In realtà, di fatto, dentro e sotto a ciò che ufficialmente, nominalmente o apparentemente sono i grandi sistemi in cui si articola la società, la dimensione dell’ambito sociale naturalmente proporzionato all’essere umano è molto più piccolo.
Molto più piccolo è quello a cui arriva la nostra capacità di reale comprensione (una comprensione che non sia esclusivamente astratta e del tutto slegata dall’esperienza), di gestione e soluzione dei problemi, di comprensione e comunicazione con l’interlocutore, di reale interesse e sensibilità per le questioni coinvolte e di piacevolezza/soddisfazione nel rapportarvisi.
Inoltre, di fatto, anche all’interno dei grandi sistemi, il reale ambito sociale col quale siamo davvero coinvolti è quello delle poche persone o decine di persone con cui siamo in contatto e questo è ciò che effettivamente funziona.
Il mondo attuale ci richiede una percezione della realtà su scala globale ed una sensibilità corrispondente, ma ciò è fuori misura per noi esseri umani la cui naturale scala di orizzonte di un ambiente sociale è la comunità, la tribù, il villaggio, il piccolo centro abitato.
L’idea che bisogna “civilizzarci” al punto da ridimensionare di conseguenza la nostra scala di percezione/sensibilità sociale sembra portarci il gioiello evolutivo della modernità occidentale, ma in realtà ne tradisce i presupposti contraddittori.
Eravamo partiti dal trasformare l’ambiente in cui viviamo a nostra misura anziché accettare che fosse l’ambiente a fissare i limiti del nostro modo di vivere.
Ma il fare questo a partire da idee astratte ovvero senza vedere il nesso profondo che ci rende non-altro dalla Natura, ci ha portato all’esito manifesto della contraddizione e dell’ignoranza di fondo per la quale oggi ci troviamo a dover adeguare la nostra natura umana, senza peraltro riuscirci, ad un ambiente artificiale e fuori misura che noi abbiamo creato ma che ci è sfuggito di mano sia nello ‘spirito’ che lo anima (nelle sue leggi di funzionamento interne) sia nelle dimensioni che ha raggiunto.
martedì 24 luglio 2007
Contraddizioni del sistema consumistico e globalizzante
Il sistema attuale estende la portata dell’orizzonte sul quale agiscono i propri meccanismi ed effetti (economici, sociali, ambientali, culturali…) a livello mondiale. Questa sua universalizzazione richiede, per gestire il mondo che crea ed i suoi problemi, un livello di istruzione, di consapevolezza e di cultura generalmente diffusa tra la popolazione, adeguato ad una tale portata.
Ma al contempo un tale sistema, per mantenersi nelle sue dimensioni gigantesche di produzione e di consumi, ha bisogno che una grande parte della sua popolazione sia dedita alla produzione-consumo e non all’intelligenza dei complessi fenomeni in atto.
Che questa sia la realtà per una notevole percentuale della popolazione è indispensabile per garantire la ricchezza a sua volta necessaria a finanziare tra l’altro anche il livello e la diffusione della ricerca e della conoscenza richieste agli addetti ai lavori per poter gestire e fronteggiare meccanismi così complessi.
Questo fa sì che in questo sistema i problemi siano sempre più complicati e che, se pure una ristretta cerchia di esperti e intellettuali fossero in grado di venirne a capo (il che è tutto da dimostrare data anche la crescente discrepanza tra esperienza e teorie astratte dovuta sia alla dimensione dei problemi sia alla formazione specialistica degli “esperti”), le loro soluzioni si scontrerebbero con l’indifferenza delle masse che non ne coglierebbero i presupposti, rendendole di fatto inapplicabili.
E tutto ciò diventa ancor più grave se pensiamo che in regime di democrazia mediatica, ovvero nella “società dello spettacolo” ( che è parte integrante di un tale livello di sviluppo) è molto più probabile che a gestire problemi così immensi siano persone prive della competenza necessaria piuttosto che appartenenti a quella ristretta elìte intellettuale.
Ma al contempo un tale sistema, per mantenersi nelle sue dimensioni gigantesche di produzione e di consumi, ha bisogno che una grande parte della sua popolazione sia dedita alla produzione-consumo e non all’intelligenza dei complessi fenomeni in atto.
Che questa sia la realtà per una notevole percentuale della popolazione è indispensabile per garantire la ricchezza a sua volta necessaria a finanziare tra l’altro anche il livello e la diffusione della ricerca e della conoscenza richieste agli addetti ai lavori per poter gestire e fronteggiare meccanismi così complessi.
Questo fa sì che in questo sistema i problemi siano sempre più complicati e che, se pure una ristretta cerchia di esperti e intellettuali fossero in grado di venirne a capo (il che è tutto da dimostrare data anche la crescente discrepanza tra esperienza e teorie astratte dovuta sia alla dimensione dei problemi sia alla formazione specialistica degli “esperti”), le loro soluzioni si scontrerebbero con l’indifferenza delle masse che non ne coglierebbero i presupposti, rendendole di fatto inapplicabili.
E tutto ciò diventa ancor più grave se pensiamo che in regime di democrazia mediatica, ovvero nella “società dello spettacolo” ( che è parte integrante di un tale livello di sviluppo) è molto più probabile che a gestire problemi così immensi siano persone prive della competenza necessaria piuttosto che appartenenti a quella ristretta elìte intellettuale.
Contraddizioni dello sviluppo in prospettiva
Il crescente sviluppo economico, la diffusione e l’accessibilità dell’informazione e della cultura, il distaccarsi dal lavoro materiale si basano sull’intensificazione della produttività, dei consumi e dei ritmi di lavoro e richiedono un sempre maggiore coinvolgimento nel processo produttivo da parte dei lavoratori a tutti i livelli. Ma al tempo stesso fanno crescere in essi stessi una maggior voglia di tempo libero, della possibilità di dedicarsi a sé stessi e ad attività non economiche, oltre ad una sempre minore disponibilità a sottomettersi ed adeguarsi alle direttive dettate dai capi ed alle esigenze esterne del sistema di produzione ed ai suoi ritmi.
Il punto massimo di capacità di produzione di ricchezza del sistema potrebbe coincidere col punto massimo di dissociazione motivazionale da parte di coloro che dovrebbero sostenerlo e riprodurlo, cosa forse ancor più evidente infatti tra gli studenti ed i giovani in genere che tra i lavoratori.
L’esito di una tale contraddizione potrebbe essere o (auspicabilmente) una radicale riconversione del sistema in senso eco/umano-compatibile (e perciò non più su base consumistica) o una società divisa fondamentalmente in due ceti. Uno, privilegiato e perlopiù ozioso o dedito ad attività essenzialmente “culturali” che parla un linguaggio e vive in un mondo esclusivo e ripiegato su sé stesso. L’altro costituito da una classe di schiavi-lavoratori; precari a vita senza identità né professionale né territoriale per i quali il primo problema sarà quello di trovare qua e là un qualche lavoro temporaneo – al di là di quanto questo sia pagato – ed il cui scopo (e la cui stessa ragione di esistere dal punto di vista del Sistema) sarà quello di consumare la produzione di merci-spazzatura sul cui mercato si regge la condizione privilegiata degli altri.
Per alcuni di questi ultimi rimarrà tuttavia un po’ di lavoro da fare “a beneficio” della massa: dedicare ancora parte del proprio “impegno culturale” nel convincerla a continuare a credere che stiamo vivendo una condizione di benessere e di progresso.
(Niente paura: come già si è fatto con gli attori di alcuni film, anche presentatori televisivi, giornalisti e politici da talk show potranno presto essere resi virtualmente. Chissà che qualcuno non ci stia già lavorando: la differenza non si vedrebbe di certo)
Il punto massimo di capacità di produzione di ricchezza del sistema potrebbe coincidere col punto massimo di dissociazione motivazionale da parte di coloro che dovrebbero sostenerlo e riprodurlo, cosa forse ancor più evidente infatti tra gli studenti ed i giovani in genere che tra i lavoratori.
L’esito di una tale contraddizione potrebbe essere o (auspicabilmente) una radicale riconversione del sistema in senso eco/umano-compatibile (e perciò non più su base consumistica) o una società divisa fondamentalmente in due ceti. Uno, privilegiato e perlopiù ozioso o dedito ad attività essenzialmente “culturali” che parla un linguaggio e vive in un mondo esclusivo e ripiegato su sé stesso. L’altro costituito da una classe di schiavi-lavoratori; precari a vita senza identità né professionale né territoriale per i quali il primo problema sarà quello di trovare qua e là un qualche lavoro temporaneo – al di là di quanto questo sia pagato – ed il cui scopo (e la cui stessa ragione di esistere dal punto di vista del Sistema) sarà quello di consumare la produzione di merci-spazzatura sul cui mercato si regge la condizione privilegiata degli altri.
Per alcuni di questi ultimi rimarrà tuttavia un po’ di lavoro da fare “a beneficio” della massa: dedicare ancora parte del proprio “impegno culturale” nel convincerla a continuare a credere che stiamo vivendo una condizione di benessere e di progresso.
(Niente paura: come già si è fatto con gli attori di alcuni film, anche presentatori televisivi, giornalisti e politici da talk show potranno presto essere resi virtualmente. Chissà che qualcuno non ci stia già lavorando: la differenza non si vedrebbe di certo)
Dialogo interculturale
Trovo che l’intento della proposta di un dialogo tra le diverse culture sia lodevole, ma propongo un dubbio: non sarà che il problema e’ che, prima che riescano sinceramente a dialogare e riconoscersi reciprocamente, le culture intanto siano scomparse? Esistono ancora le culture? E per quanto ancora? Sono, questo nostro modo di vivere e le sue espressioni, una cultura?
Intendo cultura in senso etno-antropologico, non solo l’insieme delle varie espressioni artistiche, musicali, dell’abbigliamento, del modo di preparare e consumare il cibo ecc…., ma soprattutto l’essere, queste cose tutte insieme, intessute in una visione del mondo, in un sentimento del mondo inclusivo dell’insieme sociale, radicato in un modo di vita – quello concreto, reale, in cui effettivamente si vive – in cui i vari membri di una società, come tali, complessivamente si riconoscono.
Se penso che queste sono sempre state le caratteristiche delle culture dei popoli cosiddetti “altri” (con un eufemismo di moda che vorrebbe forse essere neutro, ma che e’ palesemente culturalmente autoreferenziato) - che sarebbe forse meglio dire tradizionali - ho forti difficoltà a chiamare la nostra una cultura.
Se penso che i molteplici tratti di ogni cultura tradizionale sono (erano?) radicati in una determinata forma economica di produzione/consumo e in un determinato rapporto con l’ambiente naturale comuni a più o meno tutte le persone di una comunità. Che tali modelli economici facevano sì che tutti si sentissero di condividere necessità, speranze e problemi simili. Che la comunanza nelle forme della pratica e delle idee costituiva la base per il senso di appartenenza ad un determinato tipo di soluzione all’”enigma” dell’esistere, del vivere, ovvero ad una identità culturale,….ho forti difficoltà a chiamare la nostra una cultura.
Noi, dalla ricerca della soluzione dei nostri problemi, anziché accomunati, siamo divisi: ognuno per se’ dato che in fondo non si tratta in realta’, il piu’ delle volte, di risolvere veri problemi, ma di ottenere superfluo da aggiungere al superfluo. Precisamente cio’ che chiamiamo sviluppo e che fa si’ che non ci sia aspetto della nostra vita che non sia in modo piu’ o meno diretto o evidente strettamente legato al denaro. E questo piu’ che mai vale per le espressioni piu’ convenzionalmente culturali: qualsiasi tipo di espressione e’ lecito, non ci sono tabu’ di sorta che potrebbero essere infranti. Tranne il fatto che bisogna che ci sia un’audience ovvero che quella data forma di “cultura”, per quanto trasgressiva, antinomica, e per quanto “deviante”, sia vendibile (o che qualcosa di vendibile gli si possa abbinare, almeno, come nella pubblicita’), altrimenti non trova il modo di comunicare, e chi non comunica non esiste, pare (….forse perche’ non e’ consumabile).
E questo denaro che e’ l’elemento regolatore del nostro sistema non e’ certo la merce di scambio del mercato della piazza che passa di mano in mano tra i prodotti delle stesse mani. Niente affatto: non e’ altro che una convenzione in cifre quantomai immateriale, quantomai neutra, uguale identica per tutti (salvo il fatto di poterlo avere o meno).
Al punto che il rapporto si ribalta: davanti a questo tutt’altro tipo di mercato siamo tutti noi ad essere indifferenti, indistinguibili dal punto di vista del denaro. Lontani, nel nostro ruolo di comuni consumatori, dai meccanismi che regolano i suoi flussi quanto e’ lontana l’origine del cibo preconfezionato che compriamo gia’ pronto dal modo in cui passiamo la nostra quotidiana giornata lavorativa nel guadagnarci i soldi per comprarlo.
E’ per questa distanza e per questa indifferenza, questa mancanza di radici (per atrofizzazione, non perche’ non ce ne fossero), che non credo possiamo chiamare la nostra attuale moderna occidentale una cultura : sistema credo sia la parola adatta.
Nel confronto con altre culture, ci possiamo anche presentare come quella che le ha conosciute e studiate tutte, che sa ridefinire se’ stessa di volta in volta come positiva, razionale, laica, democratica, attenta ai diritti umani ( qualche volta verrebbe anche da ridere), in rapporto alle altre. Possiamo illuderci di avere di una certa imparzialita’ paritaria in questa ridefinizione. Possiamo ritenere di presentarci come il modello al quale le altre culture stanno tendendo ad assomigliare (rischiando di venir travolte in quanto tali da una tale tensione).
Ma se all’incontro volessimo approcciarci onestamente, credo dovremmo trovare la misura di una realistica umilta’: che vada anche un po’ oltre il livello paritario, almeno dove possiamo riconoscere di aver perso qualcosa per strada ed aver qualcosa da imparare : l’umilta’ dovuta a chi, per quanto imponente, si riconosce ormai ridotto a sistema e sa di trovarsi davanti a chi e’, con tutte le imperfezioni del caso, ancora, e forse per poco, una cultura.
Intendo cultura in senso etno-antropologico, non solo l’insieme delle varie espressioni artistiche, musicali, dell’abbigliamento, del modo di preparare e consumare il cibo ecc…., ma soprattutto l’essere, queste cose tutte insieme, intessute in una visione del mondo, in un sentimento del mondo inclusivo dell’insieme sociale, radicato in un modo di vita – quello concreto, reale, in cui effettivamente si vive – in cui i vari membri di una società, come tali, complessivamente si riconoscono.
Se penso che queste sono sempre state le caratteristiche delle culture dei popoli cosiddetti “altri” (con un eufemismo di moda che vorrebbe forse essere neutro, ma che e’ palesemente culturalmente autoreferenziato) - che sarebbe forse meglio dire tradizionali - ho forti difficoltà a chiamare la nostra una cultura.
Se penso che i molteplici tratti di ogni cultura tradizionale sono (erano?) radicati in una determinata forma economica di produzione/consumo e in un determinato rapporto con l’ambiente naturale comuni a più o meno tutte le persone di una comunità. Che tali modelli economici facevano sì che tutti si sentissero di condividere necessità, speranze e problemi simili. Che la comunanza nelle forme della pratica e delle idee costituiva la base per il senso di appartenenza ad un determinato tipo di soluzione all’”enigma” dell’esistere, del vivere, ovvero ad una identità culturale,….ho forti difficoltà a chiamare la nostra una cultura.
Noi, dalla ricerca della soluzione dei nostri problemi, anziché accomunati, siamo divisi: ognuno per se’ dato che in fondo non si tratta in realta’, il piu’ delle volte, di risolvere veri problemi, ma di ottenere superfluo da aggiungere al superfluo. Precisamente cio’ che chiamiamo sviluppo e che fa si’ che non ci sia aspetto della nostra vita che non sia in modo piu’ o meno diretto o evidente strettamente legato al denaro. E questo piu’ che mai vale per le espressioni piu’ convenzionalmente culturali: qualsiasi tipo di espressione e’ lecito, non ci sono tabu’ di sorta che potrebbero essere infranti. Tranne il fatto che bisogna che ci sia un’audience ovvero che quella data forma di “cultura”, per quanto trasgressiva, antinomica, e per quanto “deviante”, sia vendibile (o che qualcosa di vendibile gli si possa abbinare, almeno, come nella pubblicita’), altrimenti non trova il modo di comunicare, e chi non comunica non esiste, pare (….forse perche’ non e’ consumabile).
E questo denaro che e’ l’elemento regolatore del nostro sistema non e’ certo la merce di scambio del mercato della piazza che passa di mano in mano tra i prodotti delle stesse mani. Niente affatto: non e’ altro che una convenzione in cifre quantomai immateriale, quantomai neutra, uguale identica per tutti (salvo il fatto di poterlo avere o meno).
Al punto che il rapporto si ribalta: davanti a questo tutt’altro tipo di mercato siamo tutti noi ad essere indifferenti, indistinguibili dal punto di vista del denaro. Lontani, nel nostro ruolo di comuni consumatori, dai meccanismi che regolano i suoi flussi quanto e’ lontana l’origine del cibo preconfezionato che compriamo gia’ pronto dal modo in cui passiamo la nostra quotidiana giornata lavorativa nel guadagnarci i soldi per comprarlo.
E’ per questa distanza e per questa indifferenza, questa mancanza di radici (per atrofizzazione, non perche’ non ce ne fossero), che non credo possiamo chiamare la nostra attuale moderna occidentale una cultura : sistema credo sia la parola adatta.
Nel confronto con altre culture, ci possiamo anche presentare come quella che le ha conosciute e studiate tutte, che sa ridefinire se’ stessa di volta in volta come positiva, razionale, laica, democratica, attenta ai diritti umani ( qualche volta verrebbe anche da ridere), in rapporto alle altre. Possiamo illuderci di avere di una certa imparzialita’ paritaria in questa ridefinizione. Possiamo ritenere di presentarci come il modello al quale le altre culture stanno tendendo ad assomigliare (rischiando di venir travolte in quanto tali da una tale tensione).
Ma se all’incontro volessimo approcciarci onestamente, credo dovremmo trovare la misura di una realistica umilta’: che vada anche un po’ oltre il livello paritario, almeno dove possiamo riconoscere di aver perso qualcosa per strada ed aver qualcosa da imparare : l’umilta’ dovuta a chi, per quanto imponente, si riconosce ormai ridotto a sistema e sa di trovarsi davanti a chi e’, con tutte le imperfezioni del caso, ancora, e forse per poco, una cultura.
Globalizzazione
Ieri sera una amica mi parlava di un conoscente italiano che ha una fabbrica di ceramiche “di Deruta” fatte in Romania dove lavorano operai vietnamiti venuti lì a sostituire quelli rumeni che sono emigrati a lavorare in Italia;…una cosa normale, no?
Chissà, forse con i soldi guadagnati questi operai asiatici manderanno soldi a casa e le loro famiglie ci compreranno merci tradizionalmente usate in Vietnam, ma ora provenienti dalla Cina e prodotte da bambini nel Bangladesh.
Del resto ricordo che già alla fine degli anni ’70, quando ero un ragazzo e giravo l’Europa in autostop, mi diede un passaggio un camionista che riportava in Spagna un carico di sardine pescate nel paese iberico che pochi giorni prima erano già state trasportate in Italia per farle inscatolare.
Cos’è questa? La dinamicità del mondo moderno in cui tutto è in evoluzione continua? Un mondo giovane in continua crescita? Il sistema liberista del capitalismo avanzato che crea lavoro ovunque si sposti? L’opportunità per tutti di uscire dall’angustia di superati contesti tradizionali e mischiare le culture in un entusiasmante melting pot globale?
Quando sento questa versione della lettura del mondo attuale mi sembra di guardare una pubblicità della Coca-Cola.
Basterebbe chiedere alle aziende di pagare una piccola percentuale dei danni sociali causati dall’inquinamento di tanti mezzi di trasporto, dalle condizioni di lavoro di operai con assunzioni a breve termine pagati da fame e in condizioni igieniche più che a rischio, dallo sradicamento culturale di gente spostata qua e la per il mondo correndo dietro all’illusione di un benessere da discount, per arrestare di colpo tutta questa brillante dinamicità.
Cosa guadagna un contadino tribale a spostarsi dal suo villaggio di montagna per finire in uno slum a raggranellare pochi dollari a settimana sbattendosi tutto il giorno in mezzo alle discariche, l’asfalto e i gas di scarico?
Cosa aveva guadagnato quel camionista – che non dormiva da due giorni per fare un viaggio in più per pagare il mutuo del camion – rispetto a suo padre che faceva il pescatore?
E se mai un giorno lo ‘sviluppo’ raggiungesse anche la gente del Bangladesh, in quale posto del mondo questa troverebbe il proprio popolo da sfruttare?
Io, se in mezzo a questa corsa sfrenata al massacro che mi vedo sfrecciare intorno, mi fermo un attimo a pensarci, posso solo essere grato alla saggezza dei nostri antenati per aver dato la possibilità ad ogni successiva generazione di vivere per così tanti secoli in un modo tanto lento ed uguale a sé stesso, da arrivare fino a noi moderni che ora abbiamo l’irripetibile occasione, giunti all’apice del “progresso”…. di dimostrare quanto siamo stupidi.
Chissà, forse con i soldi guadagnati questi operai asiatici manderanno soldi a casa e le loro famiglie ci compreranno merci tradizionalmente usate in Vietnam, ma ora provenienti dalla Cina e prodotte da bambini nel Bangladesh.
Del resto ricordo che già alla fine degli anni ’70, quando ero un ragazzo e giravo l’Europa in autostop, mi diede un passaggio un camionista che riportava in Spagna un carico di sardine pescate nel paese iberico che pochi giorni prima erano già state trasportate in Italia per farle inscatolare.
Cos’è questa? La dinamicità del mondo moderno in cui tutto è in evoluzione continua? Un mondo giovane in continua crescita? Il sistema liberista del capitalismo avanzato che crea lavoro ovunque si sposti? L’opportunità per tutti di uscire dall’angustia di superati contesti tradizionali e mischiare le culture in un entusiasmante melting pot globale?
Quando sento questa versione della lettura del mondo attuale mi sembra di guardare una pubblicità della Coca-Cola.
Basterebbe chiedere alle aziende di pagare una piccola percentuale dei danni sociali causati dall’inquinamento di tanti mezzi di trasporto, dalle condizioni di lavoro di operai con assunzioni a breve termine pagati da fame e in condizioni igieniche più che a rischio, dallo sradicamento culturale di gente spostata qua e la per il mondo correndo dietro all’illusione di un benessere da discount, per arrestare di colpo tutta questa brillante dinamicità.
Cosa guadagna un contadino tribale a spostarsi dal suo villaggio di montagna per finire in uno slum a raggranellare pochi dollari a settimana sbattendosi tutto il giorno in mezzo alle discariche, l’asfalto e i gas di scarico?
Cosa aveva guadagnato quel camionista – che non dormiva da due giorni per fare un viaggio in più per pagare il mutuo del camion – rispetto a suo padre che faceva il pescatore?
E se mai un giorno lo ‘sviluppo’ raggiungesse anche la gente del Bangladesh, in quale posto del mondo questa troverebbe il proprio popolo da sfruttare?
Io, se in mezzo a questa corsa sfrenata al massacro che mi vedo sfrecciare intorno, mi fermo un attimo a pensarci, posso solo essere grato alla saggezza dei nostri antenati per aver dato la possibilità ad ogni successiva generazione di vivere per così tanti secoli in un modo tanto lento ed uguale a sé stesso, da arrivare fino a noi moderni che ora abbiamo l’irripetibile occasione, giunti all’apice del “progresso”…. di dimostrare quanto siamo stupidi.
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