a livelli acuti che cronici a dosi bassissime.

Per la cronaca le api contribuiscono in maniera determinante all'impollinazione di oltre il 225.000 specie vegetali, il 70% di quelle di interesse agricolo, il 90 % dei fruttiferi, ortaggi, ecc.
La perdita delle api non colpisce solo direttamente gli interessi degli apicoltori, ma sono il segnale di allarme per un danno ambientale dalle conseguenze inimmaginabili, come bene illustra il tossicologo olandese Tennekes nel suo ultimo lavoro: “The systemic insecticides: A disaster in the making” (Gli insetticidi sistemici: un disastro in preparazione).

Nel nostro piccolo le conseguenze per la nostra azienda sono enormi: produciamo prodotti per apiterapia, pappa reale, embrioni di regina, pandapi, polline, miele in favo e dalle analisi condotte (dall'ASL e da un laboratorio privato) abbiamo la prova che la perdita di popolazione di api e la perdita di capacità di autodifesa delle api restanti, sono causate dai neonicotinoidi. A questo si aggiunge la scoperta della contaminazione di alcuni prodotti dell'alveare con questi insetticidi.
Questo è inaccettabile per noi, non ce la sentiamo di nascondere il problema e tacere di fronte all'evidenza.
Se non cambiano le regole di impiego di questi insetticidi rapidamente dovremo chiudere l'azienda con la perdita certa dei nostri beni dati in garanzia per il mutuo non più onorato a causa del calo delle entrate.
E chiuderemmo con un portafoglio di ordini che ci consentirebbe di far fronte a ogni impegno creando anche occasioni di lavoro.

Per questa ragione abbiamo deciso di esporci ed attivarci personalmente, a sostegno anche del lavoro svolto da Francesco Panella presidente dell'Unione Nazionale Associazioni Apicoltori Italiani (UNAAPI), che da anni si batte per lo stesso problema, a livello regionale, nazionale ed europeo.
Inizieremo quindi uno sciopero della fame il 4 di luglio 2011, con un presidio ad oltranza a Torino, davanti alla Regione Piemonte in C.so Stati Uniti, fintanto che le autorità non sottoscriveranno serie garanzie per ritirare dal mercato gli insetticidi in questione.
Per ulteriori info, sul sito internet www.rfb.it/bastaveleni pubblicheremo in "diretta" gli aggiornamenti.

Appello

L'autorizzazione all'impiego dei neonicotinoidi deve essere definitivamente revocata, per tutti gli impieghi , non solo quelli destinati alla concia del mais !

In qualsiasi periodo vengano utilizzati, sotto qualsiasi forma, questi insetticidi sistemici restano nella linfa della pianta e le api hanno infinite possibilità di entrarne in contatto: attraverso nettare, polline e l'essudazione della pianta, per melata, guttazione o rugiada. Dobbiamo riuscire a far revocare almeno questi neonicotinoidi già registrati, oltre ad impedirne le nuove registrazioni. La nuova normativa peraltro lo esigerebbe, ma non si sa quando verrà applicata davvero.

Chiediamo al Presidente della Regione Piemonte, l'avv. Roberto Cota, di applicare il diritto a salvaguardare un patrimonio locale come l'apicoltura vietando l'impiego dei questi insetticidi sistemici, appellandosi al principio di precauzione, per la salvaguardia dell'ambiente, del patrimonio degli insetti pronubi impollinatori, come le api ed anche della salute umana: a questo riguardo ci sono evidenze scientifiche che confermano che anche i mammiferi subiscono danni dall'ingestione cronica di piccolissime dosi. Auspichiamo che si faccia promotore presso la Conferenza Stato Regioni di questa necessità affinchè la revoca sia su tutto il territorio nazionale, oltre che presso la Comunità Europea.
Ci sono tutti gli strumenti legislativi per farlo immediatamente.

Abbiamo deciso di sacrificare il nostro lavoro per iniziare lo sciopero della fame poichè non abbiamo più alternative: proseguire a lavorare vedendo le api soccombere in preda agli spasmi dovuti all'intossicazione dal veleno, sapendo che questo è entrato nell'alveare e contaminerà il prodotto, non è più possibile per noi. Da qualche anno non siamo più in grado di evadere gli ordinativi e rischiamo di chiudere. L'alternativa è di smettere di lavorare nel luogo che fu un paradiso per le api, ricco di biodiversità, svendere la nostra proprietà (chi compra dove neanche le api sopravvivono?) ed emigrare in un posto dove si possa lavorare.
Tutto questo ci sembra profondamente ingiusto e non riusciamo a comprendere come possano essere più importanti gli interessi di chi produce questi prodotti (esistono molte alternative) rispetto agli interessi di chi promuove la salvaguardia dell'ambiente e della salute di coloro che vivono sul territorio.
Abbiamo deciso di dire basta e tentare questa ultima carta.

Ci rivolgiamo a tutte le persone che hanno a cuore la natura, che desiderano salvare le api, che desiderano cambiare questo modello di sviluppo basato solo sul profitto immediato, senza nessuna attenzione ai danni provocati all'ambiente e alla salute, a coloro che desiderano una agricoltura che produca cibi sani anzichè spazzatura tossica. Aiutateci a raggiungere l'obiettivo di questa battaglia.

Sul sito www.rfb.it/bastaveleni troverete le informazioni sull'argomento: agite in autonomia, aprite presidi, volantinate, diffondete via internet. Sarà un sogno riuscirci, ma a volte i sogni si avverano!

Ci serve anche un aiuto finanziario e chi volesse sostenerci così può utilizzare un semplice bollettino di Conto Corrente Postale versando sul conto n. 1000095776 intestato ad Amici della Fattoria. Ringraziamo sin d'ora tutti coloro che almeno faranno girare questo appello.

Marisa Valente 3343403464
Renato Bologna 3208310702

email: fattoria @ atlink.it

Per firmare l'appello clicca qui.

lunedì 11 luglio 2011

Un articolo sulle speculazioni finanziarie

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Traggo dal sito www.clarissa.it questo interessante articolo di Gaetano Colonna che mi pare illustri molto realisticamente ciò che sta succedendo in questi giorni sui mercati finanziari italiani ed europei

Come si conquista un Paese: l'attacco della finanza internazionale all'Italia
di G. Colonna
Pubblicato il 10 Luglio 2011


L'attacco della speculazione che venerdì 8 luglio 2011 è stato diretto dalla finanza internazionale contro la Borsa italiana, provocando un ribasso del 3,47% pari a una perdita di 14,1 miliardi di capitalizzazione, non è una semplice operazione finanziaria. Chi continua a parlare dei "mercati finanziari" come di una divinità che organizza la vita delle società contemporanee sa perfettamente che questi anonimi "mercati finanziari" hanno nomi e cognomi. Sono uomini e gruppi che hanno precisi interessi e chiari obiettivi. Come in ogni operazione di destabilizzazione di un intero Paese, cioè, vi sono degli scopi ed essi sono oggi chiaramente individuabili.
L'Italia viene attaccata perché in realtà è uno dei Paesi dell'Occidente che meglio ha retto fino ad oggi la crisi finanziaria del 2007, grazie al fatto che i suoi cittadini e la rete delle sue piccole e medie imprese non hanno mai completamente dato ascolto alle sirene della globalizzazione finanziaria. Alcune sue imprese, le sue banche e le sue compagnie assicurative rappresentano quindi oggi un appetitoso obiettivo per chi spera di poterle ricomprare fra qualche mese a prezzi stracciati.
L'Italia viene attaccata perché un suo tracollo economico-finanziario rappresenterebbe il colpo definitivo all'euro e quindi al processo di unificazione europea che sulla moneta unica ha puntato (erroneamente) tutta la propria credibilità; e non vi sono dubbi che, senza l'ultimo presidio del Vecchio Continente, una visione sociale dei rapporti economici verrebbe definitivamente seppellita dalle forze montanti del capitalismo finanziario, da un lato, e dei nuovi capitalismi di Stato, come quello cinese, che, dall'altro, stanno avanzando senza freni sullo scenario mondiale.
L'Italia viene attaccata perché il nostro Paese ha una posizione determinante rispetto ai futuri assetti del Mediterraneo e del Medio Oriente e la confusa ma ancora in qualche modo persistente difficoltà italiana ad allinearsi completamente ad una politica forsennatamente filo-israeliana e di democracy building all'americana nei Paesi arabo-islamici, rappresenta oggi un ostacolo che deve essere rimosso in breve tempo.
Infine, l'Italia viene attaccata perché la sua classe dirigente, di destra centro sinistra, ha dimostrato di non intendere minimamente quale sia la posta in gioco, essendo strutturalmente impegnata in basse lotte di potere, nella difesa di interessi personalistici e nella copertura di vaste reti di corruzione, condizionamento e compromesso che ne minano alla radice qualsiasi capacità operativa e strategica.
Il potere politico che il capitalismo finanziario mondializzato ha acquisito attraverso la capacità di destabilizzare in modo diretto interi Stati, come dimostrato ampiamente negli ultimi anni, dall'Argentina alla Grecia, dipende da una premessa fondamentale che è stata acriticamente accettata da economisti e politici, vale a dire che proprio gli strumenti della finanza (credito, debito, moneta, assicurazioni, con tutti i loro molteplici derivati moderni) siano i migliori mezzi per garantire la maggiore efficienza nella raccolta e nell'allocazione dei capitali. Il classico concetto dell'economia capitalista della efficienza dei meccanismi auto-regolatori del mercato, grazie al gioco di domanda ed offerta, è stato allargato dal mercato dei beni a quello dei capitali, nonostante costituisca uno dei presupposti del capitalismo, scientificamente e storicamente, dimostratosi del tutto insufficiente, quando non addirittura errato.
Nel caso dei mercati dei beni, questa arcaica interpretazione del rapporto fra domanda, offerta e formazione dei prezzi sostiene, come si sa, che all'aumentare del prezzo di un prodotto, giacché i produttori ne accrescono la produzione in vista di maggiori ricavi, i consumatori riducono la loro domanda, determinando una riduzione e dunque un riequilibrio fra domanda e offerta, che si rifletterebbe positivamente sui prezzi stessi. Per quanto questa presunta legge sia, già nel caso del mercato "tradizionale" dei beni, come è stato dimostrato a suo tempo da Rudolf Steiner, un'arbitraria semplificazione di un meccanismo assai più complesso ed articolato(1) - nel caso dei mercati finanziari, si tratta di una vera e propria falsificazione. Scrivono infatti alcuni economisti "non allineati":
"Quando i prezzi [delle azioni] crescono, è comune osservare non una riduzione ma una crescita della domanda! Infatti, prezzi crescenti significano un più alto profitto per coloro che possiedono azioni, a motivo dell'incremento di valore del capitale investito. La salita del prezzo attrae in questo modo nuovi acquirenti, cosa che rafforza ulteriormente la tendenza iniziale all'aumento. La promessa di dividendi spinge i trader ad incrementare ulteriormente il movimento. Questo meccanismo funziona fino a quando la crisi, che è non prevedibile ma è inevitabile, si verifica. Questo determina l'inversione delle aspettative e quindi la crisi. Quando il processo diventa di massa, determina un "contraccolpo" che peggiora gli iniziali squilibri. Una bolla speculativa consiste quindi di un aumento cumulativo dei prezzi, che si auto-alimenta. Un processo di questo tipo non produce prezzi più convenienti, ma al contrario prezzi sperequati"(2).
La visione del mercato finanziario come potere regolatore di ultima istanza degli assetti economici mondiali, ha conferito alle forze speculative in esso presenti la possibilità di esercitare un potere di condizionamento politico: non vi è più alcun Paese al mondo che non dipenda in qualche modo da questa ristrettissima élite di signori del denaro, i quali dispongono di uno strumento ideale di controllo, costituito dalle agenzie di rating che, a livello mondiale, sono soltanto cinque, delle quali tre hanno un monopolio di fatto del settore.
Moody's e Standard&Poor's hanno rappresentato nell'attacco all'Italia, come già avvenuto nel caso della Grecia un anno fa e in tanti altri ancora prima, la vera e propria "voce del padrone". Sono stati infatti gli outlook (previsioni) di queste due agenzie di rating, emanati a fine giugno, a dare al mondo della speculazione il segnale che si poteva e si doveva colpire ora l'Italia. Personaggi come Alexander Kockerbeck, vice-presidente di Moody's, o come Alex Cataldo, responsabile Italia della stessa agenzia, emettono nelle loro interviste vere e proprie sentenze sul presente e sul futuro destino economico del nostro Paese, senza essere dotati di alcuna autorità per poterlo fare.
La fonte del loro potere, che non ha precedenti nella storia, sta infatti semplicemente nel fatto di essere emanazione di società finanziarie internazionali, che ne possiedono interamente il capitale societario, le stesse società finanziarie di cui dovrebbero valutare obiettivamente prodotti e performance.
"Il primo azionista di Moody's, con il 13,4% del capitale, risultava a fine dicembre del 2009, secondo rilevazioni Reuters, Warren Buffett, il guru di Omaha con il suo fondo Berkshire Hathaway. Al secondo posto con il 10,5% ecco comparire Fidelity, uno dei più grandi gestori di fondi del mondo. E poi è un florilegio di gente che di mestiere compra e vende titoli: si va da State Street a BlackRock a Vanguard a Invesco a Morgan Stanley Investment. Insomma i più grandi gestori di fondi a livello mondiale sono azionisti di Moody's. E guarda caso lo stesso copione si riproduce in Standard&Poor's: ecco nell'azionariato comparire in evidenza, a fine 2009, i nomi di Blackrock, Fidelity, Vanguard. Gli stessi nomi. Il che pone una domanda. Che ci fanno gestori di fondi nel capitale di chi dà i voti ai bond emessi dalle stesse società che abitualmente un gestore compra e vende?"(3).
Queste agenzie non hanno alcuno status giuridico, nemmeno negli Stati Uniti; il loro ruolo è stato reso possibile semplicemente dal fatto che il governo degli Stati Uniti le ha definite Nationally Recognized Statistical Rating Organizations (NRSRO) e lo stesso ha fatto la Securities and Exchange Commission (SEC), agenzia governativa che vigila sui mercati azionari(4). Nonostante le numerose inchieste e audizioni tenutesi negli Usa, proprio come pochi giorni fa è avvenuto in sordina anche presso la Consob italiana, senza che il pubblico sia edotto di quanto emerso, Moody's, Standard&Poor's e Fitch continuano da anni a macinare profitti incredibili, sebbene le loro previsioni si siano dimostrate semplicemente ridicole, come mostrano il caso del crollo della Enron o quello di Lehman Brother's, quando di queste aziende le agenzie in questione hanno continuato a dare fino ad un minuto prima del crack valutazioni di altissima affidabilità. In merito ai loro profitti, diamo di nuovo la parola al già citato giornalista de Il Sole 24 Ore:
"Moody's, solo nel 2009, per ogni 100 dollari che ha fatturato ne ha guadagnati sotto forma di utile operativo ben 38. Su 1,8 miliardi di ricavi fanno un margine di 680 milioni. Ma attenzione, quel 38% di redditività è un mix tra i servizi di analisi e quelli di assegnazione dei rating. Solo sul mestiere più remunerativo, quello appunto dell'assegnare pagelle, la redditività balza al 42% sui ricavi. Un exploit il 2009? Niente affatto. Gli anni d'oro sono stati altri: nel 2007 il margine operativo era al 50% dei ricavi e
nel 2006 si è toccato il picco del 62% di utili operativi sul fatturato. Un'enormità: 1,26 miliardi di margine su 2 miliardi di fatturato. Se poi si va all'utile netto la musica non cambia. Dal 2005 al 2009 Moody's ha generato profitti per complessivi 2,8 miliardi"(5).
Si dà quindi il caso del tutto unico che i nostri Paesi siano soggetti a valutazioni di valore internazionale da parte di agenzie che da tali valutazioni traggono direttamente profitto e che sono per di più di proprietà di società finanziarie che da quelle valutazioni possono trarre a loro volta direttamente profitto! Quale affidabilità possano avere e quale valore di regolazione giuridica di mercato, lo lasciamo facilmente dedurre al lettore.
"Stimare il valore di un prodotto finanziario non è paragonabile al misurare una grandezza oggettiva, come, ad esempio, stimare il peso di un oggetto. Un prodotto finanziario è un titolo su di un reddito futuro: per valutarlo, si deve stabilire in anticipo quale sarà questo futuro. Si tratta di una stima, non di una misura obiettiva, dato che nel momento "t" il futuro non è in alcun modo determinato. Negli uffici dei trader è ciò che gli operatori si immaginano che accadrà. Il prezzo di un prodotto finanziario è il risultato di una valutazione, una opinione, una scommessa sul futuro: non vi sono garanzie che questa valutazione dei mercati sia in alcun modo superiore a qualsiasi altra forma di valutazione.
Prima di tutto, la valutazione finanziaria non è neutrale: influisce sull'oggetto che intende valutare, dà avvio e costruisce il futuro che essa immagina. Per questo, le agenzie di rating svolgono un ruolo importante nel determinare il tasso di interesse sui mercati dei bond, assegnando pagelle che sono altamente soggettive, se non addirittura guidate dal desiderio di accrescere l'instabilità come fonte di profitti speculativi. Quando queste agenzie tagliano il rating di uno Stato, accrescono il tasso di interesse richiesto dagli attori finanziari per acquistare titoli del debito pubblico di questo stesso Stato e in tal modo accrescono il rischio della stessa bancarotta che hanno annunciato"(6).
Se dunque il mito dell'efficienza dei mercati finanziari rappresenta il presupposto ideologico di queste operazioni e le agenzie di rating l'incredibile strumento di coordinamento della speculazione, capace di rendere auto-realizzantesi le proprie profezie, occorre mettere in giusta evidenza il fatto che alla base dell'attuale critica situazione dei Paesi europei sta uno specifico elemento, assai poco noto al largo pubblico, vale a dire che il Trattato di Maastricht, nel quadro delle politiche iper-liberiste allora di gran moda, ha fatto un oggettivo regalo ai poteri del capitale finanziario internazionalizzato, allorché ha sancito le modalità che gli Stati membri devono seguire per approvvigionarsi di moneta.
"A livello di Unione Europea, la finanziarizzazione del debito pubblico è stata inserita nei trattati: a partire dal trattato di Maastricht, le banche centrali hanno il divieto di finanziare direttamente gli Stati, i quali devono quindi trovare prestatori sui mercati finanziari. Questa "punizione monetaria" è accompagnata dal processo di "liberalizzazione finanziaria", che è l'esatto opposto delle politiche adottate dopo la Grande Depressione degli anni Trenta, che prevedeva la "repressione finanziaria" (vale a dire severe restrizioni alla libertà di azione della finanza) e "liberazione monetaria" (con la fine del gold standard). Lo scopo dei trattati europei è di assoggettare gli Stati, che si presuppone siano per natura troppo propensi allo sperpero, alla disciplina dei mercati finanziari, che sono ritenuti per natura efficienti ed onniscienti"(7).
Ecco quindi come, dal livello filosofico-ideologico che santifica i "mercati finanziari", accolto acriticamente ma interessatamente dalle élite dei tecnocrati comunitari, si sia aperto per legge il varco in Europa all'uso politico del potere del denaro, giungendo a condizionare in modo diretto la vita di intere comunità nazionali: il fatto che gli Stati (e, come loro, regioni, provincie e comuni) siano dovuti andare a cercare i soldi sui mercati finanziari, proprio mentre il credito veniva, come in Italia, trasformato per legge da funzione sociale ad attività esclusivamente lucrativa, pone i nostri Paesi in completa soggezione ai signori della moneta.
Questo non significa affatto voler sorvolare sulle oggettive responsabilità di classi dirigenti, tra cui quella italiana, che non vogliono affrontare radicalmente la questione dell'efficienza delle pubbliche amministrazioni, per il semplice fatto che il pubblico impiego rappresenta un gigantesco serbatoio clientelare che di fatto perpetua la loro sopravvivenza politica, altrimenti inspiegabile. Significa semplicemente dire, in modo chiaro e definitivo, che l'inefficienza delle amministrazioni pubbliche, che continuano a sprecare somme enormi senza alcuna contropartita sul piano collettivo, non è una valida giustificazione per tollerare le ripetute aggressioni della speculazione internazionale.
Quando giornalisti, che per mestiere dovrebbero disporre di informazioni e dati assai più completi e articolati di quelli che arrivano al largo pubblico, scrivono ancora, su autorevoli quotidiani nazionali, che "quella che continuiamo a chiamare speculazione internazionale in realtà non è altro che la logica di mercato che cerca di sfruttare le occasioni", non è sciocco chiedersi se si tratta di mala fede o di semplice ottusità: abbiamo infatti già visto che la cosiddetta "logica di mercato" è una logica ideologica e politica. Il mercato, come sacro regolatore dell'economia, non esiste, mentre esistono attori che nel mercato operano, tra i quali, non certo sacri ma a quanto pare intoccabili, sono gli speculatori e le agenzie di rating di loro emanazione: di tutti costoro si sa ormai perfettamente da anni chi sono, cosa fanno e perché.
Se fossero semplicemente i deficit e le cattive amministrazioni pubbliche a giustificare le "ghiotte occasioni" per la speculazione, questi giornalisti dovrebbero allora chiedersi come mai la speculazione finanziaria colpisca l'Europa e non gli Stati Uniti, il cui debito pubblico è assai più alto di quello medio europeo, e come mai gli attacchi si dirigano contro l'Italia o la Grecia e non contro la California, uno stato americano che è in conclamata bancarotta da anni! Se fossero semplicemente il debito pubblico e la cattiva amministrazione a giustificare questi attacchi, ci si dovrebbe chiedere come mai siano sotto tiro grandi imprese bancarie e assicurative italiane, che hanno applicato alla lettera da anni i più avanzati dettami del capitalismo finanziario globalizzato. Qualcuno dei responsabili di queste aziende sembra cominci ad accorgersene, ora che si trova sotto tiro, stando almeno a quanto ha dichiarato il 9 giugno Giovanni Perissinotto, amministratore delegato del gruppo Generali:
"C'è necessità di una risposta centralizzata e coordinata a livello europeo contro attacchi speculativi, anch'essi coordinati, che stanno investendo alcuni Paesi mediterranei ma che si propongono anche di mettere in discussioni la stessa stabilità dell'euro. (...) Nei ribassi di questi giorni le imprese sono impotenti. Noi siamo disciplinati, promuoviamo l'efficienza, tagliamo i costi. In tutti i Paesi seguiamo una politica di investimenti coerente con gli impegni assunti con gli assicurati. Ma non possiamo continuare ad essere così duramente colpiti dai mercati perché difendiamo il nostro Paese. In una parola perché continuiamo ad investire in titoli di Stato italiani dove sono residenti una parte significativa dei nostri clienti"(8).
Viene quindi finalmente in evidenza, ed è forse l'unico aspetto positivo della tempesta che si annuncia nei prossimi mesi sull'Italia, la necessità di sottrarre i nostri Paesi radicalmente al condizionamento del capitale finanziario internazionalizzato, riaffermando il principio che, nelle nostre democrazie, la gestione della cosa pubblica è demandata a rappresentanti eletti dal popolo. In questa prospettiva, la liberazione delle nostre economie passa per alcuni punti fondamentali, la cui comprensione non necessita delle spericolate alchimie degli economisti di mestiere: in primo luogo, le imprese devono tornare a rendere conto non agli azionisti ma ai consumatori ed ai lavoratori e la loro efficienza si deve misurare su questo piano, non su quello della loro attività in borsa; in secondo luogo, le pubbliche amministrazioni devono essere snellite a livello territoriale e basate su principi di semplificazione burocratica, efficienza di gestione, qualificazione del personale, spirito di servizio; in terzo luogo, il credito deve tornare ad essere considerato primariamente funzione sociale e quindi deve essere posto sotto il controllo delle forze della produzione economica e non della speculazione e, di conseguenza, lo stesso deve avvenire per la creazione della moneta e dei correlati strumenti finanziari; questi ultimi devono essere in chiara e proporzionata relazione con i beni ed i servizi effettivamente sottostanti e la loro commercializzazione deve potere seguire percorsi chiaramente tracciabili; le attività finanziarie devono essere tassate in modo proporzionale ai volumi posseduti ed all'ampiezza della loro utilizzazione.
Come segnale inequivoco della strada da intraprendere, è a nostro avviso oggi necessario richiedere con urgenza l'apertura di un'inchiesta internazionale sulla condotta delle agenzie di rating, da promuovere presso le Nazioni Unite, allo scopo di verificarne composizione azionaria, conflitti di interesse, liceità delle attività svolte ed effetti diretti ed indiretti della loro condotta sulle economie dei singoli Paesi negli ultimi venti anni; nel frattempo, le attività di rating di queste agenzie, in quanto parti interessate, dovrebbero essere sospese a tempo indeterminato. Si porrebbe in tal modo, in definitiva, all'attenzione dei popoli la questione della sovranità economica delle comunità nazionali che deve essere oggi considerata l'irrinunciabile presupposto per intraprendere il risanamento dei nostri Paesi. Dubitiamo che le attuali classi dirigenti, tra le quali quella italiana, possano oggi porsi alla testa in Europa di un simile orientamento: ma è questa la sola via per riscattare i nostri popoli dalla schiavitù del debito.


1) R. Steiner, I capisaldi dell'economia, Milano, 1982, pp. 110-111.
2) Aa.Vv., "Crisis and debt in Europe: 10 pseudo "obvious facts", 22 measures to drive the debate out of the dead end", Real-world economics review, Issue no. 54, 27 September 2010, p. 19.
3) F. Pavesi, "Moody's, S&P e Fitch, ecco chi comanda nelle agenzie di rating", Il Sole 24 Ore, 9 maggio 2010.
4) F. William Engdahl, "The Financial Tsunami: Sub-Prime Mortgage Debt is but the Tip of the Iceberg", Global Research, November 23, 2007.
5) F. Pavesi, loc. cit.
6) Aa.Vv., "Crisis and debt in Europe", cit., p. 23.
7) Ivi, p. 26.
8) G. Perissinotto, "Serve una risposta europea agli attacchi", Il Sole 24 Ore, 9 luglio 2011

FONTE: www.clarissa.it

mercoledì 15 giugno 2011

Grazie Fukushima!

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Certo, pensare di dover dir grazie alla tragedia avvenuta a Fukushima non è una bella cosa.
Non fa star bene: per noi è stata una notizia shokkante, ma per chi in questa “notizia” c’è stato dentro è stata la morte o la perdita dei propri cari; per molti continuerà ad essere una malattia o una lunga agonia; per chissà quanti esseri viventi non umani sulla terra e nel mare dove è stata riversata la radioattività già è cominciata in qualche modo una fine del mondo. Ce ne sono state e ce ne saranno tante: il mondo come Natura chiaramente non finisce mai, non fa che trasformarsi incessantemente, ma il mondo come un certo tipo di forma di vita o di insieme di forme di vita, quello che conosciamo e per il quale saremmo adatti a vivere è soggetto a finire. Non siamo indispensabili.
Ed è proprio per questa caducità, questa vulnerabilità, che è tutt’una con la vita, che non possiamo non sentire un moto di repulsione all’idea di dover ringraziare un evento così terribile.

Eppure, se dovessimo isolare un singolo elemento grazie al quale per la seconda volta la maggioranza degli italiani ha esplicitamente respinto l’ipotesi della presenza di centrali nucleari sul nostro paese, onestamente, quale dovremmo scegliere?
Non credo una preesistente prevalenza dell’opinione pubblica in questo senso: la tragedia di Chernobyl che aveva dato la spinta decisiva al referendum precedente era ormai per molti dimenticata e le abili manovre massmediatiche da parte dei direttamente interessati già preparavano il campo con una varietà di strategie comunicative studiate secondo il tipo di pubblico. C’era chi parlava dell’opzione nucleare come una questione da dare ormai razionalmente per scontata su cui rimaneva solo da stabilire dove e quando e quale modello di centrale scegliere (come per una nuova auto da acquistare) dato che aver ancora dei dubbi significava esser rimasti vent’anni indietro senza neanche essersi aggiornati abbastanza da sapere che ormai i reattori sono così sicuri che c’era la fila di personaggi ex-contrari che si arruolavano nella lista dei favorevoli. E c’era chi si approcciava col fare più prudente di chi responsabilmente si interroga (come nel famoso spot della partita a scacchi) sui pro e i contro quasi non fosse lì fin dall’inizio per sostenere il nucleare. Quasi che tutti i soldi spesi per lo spot e per garantire il “volume di fuoco” mediatico di decine di giornalisti votati a sminuire le notizie che arrivavano dal Giappone e negare l’evidenza del loro significato fino a quando ciò è divenuto manifestamente impossibile non fossero di per sé un buon motivo per non fidarsi.
Non credo neanche il pur generoso ed importante impegno degli attivisti per il SI, che se si son dati tanto da fare è stato proprio perché sapevano quanto potente fosse la pressione mediatica (prima in positivo e poi in negativo passando il referendum quanto più possibile sotto silenzio).
E non direi neppure perché il no al nucleare è stato in realtà un no al governo Berlusconi e alla maggioranza che lo sostiene: questo è ancora tutto da vedere. Il risultato congiunto delle altre tre consultazioni sembrerebbe confermarlo, ma chi, con un’ottica deformata in senso elettoral-partitocratico, volesse continuare a leggere qualsiasi cosa in questa chiave farebbe meglio ad essere prudente e chiedersi se la gente non si accorga che il maggior partito di opposizione (il cui segretario Bersani già dice “d’Italia” – forse tenendo da parte la Val di Susa dove il PD si prepara a mandare l’esercito) non ha affatto tenuto una posizione chiara né sull’acqua pubblica né sul nucleare fino al momento in cui è stato chiaro quali fossero le convenienze da raccogliere quanto alla posizione da tenere su queste votazioni. Ora Bersani ci prova a riscuotere il premio che suppone fosse in palio per il vincitore, ma forse non si accorge che se questo referendum ha un significato politico di rottura che va oltre il merito dei quesiti, questa ha una portata ben più ampia che rispetto a questo governo in particolare.

Purtroppo però, la percezione dell’urgenza di un cambiamento vero e profondo stenta ancora a diffondersi ed a farsi forza e pratica di alternativa, a far sentire il proprio peso in modo chiaro e non più confinabile nella marginalità dell’eccentricità politica o, al massimo, su questioni particolari ed episodiche.
Purtroppo ancora è forte la fiducia nella versione ufficiale, telegiornalica, dell’attualità ed ancora troppi pochi percepiscono la portata del cambiamento necessario.
Purtroppo è solo in seguito alle catastrofi e sulla spinta della paura che si ritrova la lucidità di sapere che non siamo in un film a lieto fine: non c’è stato per nessun impero nella Storia come non c’è stato per i dinosauri. Alla lunga solo chi è adatto sopravvive: non sta scritto da nessuna parte che siamo indispensabili su questo pianeta. E adatto significa in armonia con gli equilibri della Natura.
Di quante Fukushima avremo ancora bisogno? Non solo per bandire il nucleare da tutti i paesi, ma dovremo prima vedere contaminazioni e mutazioni biologiche irreversibili per vietare gli OGM? E’ questo che chiamano “principio di precauzione”? Aspetteremo che si sciolga il permafrost della tundra inondandoci di carbonio per capire che il riscaldamento globale è un problema non rimandabile? O di ritrovarci con milioni di sfollati per l’innalzamento dei mari? Con mari senza più vita e terre senza acqua da bere? Continueremo a spendere il nostro tempo per procurarci merci inutili fino al punto che dovremo impiegare tutta la ricchezza in guerre per contenderci una triste sopravvivenza? Aspetteremo ancora a lungo di essere svegliati da questi disastri facendo finta che il punto sia scegliere tra chi campa di rendita sull’etichetta della “Destra” e chi su quella della “Sinistra”?

Giorgio Gaber diceva che “gli schiaffi di Dio appiccicano al muro”. A Fukushima purtroppo ne è arrivato uno di questi schiaffi (e sembra che il governo giapponese ancora non ci voglia sentire…). La sua eco ci ha convinto a non fare il gravissimo errore su cui ci stavano spingendo. Credo che c’è mancato poco, non fosse stato per Fukushima.
Non so se abbiamo motivo di essere soddisfatti di aver avuto bisogno di un tale segnale, ma possiamo esser contenti, questa volta, di avercela fatta. E forse anche un po’ orgogliosi.

Restiamo svegli.

giovedì 2 giugno 2011

L’ Economia del Futuro

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Domenica scorsa ho partecipato ad una camminata in collina con un gruppo di escursionisti. Dopo un po’, rimasto in coda al gruppo per godere meglio i suoni del silenzio nel bosco, fui attratto tuttavia da un discorso tra i due partecipanti che appena mi precedevano. Il dialogo verteva sulle preoccupazioni che destava in loro l’andamento dell’economia globale. Non erano certo degli economisti, ma mi colpì una domanda sulla quale continuai a rimuginare per buona parte del percorso: “si dice economia virtuale, ma da dove viene questa ricchezza? Da dove li tirano fuori i soldi che poi realmente ci fanno sopra?”.

Mi rendevo conto che la questione veniva posta in modo abbastanza rozzo – o così l’avrebbe certo giudicato un addetto ai lavori . D’altra parte mi sembrava che la sostanza del quesito non mancasse di una certa ragion d’essere: se c’è un’economia, se c’è chi vende e chi compra, chi spende, investe, acquista e guadagna, chi paga, chi perde, se c’è ricchezza che si crea, vuol dire che c’è qualcosa che dà origine a questo, qualcosa che passa di mano in queste transazioni, una sostanza di questi scambi.
Si dirà, certo, che si tratta in realtà perlopiù di ricchezza finanziaria, monetaria, e che il denaro è in ultima analisi una convenzione il cui valore di scambio alla lunga è legato alle condizioni dell’economia reale, quella produttiva. In questo senso i profitti dell’economia virtuale sarebbero una sorta di abbaglio momentaneo, speculazioni di corto respiro, il lancio di una scommessa destinata a cadere nel vuoto di una crescita presunta, ma della quale non ci sono più i presupposti né le condizioni ambientali.
Credo anche io sia così. Eppure, se su queste scommesse c’è chi gioca molto denaro, se c’è chi le vende e chi le compra queste scommesse, e si tratta di persone tutt’altro che sprovvedute quanto a movimentazione di capitali, e non appartenenti ad una nicchia marginale nel mondo finanziario, bensì alla tendenza che si è affermata a livello mondiale, mi sembra un po’ superficiale fermarsi a credere che tutta questa virtualità sia davvero basata sul nulla. Se così fosse la cosa sarebbe durata già abbastanza a lungo. E la crisi del 2008 sarebbe dovuta essere sufficiente ad imporre un’inversione di rotta.

Cosa sia, dunque, questa miniera dalla quale effettivamente si estrae ricchezza nell’era dell’economia virtuale è stata la domanda che ha continuato a ronzarmi in testa per il resto della camminata.

Qual è la materia dello scambio quando si muovono masse di capitali sulle probabilità di tenuta o di recessione (/crisi/fallimento) delle economie più fragili tra quelle dei paesi sviluppati? Quando si condizionano le loro capacità di far fronte ai debiti proprio esprimendosi a favore o contro queste stesse capacità (e giocando in borsa conseguentemente o, meglio, preventivamente)?
Qual è l’oggetto della speculazione quando si alza o si abbassa ad arte il valore commerciale previsto di materie prime o di prodotti agricoli dei paesi “in via di sviluppo” ancor prima che questi vengano effettivamente prodotti e decidendo della sopravvivenza o della fame per milioni di persone?
Qual è la ricchezza veramente persa quando “scoppiano” le bolle finanziarie per aver artificiosamente gonfiato le aspettative di crescita e di profitti in determinati settori dell’economia?
Cosa è che viene ipotecato quando le risorse disponibili per gli investimenti vengono indirizzate verso speculazioni virtuali e scommesse finanziarie anziché sul trovare risposte alternative (sociali, tecnologiche, nella ricerca, nella ridistribuzione, nell’occupazione, nel risparmio, nella conservazione…) alle conseguenze minacciose del modello economico che ha dominato il mondo finora e che continua a dominarlo avvelenandolo e minando perfino i presupposti del proprio stesso funzionamento?

La risposta che mi son dato è che l’oggetto di sfruttamento da cui estrae profitto questa economia è tanto virtuale quanto reale, ed è il Futuro. Le nostre possibilità di futuro e la sua qualità.

In una economia evoluta in cui la pianificazione è essenziale ed ogni progetto di portata significativa necessita di ingenti capitali il futuro è materia di investimento e pertanto esso stesso trattato già ora come una risorsa, un oggetto attorno al quale ruotano soldi così come lo sono il petrolio, il ferro o le armi.
Il Sistema capitalista-consumista nel corso degli ultimi secoli si è espanso come un tumore arrivando ad occupare tutto il pianeta e tutte le nicchie possibili per le attività economiche intese in termini di profitto. Durante questo processo si è alimentato di varie risorse il cui sfruttamento è stato centrale per ogni nuova fase di crescita: l’oro, la seta, le spezie, gli schiavi, i territori e le popolazioni delle colonie, il ferro, il petrolio, il capitale movimentato nel prestito internazionale…. e sempre con l’ausilio degli eserciti e delle mille forme dissimulate di propaganda. Ora che tutti gli spazi sono occupati, che l’economia reale non tiene il passo con le esigenze di vorticosa accelerazione di quella finanziaria e che nuovi concorrenti sul piano della produzione si fanno temibili, il mondo reale si rivela troppo piccolo per le esigenze del capitale ed occorre inventare una nuova risorsa, solo apparentemente virtuale, come nuovo terreno di sfruttamento e di colonizzazione su cui proiettare gli effetti delle azioni attuali.
Non nel futuro, ma proprio il futuro.
Quando si fa girare l’economia su presunzioni virtuali e le risorse finanziarie vengono spese su scommesse (per quanto complesse e raffinate) non si sta facendo solo uno spreco e correndo degli enormi rischi, ma soprattutto lo si sta facendo sulle spalle di chi subirà le conseguenze di questi giochi e si troverà a vivere nel mondo che questi trucchi ed i loro fallimenti sono destinati a creare. Niente affatto il mondo che segue naturalmente la sua strada guidato dalla “mano invisibile della domanda e dell’offerta”, ma il mondo come sarà dopo che l’ultima occasione per impiegare utilmente la ricchezza disponibile sarà stata perduta.
Gli investimenti dell’economia virtuale sono su scenari proiettati su un futuro più o meno prossimo, ma si tratta di scenari che ripetono negli schemi di fondo il presente e soprattutto il passato recente degli anni della crescita, del boom dei consumi e delle tecnologie di massa, dell’energia a buon mercato, dell’ideologia sviluppista e dell’ordine mondiale Nord-Sud. Schemi di un mondo che sta scomparendo a vista d’occhio, ma che è purtroppo l’unico che la maggior parte degli investitori e degli economisti sa vedere o anche solo immaginare.
Con questa mancanza di immaginazione si stanno gettando nel pozzo di una crisi vera sempre più prossima le risorse finanziarie utili a costruire un futuro possibile. Proiettando in avanti modelli economici che non potranno più funzionare e speculando su queste prefigurazioni si consumano le risorse finanziarie ed il tempo a disposizione che potrebbero fare una ricchezza reale e praticabile nei decenni a venire. In questo modo invece tale ricchezza viene di fatto estratta “a monte”di quello che sarà il futuro, impoverendolo.
Si sta comprando virtualmente qualcosa che non ci sarà vendendo quello che avrebbe potuto esserci .

Ragionando su queste cose ero rimasto indietro ed, una volta raggiunto il gruppo, ritrovai gli stessi due che continuavano a parlare. Ora guardavano la collina di fronte a noi e discutevano del piano forestale regionale che ancora non era stato fatto per stabilire quali appezzamenti erano adatti al taglio boschivo e quali no.
Davanti a i nostri occhi c’era la costa di un rilievo basso, ma molto ripido, sul quale era stato effettuato un disboscamento quasi totale su un suolo aspro e roccioso in cui era evidente la precarietà del sottile strato di terreno fertile che lentamente era riuscito a formarsi nel lungo corso del tempo: bastava guardarlo per sapere che pochi anni di piogge sarebbero bastati a portarlo via.

Ma noi siamo gente evoluta: non può certo bastarci ciò che si capisce col buon senso.
Per bandire gli ogm o il nucleare bisogna prima aver dimostrato che possano creare disastri incontrollabili, anzi, li devono aver già provocati – che poi è l’unico modo per dimostrarlo: quando è troppo tardi.
E per salvare un bosco dobbiamo aspettare la valutazione d’impatto ambientale.
Per gli avventurieri della finanza, invece, eroi del nostro tempo a cui dobbiamo tutto – ovvero il continuare a girare dell’economia consumistica - è garantita tutta la libertà e l’impunità:
compresa quella di giocare alla roullette russa con il futuro. La pistola puntata sui nostri cervelli.

venerdì 6 maggio 2011

Bin Laden forever: l’affermazione definitiva dello Sceicco (e soprattutto) del Terrore

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Nonostante la supina accettazione a tappeto della stragrande maggioranza dei giornalisti alle (peraltro contraddittorie) versioni ufficiali, l’unica cosa chiara in questa notizia del ritrovamento e dell’uccisione di Bin Laden è che ci sono troppe cose che non tornano per semplicemente crederci e basta come molti vorrebbero.

Alcune di queste cose non sono certo nuove, per esempio non ricordo di aver mai sentito o letto, dall’11 settembre 2001 in poi una esplicita rivendicazione da parte di Bin laden/Al Qaeda dell’attentato alle Torri Gemelle; che ne consideravano gli autori come “benedetti da Dio” sì, che erano totalmente solidali con quell’azione anche, ma che fossero stati loro non mi pare lo abbiano mai detto in modo esplicito come viene fatto in questi casi.

Un altro fatto singolare è che l’unico grande successo, finora, del primo premio nobel nominato non per aver fatto qualcosa, ma grazie alle sue intenzioni dichiarate, è stato l’essere il mandante di un omicidio.

Si vede bene, e una volta di più, come ormai i giornalisti mostrino apertamente - in una percentuale significatva della loro categoria, comprendente gran parte di quelli meglio piazzati - di essere la casta di prostituiti che sono diventati, pronti a negare - come già si è visto per Fukushima - ogni evidenza e ad accreditare ogni menzogna preconfezionata per manifesta che sia, basta che ciò gli assicuri il mantenimento dei loro lauti stipendi, la loro visibilità e rendita di posizione sociale e come le rare e coraggiose eccezioni che pur ci sono fra loro vengano emarginate e dileggiate pubblicamente (come nel trattamento indecente, da squadristi mediatici, riservato a Giulietto Chiesa su Radio 24) ed accusate di complottismo – termine sempre più in voga a cui ben presto si farà far rima con filo-terrorismo.

L’informazione sembra essersi ridotta ormai alla preparazione della politica con altri mezzi, così come la guerra ne è la prosecuzione. Solo che in questi tempi accelerati si va di fretta e dunque si tende a saltare i passaggi intermedi.

E che si vada di fretta lo si vede anche da come la notizia già si stia allontanando dalle cosidette breaking news anche a causa della pochissima disponibilità da parte dell’amministrazione USA nel “concedere” dettagli a riguardo: sembra che la funzione che questa notizia doveva svolgere abbia già avuto luogo, va solo recepita per ciò che deve essere; qualcosa che si presenta come la fine di una storia, ma è solo l’antefatto, il prologo di qualcos’altro presto a seguire.

C’è esplicitamente il rifuto di dare qualsiasi prova dei fatti che vengono raccontati, una versione di ciò che sarebbe accaduto che è puntuale solo nel non essere documentabile né confutabile in nessuno dei suoi elementi centrali. Da prendere o lasciare. E mostrare così il proprio schierarsi per una versione o per l’altra a priori e quindi essere facilmente accusati di stare da un’altra parte anzichè da quella giusta, sul modello 11 settembre: “siamo tutti americani” (e se no amici dei nemici). Tutto sommato, anche un buon test per l’affidabilità dei giornalisti, pronti – o meno – ad arruolarsi spontaneamente tra gli embedded. L’informazione propriamente detta, documentata, verificabile, diventa pericolosa, perché confutabile, e quindi si cerca di bypassarla sulla base di versioni dei fatti ufficiali e sostenute dal volume di fuoco dell’informazione ufficiale. Non è un caso che anche l'alto commissario ONU per i diritti umani, Navi Pillay, ha chiesto agli USA di far sapere la verità ed una verità credibile, tale è l’evidente insostenibilità della versione data in cui tutti i fattori sostanziali sono scomparsi, a cominciare da Bin Laden stesso. Non è un caso perché la reticenza degli USA in questa occasione è il segno di un passaggio storico che contiene il salto dalla tradizionale insofferenza americana verso l’Organizzazione delle Nazioni Unite all’esplicita presa del comando mondiale in modo unilaterale senza più neanche il rispetto formale di un’apparenza di democrazia globale che non sia quella sbandierata come stemma imperiale sugli stendardi delle proprie armate.

L’attenzione per i fatti e per la ragione viene lasciata all’agorà virtuale della Rete dove però si trova tutto e il contrario di tutto, in cui la capacità di distinguere la qualità e la coerenza delle notizie e delle fonti resta riservata ad un elite intellettuale così com’era per i precedenti mezzi di comunicazione, con in più la possibilità per tutti di esser protagonisti delle proprie polemiche e di avere la propria piccola audience. Le menzogne qui possono essere dunque sbugiardate, sì, ma mille altre, e di ogni segno, se ne possono diffondere, riducendo tutta la questione ad un mare polemico vasto a piacimento nella varietà di posizioni e nell’infinità di repliche possibili, ma in definitiva confinato in sé stesso tra chi può permettersi di dedicargli il suo tempo. Sembra sia qualcosa che possono ben sopportare: l’ha dimostrato anche lo scarso effetto che in fin dei conti hanno avuto le rivelazioni di Wikyleaks. Ed anche Facebook e Twitter funzioneranno pure(??) come terreno di collegamento per le rivolte dei paesi arabi, ma da noi restano nel campo dell’intrattenimento – sia pure talvolta colto, impegnato ed indignato.

I potenti del mondo, che non hanno più tempo per dedicarsi a costruire progetti politici – e lo si vede anche dalla caduta di qualità nel lavoro di costruzione delle loro menzogne (almeno anni fa ci voleva un po’ di più per smascherarle) – vanno direttamente oltre: poche storie, questa è la versione/verità, se vi sta bene ci aiutate a tenere in piedi il mondo, altrimenti siete dei fissati complottisti e dei potenziali fiancheggiatori dei nemici. Il ritrovamento del pc di Osama poi prepara il prossimo futuro e lascia aperte soluzioni a piacere da gettare in pasto all’opinione pubblica secondo l’utilità del momento: ovviamente si potrà dire di averci trovato ogni sorta di cose.

Davanti a questo annuncio dell’assassinio di Bin Laden c’è chi si chiede ora “cui prodest”? Perché hanno giocato proprio adesso questa carta (quando probabilmente era morto da tempo o quando comunque doveva essere possibile trovarlo molto prima se stava in un posto così da cinque anni)? E c’è chi tira in ballo le difficoltà elettorali di Obama o la necessità di distrarre l’opinione pubblica da altri disastri come Fukushima o lo stallo in Libia e il doppiopesismo sui conflitti in medio oriente. Ma la funzione che tocca svolgere a questa notizia probabilmente non riguarda né il passato né il presente, bensì il futuro, a cominciare da quello molto prossimo. Non ci sarebbe affatto da stupirsi se nei prossimi giorni/settimane (non troppo tempo da far sbiadire l’evidenza del collegamento) ci fosse un terribile attentato di grande impatto la cui attribuzione ad Al Qaeda sarà data per certa proprio in quanto vendetta per l’uccisione di Bin Laden. Un evento epocale, con una risonanza mediatica paragonabile all’11 settembre che inaugurasse un nuovo decennio di emergenza-terrorismo. Viene in mente il profetico libro “Fahrenheit 451” in cui il passaggio degli aerei da guerra che partivano per andare a bombardare era diventato ormai un sottofondo normale e non ci si chiedeva neanche più dove andassero.

Non ci sarebbe da stupirsi neanche se un tale attentato avvenisse, più che in USA, proprio in questa Europa con governi ed opinioni pubbliche dall’allineamento ancora troppo incerto rispetto all’Ordine Mondiale “corretto” o in India contro una sede diplomatica del Pakistan, sommando l’attribuzione ai gruppi terroristi islamici agli inevitabili sospetti verso lo stesso governo indiano in una spirale crescente di instabilità regionale.

Gli Stati Uniti si sono sviluppati durante oltre un secolo – detto “breve”, ma che vale per due o tre dei precedenti quanto alla costruzione degli assetti mondiali – fino a detenere il primato assoluto del potere globale in campo militare, economico e culturale. Mentre hanno già perso buona parte di quest’ultimo, il secondo è ormai terribilmente vacillante e minacciato dalla concorrenza dell’avversario cinese (e non solo) al quale sanno, alla lunga (e neanche tanto) di non poter tenere testa. Sanno che si tratta di un’esito inevitabile sul piano puramente economico/commerciale perché è il loro stesso sistema che non potrebbe sopravvivere ad una discesa dei salari e dello standard di vita sotto un certo livello al proprio interno, né all’abolizione della concorrenza nei mercati globali all’esterno. La crisi che nel 2008 ha colpito duramente gran parte del mondo e che sta tuttora facendo le sue vittime anche tra Stati non certo tra i più deboli o sottosviluppati non è stata affatto recuperata con gli immensi trasferimenti di risorse pubbliche alle elite della finanza privata. I fondi “derivati” sono già tornati ad essere centrali nell’attività finanziaria a livello mondiale e, stando così le cose, tutti sanno che un prossimo crack sarà presto inevitabile. Se ciò avviene subito dopo che i governi (compreso quello statunitense) si sono dissanguati per salvare le banche, probabilmente non è solo perché nessuno prende in considerazione la possibile reazione delle masse popolari, ma perché nel sistema attuale non è più possibile fare diversamente: l’economia vive di virtualità, sostanzialmente di scommesse sul futuro e su scommesse su queste scommesse. L’economia reale non basta più - e da tempo – allo stile di vita, alle aspettative di profitto dei paesi ricchi e specialmente delle grandi Corporations. Ci sono intere caste privilegiate internazionali ed equilibri di potere costruiti su questo e nessuno vuole rinunciarvi. Gli Stati Uniti sempre meno si reggono sull’economia reale del loro paese e sempre più invece sul debito pubblico sostenuto in misura decisiva proprio dai loro principali concorrenti. Inoltre il dollaro ha sempre meno certezza di restare a lungo la valuta planetaria (quanto a questo è molto significativo – vera o meno che sia la notizia - che a Bin Laden sarebbero stati trovati in tasca 500 euro anzichè dei dollari, ben più usati in Asia, quasi in una estrema maledizione). Il baratro che sta di fronte agli USA è di non essere (né apparire) tra breve più indispensabili né all’economia né all’ordine del mondo, ma solo alla protezione armata degli interessi delle proprie elite al potere. In assenza di un’economia reale davvero vincente rischiano dunque di perdere il credito internazionale politico e soprattutto finanziario che attualmente li sostiene e con ciò il proprio ruolo di locomotiva del mondo ed il loro tenore di vita. La sola carta certa che gli resta da giocare è quella di far valere la propria forza militare, ancora ben al di sopra di quella di chiunque altro, e con ciò di attestarsi definitivamente sull’altro ruolo che gli è proprio, quello di poliziotto del mondo, garante di un relativo ordine mondiale che è comunque utile a tutti - concorrenti compresi. Ha anch’esso un costo notevole, ma, entro certi limiti, può essere pagato da parte degli altri paesi se continueranno a sostenere il debito pubblico USA, ovvero a fargli credito e rinunciando ad espandere oltre un certo limite le proprie economie. Ma in realtà ciò significa espandendole sfruttando il lavoro delle stesse proprie popolazioni anzichè rivolgere questo sfruttamento all’esterno (che è ciò che ha permesso l’arricchimento dei paesi occidentali). È chiaro però che questo gioco può funzionare solo fino ad un certo grado di sviluppo delle economie emergenti ed anche delle aspettative di ridistribuzione della ricchezza da parte delle loro popolazioni. Oltre questo limite c’è la guerra mondiale alla quale gli apprendisti stregoni di turno (ai quali i popoli hanno sempre la malaugurata tendenza ad affidare il potere) ci stanno portando. Questo esito sarà ancor più accelerato dalle aspettative di democrazia che gli USA diffondono nel mondo come elemento di legittimazione del loro ruolo di suoi paladini, ma senza ricordare che tali aspettative alla fine entrano in collisione con quella che la loro funzione mondiale è e sempre più sarà nella realtà, cioè quella di un mercenario, seppure di massimo livello, sostenuto da chi sta aspettando il momento buono per dargli il colpo finale.

È dunque il momento, per gli USA, di forzare gli eventi, di anticiparli e non restarne in attesa. Mentre l’Europa, come teorica potenza mondiale è ferma al palo oscillando tra il velleitarismo e l’inconsistenza, l’ordine che ha retto finora il mondo arabo/petrolifero si va inesorabilmente sgretolando col forte rischio (per i polizziotti mondiali) di volersi davvero avviare ad assetti più democratici e sovrani; la Russia ha le armi ma ancora non le basi economiche e la Cina sta per superare gli USA economicamente, ma ne rimane ben al di sotto sul piano militare. Sembra che i Cinesi si attengano finora all’antico principio di aspettare sulla riva del fiume il passaggio del cadavere nemico – che invariabilmente prima o poi arriva. Ma il timore di una spallata può sempre esserci, specialmente da parte di chi si sente debole e soprattutto se mai Russia e Cina dovessero trovare un’inedita sintonia. Allora cosa meglio di creare uno stato permanente e perfino crescente di instabilità nel mondo, un’emergenza cronica, e portarla nel cuore dei territori del Grande Gioco, a ridosso dei confini dei giganti rivali? Il Pakistan, che dà segni preoccupanti di poter accettare la protezione cinese ed è al tempo stesso a forte rischio di cadere in mano agli islamisti (insieme alle sue armi atomiche) sarebbe il candidato ideale come prossimo centro delle attenzioni del polizziotto/monopolista globale del brand “Democrazia Liberale”.

Mentre pseudo-giornalisti prezzolati vorrebbero ravvisare negli avvenimenti attuali grandi passi avanti per questo “brand”, Bin Laden ha ottenuto infine ciò che voleva: che la guerra tra resistenti islamici ed Occidente diventasse senza quartiere, irreversibile e senza possibilità di mediazione, che non rimanesse spazio per comprensioni reciproche o pacifiche convivenze e si estendesse a tutto il mondo. Gente che probabilmente si ritiene pure cristiana danza per strada festeggiando l’assassinio di un uomo. Non ci sarebbe stato da sorprendersi se l’avessero ucciso in pubblico in uno stadio come facevano i Talebani in Afghanistan – del resto ha forse uno spirito diverso il permesso accordato negli USA di assistere alle esecuzioni sulla sedia elettrica?

Dieci anni dopo l’11 settembre siamo un passo più avanti verso il caos in cui solo le posizioni assolute hanno credibilità: proprio lo scenario da buoni contro cattivi, da “arrivano i nostri”, l’habitat naturale in cui la superpotenza USA può continuare ad apparire indispensabile, ad ottenere il credito internazionale politico e finanziario di cui ha assoluto bisogno.

Dentro all’era ipertecnologica, a dominare le coscienze e dar senso e giustificazione agli eventi il mondo sembra approdare ad uno schema medievale, fatto di schieramenti aprioristici predeterminati in base a tribù e religioni di appartenenza: consumismo è libertà…e che Dio sia con noi.
Da una parte e dall’altra il mondo concepito da Bin Laden.