martedì 24 marzo 2009

La Crisi della Provvidenza

Che la Provvidenza sia in crisi? Non so, non me ne intendo, può darsi
che si sia stufata anche Lei di star dietro agli affari di una banda
di pericolose creaturine viziate, presuntuose e dalle vedute a volte
anche ampie, ma troppo spesso corte, che si ostinano a trattare il
pianeta come il loro giocattolo.
Bisognerebbe forse chiederlo al papa, trattandosi forse di una cosa piu’ di sua competenza – certo piu’ dei sistemi che le persone usano per avere una vita sessuale senza, possibilmente, prendersi malattie (del resto, se uno ci tiene tanto alla difesa della vita, non potrebbe bastargli che qualcuno trovi il modo di non rischiare la propria? E’ la vita vivente, quella che bisogna proteggere, o quella che potrebbe teoricamente esserlo?).
Ad ogni modo non e’ del papa che mi interessava parlare, ne’ della Provvidenza, ma della crisi… se poi ce l’ha mandata Lei, be’, tante grazie: forse era ciò che ci
voleva.
Ci voleva perché, come diceva il buon Giorgio Gaber (ed a proposito
degli argomenti di competenza del papa) “…gli schiaffi di Dio
appiccicano al muro”. Ed è forse proprio di questo che avevamo
bisogno: di un bello schiaffo di quelli di Dio (o chi per lui….magari
la Realtà), che lasciano senza parole, che non è facile indicare da
che parte vengano, che difficilmente si possono rappresentare sulla
tela consunta della politica corrente, dipinta con i soli due colori
della Destra e della “Sinistra”, sempre più indefiniti e sempre meno
distinguibili all’atto pratico.
Uno schiaffo di Dio ancora di quelli minori, limitato all’economia -
una creazione umana, per quanto importante - ma ancora solo un
avvertimento se pensiamo a quali altri potrebbero seguire, se
dovessero venire dai sistemi climatici, biologici, bio-patologici,
dalle strutture vitali che preesistono all’umanità e che ne permettono
l’esistenza.
Gli schiaffi di Dio hanno la caratteristica che, quando arrivano, non
c’è più troppo tempo per riciclarli nel tritatutto del dibattito in
cui ogni cosa diventa metafora di qualcos’altra a cui rimanda e così via
permettendo sempre di far girare la giostra di nuovi consumismi (anche
culturali) magari mascherati o trasformisti. Gli schiaffi di Dio
appiccicano al muro: bisogna finalmente stare ai fatti ed agire,
salvarsi la pelle, magari dandosi una mano, se possibile, su basi
concrete.

Che si creda a una qualche idea di Dio o meno, non abbiamo certo
bisogno di scomodarne la figura per vedere da dove nasce la crisi che
ogni giorno sentiamo avanzare dalle notizie dei media: molto
semplicemente, la “società dei consumi”, come l’abbiamo conosciuta per
qualche decennio, non è che un accidente storico che si è potuto
verificare grazie ad una serie di circostanze (fortunate per alcuni e
tragiche per altri). L’economia da “boom economico” è un fenomeno
apparentemente possibile, ma in realtà solo per un breve periodo. E’
stato sufficiente, però, perché due o tre generazioni ci si
abituassero e vi si sviluppasse sopra un immenso sistema
economico-finanziario. Un sistema che ha bisogno, per sua stessa
natura di crescere senza fine e di progressivamente velocizzare questa
crescita; se non che, come scrive Stephen Jay Gould, “gli alberi non
crescono fino in cielo”. La base autenticamente economica, produttiva,
della crescita ha smesso da tempo di essere sufficiente ad un tale
ritmo e si è dunque dovuti ricorrere al “doping”, alla virtualità: a
dare la possibilità di spendere a chi non la si era data di guadagnare
per sostenere i consumi ancora un po’ al livello proprio delle fasi di
forte sviluppo e di lasciare che il mondo degli economisti e degli
speculatori si avviluppasse su se stesso rendendo terreno di
speculazione anche le proprie stesse supposizioni e scommesse su ciò
che avrebbe dovuto (?) essere.
Mi vengono in mente qui cartoni animati di Bip-Bip e Willy il Coyote
in cui il coyote insegue il bipede fino a superare l’orlo di un
precipizio e, non accorgendosene, per alcuni passi continua pure a
correre nel vuoto…. finché, rendendosi finalmente conto di non avere
in effetti nulla sotto piedi…. precipita.

Ora cominciano ad andare di moda le cose semplici, naturali…ecc.., ma, per
favore, cerchiamo di non banalizzare e non finire a creare nuove forme
di consumismo solo aggiungendo qualche nuovo colore alla limitatissima
tavolozza del mercato politico attuale: la crisi che sembra
affacciarsi adesso deve essere un’occasione da non perdere per
rendersi conto a fondo di ciò che ci ha portato fino a qui.
Il consumismo ha profonde radici nella nostra mente e nella nostra
psiche e l’incapacità di trovare senso nelle basi naturali di una
semplice esistenza armonica con le altre specie viventi e gli altri
popoli ha basi ben fissate nei presupposti della cultura occidentale e
moderna. E’ a questo livello, anche, che dobbiamo valorizzare la
“provvidenzialità” di questa crisi, che arriva ora che i danni sono
già, evidentemente, in fase abbastanza avanzata da portarcela, ma,
speriamo, forse non ancora così avanzata da portarci di peggio.
Sebbene a trarre i maggiori vantaggi da un sistema economico
consumista sia un’esigua minoranza di privilegiati ai vertici della
piramide, è altrettanto vero che a sostenere tale piramide è pur
sempre la base (il sistema è infatti detto “consumista” in quanto si
regge sui consumi delle masse, non sull’azionariato di maggioranza delle aziende): sta a noi cogliere l’occasione per salvarci oggi dalle conseguenze della crisi imboccando una strada che non sia pavimentata con gli stessi materiali
e che non ci riporti domani di nuovo al punto di partenza.
Bisogna rendersi conto della portata a tutto tondo del cambiamento
necessario e che un certo sforzo, coraggio e radicalità sono
necessari: la Decrescita è Felice, ok, ma se anche all’inizio non lo
fosse tanto? Dovremmo tirarci indietro per questo? O vorremmo forse
credere che possano bastare nuove tendenze artistiche e un diverso
tipo di locali per incontrarsi? (voglio dire, va tutto bene, non c’è
problema, ma manteniamo la lucidità per fare delle distinzioni tra ciò
che è il punto e ciò che è accessorio).

Dunque una forte crisi economica ha in effetti qualcosa di
“provvidenziale” perché sappiamo tutti che per cambiare davvero
qualcosa ci vogliono interventi seri, ma sappiamo altrettanto che non
c’è nessun governo e nessuna forza politica che si candiderebbe a
farne – come pure che difficilmente troverebbe il sostegno elettorale
necessario.
Ci vorrebbe dunque un intervento di autorità, un certo grado di
costrizione, e la disponibilità personale di gran parte dei cittadini
ad accettarla ed adeguarvisi, ma abbiamo altrettanto motivo di non
amare un tale tipo di autorità e di diffidare di situazioni in cui
vige una tale condiscendenza di massa. D’altra parte l’urgenza di
alcune svolte nei comportamenti a forte impatto ambientale è
stringente.
Allora la crisi potrebbe essere una buona maestra: capace di imporre
un mutamento di rotta per necessità (e poche cose comandano meglio
della necessità), ma al tempo stesso di imporlo in modo impersonale,
così che saranno il nostro stesso senso della realtà e la nostra
ritrovata lungimiranza ad indicarci le nuove strade che la crisi
potrebbe proporci come obbligatorie.

Sulla scelta di vita in campagna - 2 (e la sua attualita’)

Quando si propone (anche in ambienti ecologisti) la via della vita in e della campagna come alternativa centrale, autentica e possibile al sistema di vita dominante (con le conseguenze che gia’ abbiamo davanti agli occhi e quelle che probabilmente avremo a breve) spesso si assiste a polemiche piuttosto accese fra chi difende quest’idea con toni che a volte sconfinano anche nel romantico-ideologico-utopista e chi sembra rifiutare cio’ che gli sembra un vano sogno impossibile respingendolo con energia degna di fanatici dello sviluppismo; energia che pare quella di chi voglia allontanare da se’ il pericolo di poterci credere davvero ad un tale sogno.
E’ chiaro che si tratta di un argomento che stimola le coscienze perche’ e’ in fondo abbastanza evidente che, se diffusa su percentuali consistenti della popolazione, sarebbe forse l’unica scelta che davvero potrebbe dare una svolta radicale in senso eco(ed umano-)sostenibile alla nostra societa’ ed al suo futuro. Quantomeno l’unica che e’ direttamente alla portata delle nostre decisioni come comuni mortali, mentre ogni tipo di programma politico (per inaspettatamente coraggioso che fosse – e non se ne vede comunque traccia) avrebbe bisogno in ogni caso di tempi e condizioni molto complicate nelle quali possiamo solo sperare, ma purtroppo sempre meno credere, in una economia globale che ha ormai bisogno di crescere continuamente anche solo per sopravvivere.
D’altra parte un basilare principio di realta’ non puo’ non farci riconoscere che in tutto quell’insieme di eventi e trasformazioni avvenuti negli ultimi due secoli, che chiamiamo genericamente “progresso”, c’e’ anche molto di positivo se guardiamo a come era prima la condizione umana in molti suoi aspetti, e dunque una scelta in cosi’ radicale rottura con questa tendenza storica come quella di andare a vivere in campagna, chiamandosi fuori da tutto cio’, puo’ sembrare inappropriata perche’ non terrebbe conto della realta’ delle cose.

Questo e’ comprensibile. Ma che si rilegga in chiave radicalmente critica la modernita’, fin nei suoi presupposti, e che a questa critica se ne vogliano far seguire le conseguenze pratiche, non deve necessariamente significare che si pensi di poter fare come se tutto cio’ che e’ avvenuto dal tempo delle candele, dei carretti, delle fattucchiere e delle scomuniche non ci sia stato ne’ ci sarebbe dovuto essere. E’ sorprendente come in un’epoca in cui sembra trionfare l’idea di liberta’, specialmente di pensiero, si rimanga cosi’ impigliati nell’automatismo di credere nell’alternativa netta “o modello sviluppo-consumista o ritorno al medioevo sotto tutti gli aspetti”. Purtroppo succede pure che anche chi pretende a questo punto di preferire la seconda alternativa finisca per credere a questo bivio mal posto. Non c’e’ questo bivio: indietro nella Storia non si torna, si va solo avanti, anche se non sta scritto da nessuna parte che si vada verso qualcosa.
Per questo motivo non possiamo neanche illuderci che una linea di tendenza storica vada comunque verso il meglio solo perche’ a lungo la si e’ chiamata “progresso”, neanche se in parte e fino ad un certo punto lo si e’ potuto fare con buone ragioni. Se determinate trasformazioni sono avvenute ed hanno avuto il sostegno sentito e partecipe di moltissime persone vuol dire che ce ne erano i motivi. Ce ne erano i presupposti e se ne sentiva il bisogno, cosi’ che quando si e’ presentata una via possibile e comprensibile che rispondeva alle esigenze molti l’hanno seguita, pur se cio’ comportava delle rotture e delle notevoli difficolta’ . E’ miope e limitato pensare semplicisticamente in termini di giusto e sbagliato: esistono piuttosto i percorsi, in cui ci sono passaggi anche necessari, inevitabili. Invece di discutere in termini di andare avanti (avanti in che senso?) o tornare indietro (indietro dove?) sarebbe piu’ sensato riconoscere che cio’ che ci ha portato fino a qui aveva ragione di essere, altrimenti non saremmo dove siamo, ma siamo al punto di poter e dover prendere una strada diversa. Qui sta il bivio: nell’andare avanti in un altro modo grazie all’essere arrivati fino a qui con tutti gli errori che ora possiamo vedere ed a cui possiamo porre rimedio.
La Modernita’, la Scienza e la Tecnologia ci hanno affrancato da superstizioni, fame, malattie, fatalismo….; ci hanno portato a credere a cieche ideologie iperrazionaliste, a vederne le conseguenze e poi a non crederci piu’; a riconoscerci artefici della Storia e del nostro destino sostituendoci a Dio in questo ruolo e a ritrovarci ora in balia di forze economiche incontrollabili e impersonali che muovono questa “Storia” e noi con essa senza che ce ne rimanga alcun significativo controllo salvo la versione “realistica” odierna dell’antica devozione nel ripeterci che (pero’) e’ questo che ci da’ il pane ecc.. (soprattutto eccetera, perche’ se si trattasse del pane e del necessario basterebbe molto meno e ci rimarrebbe tempo anche per un po’ di vita come esseri umani); ci dovrebbero aver dato la capacita’ di vedere i fatti come processi e gli opposti come fasi complementari e successive.
Purtroppo la forma mentale occidentale, concettuale, astrattista, tutta legata alla dimensione del linguaggio, tende a mettere sempre le cose in contrapposizione: per questo la nostra storia si compone di movimenti politico culturali che impiegano enormi energie a combattersi ed estremizzare ognuna le proprie posizioni, a non comprendere l’aspetto di realta’ che c’e’ in quelle opposte e, in definitiva, sempre ad andare un po’ troppo in un senso, in modo che poi la cultura che avra’ successo…..successivamente (appunto si dice cosi’)….dovra’ recuperare tanti errori da finire per andar troppo nel senso opposto in modo da generare movimenti di segno opposto e cosi’ via.

E’ grazie al percorso anche distruttivo e consumistico, e’ grazie agli errori fatti ed alla capacita’ di comprenderli insieme a quanto di buono si puo’ conservare che oggi potremmo voler fare a meno di cio’ di cui non abbiamo bisogno. E’ grazie a questa esperienza che possiamo immaginare altri percorsi per cui non necessariamente tutti su questa Terra debbano ripetere gli stessi errori per capire le stesse cose. E’ grazie alla confusione del superfluo che poi possiamo fermarci all’essenziale.
Prendere concretamente una direzione di vita sostenibile, non consumistica, di non collaborazione col sistema distruttivo, di autoproduzione (e come potrebbe essere altro se non con la base di indipendenza economica ed esistenziale che la campagna puo’ dare?) non e’ un tornare indietro, non e’ un misconoscere la realta’ della Storia e del progresso (quel che c’e’ di vero in questo – e non e’ poco), ma e’ confutarne la mitologia, confutare gli aut-aut pseudorealisti e soprattutto non farsi incastrare dall’abitudine a trasformare sempre tutto in materiale dialettico-polemico. Non si puo’ sapere e definire la giustezza a livello generale o di tendenza storica di un’idea senza metterla in pratica, non lo si puo’ fare senza aver lavorato nella propria vita per aprirgli una strada, una possibilita’. Non si puo’ neanche sapere di cosa si stia parlando se non si accetta di scendere nell’esperienza anche se questo modifichera’ alcune delle nostre visioni.
Ed infine non si puo’, proprio perche’ siamo nella post-modernita’, non dare valore centrale alla nostra vita individuale giocata giorno per giorno, anche senza necessita’ di uno schema teorico a tutto tondo, come particella elementare di quel flusso di massa che chiamiamo “Storia”, che, ricordiamoci, possiamo davvero definire e conoscere solo dopo, guardandoci indietro. Mentre le analisi storiche le faranno gli intellettuali a posteriori, la “Storia” la facciamo oggi con le nostre vite. E non si tratta di agire in base ad una concezione lineare-progressiva piuttosto che circolare-statica della Storia: queste anche sono definizioni che appartengono all’ex-post e che sono soggette anch’esse alle mode e alle fasi culturali. Si tratta invece, concretamente e semplicemente, di capire cio’ che va fatto, data la situazione che ci si trova a vivere, non solo immaginandosi elemento separato, ma riconoscendosi parte del Tutto, e farlo, a partire da se’.

Per questo io credo che la scelta di andare a vivere in campagna, di trovare qui un’alternativa autentica e possibile, e’ una scelta oggi non meno attuale e legittima storicamente almeno di qualsiasi altra, se non, a ben vedere, quella davvero appropriata ai tempi, che richiedono svolte nette e fattive che non possono calare dall’alto ma venire dalla responsabilita’ di ognuno, perche’ dalla responsabilita’ di ognuno si riproduce ogni giorno questo “mostro impersonale” al quale abbiamo delegato (da ex- forse piu’ che da post- moderni) il nostro destino e la realizzazione del nostro posto nel mondo, in cambio di una limitata gamma di ripetitive e sempre piu’ solitarie “ liberta’ ” quotidiane.

Sulla scelta di vita in campagna (e il suo tesoro)

Anche negli ambienti vicini al movimento per la “Decrescita” (nel quale dovrebbero trovarsi persone a cio’ piu’ favorevoli) noto spesso un certo scetticismo “realista” nei confronti della scelta di vita in campagna, dell’adozione di stili di vita, produzione/consumo, in vari modi, neo-contadini e della considerazione di questi come una valida autentica alternativa al sistema (auto)distruttivo imperante.
Si dice che della terra oggi non si puo’ vivere, che al passato non si torna e c’e’ a volte pure chi ama dileggiare coloro che a questa alternativa ci credono davvero volendoli dipingere come persone che amano parlare di agricoltura ed autoproduzione tanto piu’ quanto meno ne conoscono per davvero le fatiche e le privazioni che tutto cio’ comporta o puo’ comportare. Molto meglio, allora, sembra quasi sentir dire, fare francamente solo gli intellettuali della decrescita senza rivendicare una pratica conseguente (che per forza di cose – si da’ per inteso - tanto conseguente poi non potrebbe essere).
Ma… e allora? Viene da dire. Il problema della pratica conseguente, ma veramente, radicalmente, non ce lo poniamo? Siamo anche noi di quelli che credono in una realta’ fondamentalmente solo umana? Per la quale le battaglie sono sempre in primo luogo battaglie culturali? Dibattiti tutti interni a un mondo antropocentrico, sostanziato di logos, in cui mai appare un “oste” naturale ed oggettivo che arriva a presentare il conto riportando tutti ai semplici fatti? Anche per noi il momento di “sporcarsi le mani” dovra’ venire sempre piu’ tardi, quando magari sara’ il turno di qualcun altro?

A me pare ormai molto chiaro che di tempo non ne abbiamo piu’ a sufficienza per rimandare il momento di agire in pratica nel modo piu’ coerente possibile: non sara’ grazie ad un mutamento solo filosofico e neppure legislativo che i terribili mutamenti bio-fisico-chimici e climatici in atto rallenteranno la corsa minacciosa che percorrono in seguito ai nostri comportamenti economici consumistici. Se qualcosa ancora si puo’ salvare e’ rinunciando radicalmente a molti di tali comportamenti e sostituendoli con altri che siano oggettivamente ecocompatibili.
La vita fondamentalmente contadina e’ stata ed e’, in ogni tempo ed ogni luogo, una di dialogo continuo tra esseri umani e Natura su una scala che permette la percezione diretta dell’impatto e del rapporto degli uni con l’altra come di una parte che ha un suo posto nel Tutto, per quanto in un “Tutto” dinamico.
Siamo d’accordo che al punto estremo in cui oggi ci troviamo di “turning point” critico non si puo’ rispondere solo che, pur di salvare qualcosa, basta che adoperiamo comportamenti ecologici e simil-contadini – per quanto piu’ pretesi che reali - e tanto basta al di la’ di qualsiasi approfondimento di consapevolezza della portata sia mondiale-politica che esistenziale dei problemi e delle loro cause. Tutt’altro.
Ma il punto che molti sembrano non capire e’ che la scelta di vita in e della campagna, proprio dentro alla sua imperfezione ed alla sua relativa irrealizzabilita’ nella situazione attuale, e’ il passaggio che trasforma autenticamente anche al livello della coscienza, che porta la consapevolezza a fondersi e trasformarsi nel fuoco di una comprensione che avviene nella pratica, il che e’ proprio cio’ che ci manca oggi.
Perche’, nonostante abbiamo a disposizione una ricchezza di fonti d’ispirazione per immaginare altri fondamenti per altri e sostenibili modi di vivere, ad esempio in molte tradizioni olistiche di tutto il mondo, queste arrivano da noi perlopiu’ come mode superficiali mentre il consumismo dilaga ormai come non-cultura omologante a livello globale, anche nei paesi d’origine di tali stesse tradizioni? Perche’ la vera conoscenza che era propria dell’Oriente e di molti popoli tradizionali non riesce a diventare autentico patrimonio-risorsa nella coscienza diffusa di questa modernita’ in disperato bisogno di aiuto (tanto piu’ grave quanto meno conscio)?
Proprio perche’ si tratta di un tipo di conoscenza che va colto attraverso la pratica piu’ che le parole, come il senso delle cose, come la verita’ della Natura, di una base fondamentale che non solo ci appartiene , ma alla quale soprattutto apparteniamo. Queste forme di conoscenza erano vive e alla portata del senso comune quando erano radicate nella vita concreta delle persone, quando il dialogo ed il legame con la Natura era evidenza quotidiana – ovvero quando la dimensione pratica contadina era l’esperienza comunemente diffusa.

Quando sento le prudenti obiezioni rivolte a chi afferma che (non il tornare, ma il rivolgersi ad) una vita nella e della campagna e’ la soluzione fondamentale autentica e percorribile al pauroso futuro senza futuro a cui ci sta portando il sistema attuale, noto che, al di la’ della verita’ piu’ o meno di fatto che solo della terra oggi e’ molto difficile vivere, il punto e’ che non si coglie, in queste obiezioni, questo fuoco trasformatore della coscienza che e’ dato dalla pratica.
E’ certamente vero, almeno nella maggior parte dei casi, che e’ difficile ai limiti dell’impossibile mantenere oggi una famiglia decentemente (per quanto con standard “decrescenti”) solo grazie alle entrate ed ai prodotti provenienti da un’agricoltura (e biologica) su piccola scala. E’ altrettanto vero pero’ che questo diventa molto piu’ possibile se, da un lato si ridimensionano i propri consumi su standard di autentica decrescita e dall’altro si affiancano al lavoro agricolo altre attivita’ anche non agricole ma che hanno un legame con la vita in campagna se non altro nel fatto che grazie a questa possono essere solo complementari e pertanto scelte tra quelle comunque non necessariamente distruttive (il che gia’ non e’ poco).
Purtroppo si sta spesso a discutere sul fatto che in questi termini non ci si puo’ “arrogare” il titolo di “contadino” e che tale titolo non puo’ essere che in via di estinzione – se non gia’ materia per gli studiosi ed i musei. Questa impossibilita’ di “purezza” sembra ad alcuni essere gia’ di per se’ argomento sufficiente a chiudere il discorso e tornare con preteso “realismo” ad occuparsi solo delle numerose piccole misure compromissorie/palliative (per carita’, sempre utilissime e sacrosante, soprattutto perche’ adottabili oggi dalla vera stragrande maggioranza delle persone) in senso ecologista/decrescente, applicabili in una vita di citta’.
Perche’, dico io? C’e’ forse bisogno di dire che dietro la montagna non c’e’ nulla solo perche’ non si vuole avventurarsi fin lassu’? O forse che se in un posto ci si puo’ arrivare solo a piedi su impervi sentieri e non propriamente con una strada, allora cio’ vale a dire che non vale neanche la pena di partire, o che addirittura il posto non esiste del tutto?
A volte mi sembra si stiano a fare troppi distinguo prima di partire perche’ di partire davvero non ce se la sente ma non lo si vuole riconoscere e si pretende di negare cosi’ la possibilita’ stessa del viaggio.
Oggi non possiamo piu’ essere contadini “veri”? Bene, non c’e’ problema: saremo allora “neo-contadini” o anche “pseudo- o filo-contadini” o parzialmente contadini, se si preferisce. Il punto e’ che cio’ che oggi che cerchiamo di farlo solo in pochi e’ possibile fare al 30% - 50% - 70% e’ cio’ che e’ comunque possibile fare. Che, anche se non quantitativamente, qualitativamente e’ una soluzione, autentica. Che indica una direzione di percorso che e’ ecocompatibile e sostenibile in prospettiva senza limiti e che ha la capacita’ di allargarsi fino ad includere i vari aspetti di una societa’ funzionante.
Il fatto che si tratti, di fatto, di condizioni di vita contraddittorie, a cavallo tra una dimensione di alternativa in parte realizzata e la pur permanente parziale dipendenza verso un sistema radicalmente messo in discussione, non ne e’ un elemento invalidante, ma il segno che si tratta di una cosa viva, reale, un passaggio evolutivo in fieri: avrebbe avuto senso criticare il Neandherthal o l’Homo Abilis perche’ non erano ne’ piu’ autentiche scimmie ne’ ancora Homo Sapiens? Loro di fatto vivevano la loro vita ovvero la loro risposta alla situazione contingente lungo la strada dell’evoluzione: e’ solo a posteriori che poi gli si da’ un nome e si puo’ discutere sulla loro comparsa, la loro estinzione e sulle cause di entrambe.
Oggi siamo di fronte ad un passaggio evolutivo, di quelli che si presentano, a dare la cifra della loro portata, con il rischio dell’estinsione (o quasi) sull’altro piatto della bilancia. Siamo di fronte ad un passaggio che implica il confronto con il funzionamento profondo della nostra mente, del nostro comportamento ed i nostri meccanismi ripetitivi, con la nostra paura nel guardare la realta’.
Questo passaggio evolutivo a cui il percorso stesso della nostra storia ci porta oggi richiede un passaggio che, piu’ che culturale, e’ propriamente di livello di coscienza, ma non potremo farlo rimanendo all’interno dei limiti teorici, astrattisti ed intellettualisti della cultura moderna ed occidentale: dobbiamo evolverci nell’essenzialita’ di quella che e’ la nostra base naturale e dobbiamo farlo attraverso una conoscenza che cresce nella pratica, nella percezione diretta ed intuitiva di qual’e’ il nostro posto nel mondo, nella Natura.
Per questo motivo dico che spesso mi pare non si colga a sufficienza qual’e’ il vero tesoro, pur dentro a contraddizioni ad illusioni ed insufficienze, della scelta di chi va a vivere in campagna e della terra (nella misura in cui ci riesce). Questo vero tesoro e’ la possibilita’ di un cambiamento di prospettiva autentico che si muove organicamente col cambiamento concreto e misurabile del proprio impatto sull’ecosistema. Un cambiamento che avviene attraverso la pratica del fare una cosa impossibile e comunque realizzarla quanto piu’ possibile – aprendo di fatto la strada anche per altri – e chiedendosi costantemente, grazie alle difficolta’, il vero senso ed il vero valore di ripetere ogni giorno questa scelta impossibile.
E capirlo, a mano a mano, al di la’ delle parole.