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Certo, pensare di dover dir grazie alla tragedia avvenuta a Fukushima non è una bella cosa.
Non fa star bene: per noi è stata una notizia shokkante, ma per chi in questa “notizia” c’è stato dentro è stata la morte o la perdita dei propri cari; per molti continuerà ad essere una malattia o una lunga agonia; per chissà quanti esseri viventi non umani sulla terra e nel mare dove è stata riversata la radioattività già è cominciata in qualche modo una fine del mondo. Ce ne sono state e ce ne saranno tante: il mondo come Natura chiaramente non finisce mai, non fa che trasformarsi incessantemente, ma il mondo come un certo tipo di forma di vita o di insieme di forme di vita, quello che conosciamo e per il quale saremmo adatti a vivere è soggetto a finire. Non siamo indispensabili.
Ed è proprio per questa caducità, questa vulnerabilità, che è tutt’una con la vita, che non possiamo non sentire un moto di repulsione all’idea di dover ringraziare un evento così terribile.
Eppure, se dovessimo isolare un singolo elemento grazie al quale per la seconda volta la maggioranza degli italiani ha esplicitamente respinto l’ipotesi della presenza di centrali nucleari sul nostro paese, onestamente, quale dovremmo scegliere?
Non credo una preesistente prevalenza dell’opinione pubblica in questo senso: la tragedia di Chernobyl che aveva dato la spinta decisiva al referendum precedente era ormai per molti dimenticata e le abili manovre massmediatiche da parte dei direttamente interessati già preparavano il campo con una varietà di strategie comunicative studiate secondo il tipo di pubblico. C’era chi parlava dell’opzione nucleare come una questione da dare ormai razionalmente per scontata su cui rimaneva solo da stabilire dove e quando e quale modello di centrale scegliere (come per una nuova auto da acquistare) dato che aver ancora dei dubbi significava esser rimasti vent’anni indietro senza neanche essersi aggiornati abbastanza da sapere che ormai i reattori sono così sicuri che c’era la fila di personaggi ex-contrari che si arruolavano nella lista dei favorevoli. E c’era chi si approcciava col fare più prudente di chi responsabilmente si interroga (come nel famoso spot della partita a scacchi) sui pro e i contro quasi non fosse lì fin dall’inizio per sostenere il nucleare. Quasi che tutti i soldi spesi per lo spot e per garantire il “volume di fuoco” mediatico di decine di giornalisti votati a sminuire le notizie che arrivavano dal Giappone e negare l’evidenza del loro significato fino a quando ciò è divenuto manifestamente impossibile non fossero di per sé un buon motivo per non fidarsi.
Non credo neanche il pur generoso ed importante impegno degli attivisti per il SI, che se si son dati tanto da fare è stato proprio perché sapevano quanto potente fosse la pressione mediatica (prima in positivo e poi in negativo passando il referendum quanto più possibile sotto silenzio).
E non direi neppure perché il no al nucleare è stato in realtà un no al governo Berlusconi e alla maggioranza che lo sostiene: questo è ancora tutto da vedere. Il risultato congiunto delle altre tre consultazioni sembrerebbe confermarlo, ma chi, con un’ottica deformata in senso elettoral-partitocratico, volesse continuare a leggere qualsiasi cosa in questa chiave farebbe meglio ad essere prudente e chiedersi se la gente non si accorga che il maggior partito di opposizione (il cui segretario Bersani già dice “d’Italia” – forse tenendo da parte la Val di Susa dove il PD si prepara a mandare l’esercito) non ha affatto tenuto una posizione chiara né sull’acqua pubblica né sul nucleare fino al momento in cui è stato chiaro quali fossero le convenienze da raccogliere quanto alla posizione da tenere su queste votazioni. Ora Bersani ci prova a riscuotere il premio che suppone fosse in palio per il vincitore, ma forse non si accorge che se questo referendum ha un significato politico di rottura che va oltre il merito dei quesiti, questa ha una portata ben più ampia che rispetto a questo governo in particolare.
Purtroppo però, la percezione dell’urgenza di un cambiamento vero e profondo stenta ancora a diffondersi ed a farsi forza e pratica di alternativa, a far sentire il proprio peso in modo chiaro e non più confinabile nella marginalità dell’eccentricità politica o, al massimo, su questioni particolari ed episodiche.
Purtroppo ancora è forte la fiducia nella versione ufficiale, telegiornalica, dell’attualità ed ancora troppi pochi percepiscono la portata del cambiamento necessario.
Purtroppo è solo in seguito alle catastrofi e sulla spinta della paura che si ritrova la lucidità di sapere che non siamo in un film a lieto fine: non c’è stato per nessun impero nella Storia come non c’è stato per i dinosauri. Alla lunga solo chi è adatto sopravvive: non sta scritto da nessuna parte che siamo indispensabili su questo pianeta. E adatto significa in armonia con gli equilibri della Natura.
Di quante Fukushima avremo ancora bisogno? Non solo per bandire il nucleare da tutti i paesi, ma dovremo prima vedere contaminazioni e mutazioni biologiche irreversibili per vietare gli OGM? E’ questo che chiamano “principio di precauzione”? Aspetteremo che si sciolga il permafrost della tundra inondandoci di carbonio per capire che il riscaldamento globale è un problema non rimandabile? O di ritrovarci con milioni di sfollati per l’innalzamento dei mari? Con mari senza più vita e terre senza acqua da bere? Continueremo a spendere il nostro tempo per procurarci merci inutili fino al punto che dovremo impiegare tutta la ricchezza in guerre per contenderci una triste sopravvivenza? Aspetteremo ancora a lungo di essere svegliati da questi disastri facendo finta che il punto sia scegliere tra chi campa di rendita sull’etichetta della “Destra” e chi su quella della “Sinistra”?
Giorgio Gaber diceva che “gli schiaffi di Dio appiccicano al muro”. A Fukushima purtroppo ne è arrivato uno di questi schiaffi (e sembra che il governo giapponese ancora non ci voglia sentire…). La sua eco ci ha convinto a non fare il gravissimo errore su cui ci stavano spingendo. Credo che c’è mancato poco, non fosse stato per Fukushima.
Non so se abbiamo motivo di essere soddisfatti di aver avuto bisogno di un tale segnale, ma possiamo esser contenti, questa volta, di avercela fatta. E forse anche un po’ orgogliosi.
Restiamo svegli.
mercoledì 15 giugno 2011
giovedì 2 giugno 2011
L’ Economia del Futuro
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Domenica scorsa ho partecipato ad una camminata in collina con un gruppo di escursionisti. Dopo un po’, rimasto in coda al gruppo per godere meglio i suoni del silenzio nel bosco, fui attratto tuttavia da un discorso tra i due partecipanti che appena mi precedevano. Il dialogo verteva sulle preoccupazioni che destava in loro l’andamento dell’economia globale. Non erano certo degli economisti, ma mi colpì una domanda sulla quale continuai a rimuginare per buona parte del percorso: “si dice economia virtuale, ma da dove viene questa ricchezza? Da dove li tirano fuori i soldi che poi realmente ci fanno sopra?”.
Mi rendevo conto che la questione veniva posta in modo abbastanza rozzo – o così l’avrebbe certo giudicato un addetto ai lavori . D’altra parte mi sembrava che la sostanza del quesito non mancasse di una certa ragion d’essere: se c’è un’economia, se c’è chi vende e chi compra, chi spende, investe, acquista e guadagna, chi paga, chi perde, se c’è ricchezza che si crea, vuol dire che c’è qualcosa che dà origine a questo, qualcosa che passa di mano in queste transazioni, una sostanza di questi scambi.
Si dirà, certo, che si tratta in realtà perlopiù di ricchezza finanziaria, monetaria, e che il denaro è in ultima analisi una convenzione il cui valore di scambio alla lunga è legato alle condizioni dell’economia reale, quella produttiva. In questo senso i profitti dell’economia virtuale sarebbero una sorta di abbaglio momentaneo, speculazioni di corto respiro, il lancio di una scommessa destinata a cadere nel vuoto di una crescita presunta, ma della quale non ci sono più i presupposti né le condizioni ambientali.
Credo anche io sia così. Eppure, se su queste scommesse c’è chi gioca molto denaro, se c’è chi le vende e chi le compra queste scommesse, e si tratta di persone tutt’altro che sprovvedute quanto a movimentazione di capitali, e non appartenenti ad una nicchia marginale nel mondo finanziario, bensì alla tendenza che si è affermata a livello mondiale, mi sembra un po’ superficiale fermarsi a credere che tutta questa virtualità sia davvero basata sul nulla. Se così fosse la cosa sarebbe durata già abbastanza a lungo. E la crisi del 2008 sarebbe dovuta essere sufficiente ad imporre un’inversione di rotta.
Cosa sia, dunque, questa miniera dalla quale effettivamente si estrae ricchezza nell’era dell’economia virtuale è stata la domanda che ha continuato a ronzarmi in testa per il resto della camminata.
Qual è la materia dello scambio quando si muovono masse di capitali sulle probabilità di tenuta o di recessione (/crisi/fallimento) delle economie più fragili tra quelle dei paesi sviluppati? Quando si condizionano le loro capacità di far fronte ai debiti proprio esprimendosi a favore o contro queste stesse capacità (e giocando in borsa conseguentemente o, meglio, preventivamente)?
Qual è l’oggetto della speculazione quando si alza o si abbassa ad arte il valore commerciale previsto di materie prime o di prodotti agricoli dei paesi “in via di sviluppo” ancor prima che questi vengano effettivamente prodotti e decidendo della sopravvivenza o della fame per milioni di persone?
Qual è la ricchezza veramente persa quando “scoppiano” le bolle finanziarie per aver artificiosamente gonfiato le aspettative di crescita e di profitti in determinati settori dell’economia?
Cosa è che viene ipotecato quando le risorse disponibili per gli investimenti vengono indirizzate verso speculazioni virtuali e scommesse finanziarie anziché sul trovare risposte alternative (sociali, tecnologiche, nella ricerca, nella ridistribuzione, nell’occupazione, nel risparmio, nella conservazione…) alle conseguenze minacciose del modello economico che ha dominato il mondo finora e che continua a dominarlo avvelenandolo e minando perfino i presupposti del proprio stesso funzionamento?
La risposta che mi son dato è che l’oggetto di sfruttamento da cui estrae profitto questa economia è tanto virtuale quanto reale, ed è il Futuro. Le nostre possibilità di futuro e la sua qualità.
In una economia evoluta in cui la pianificazione è essenziale ed ogni progetto di portata significativa necessita di ingenti capitali il futuro è materia di investimento e pertanto esso stesso trattato già ora come una risorsa, un oggetto attorno al quale ruotano soldi così come lo sono il petrolio, il ferro o le armi.
Il Sistema capitalista-consumista nel corso degli ultimi secoli si è espanso come un tumore arrivando ad occupare tutto il pianeta e tutte le nicchie possibili per le attività economiche intese in termini di profitto. Durante questo processo si è alimentato di varie risorse il cui sfruttamento è stato centrale per ogni nuova fase di crescita: l’oro, la seta, le spezie, gli schiavi, i territori e le popolazioni delle colonie, il ferro, il petrolio, il capitale movimentato nel prestito internazionale…. e sempre con l’ausilio degli eserciti e delle mille forme dissimulate di propaganda. Ora che tutti gli spazi sono occupati, che l’economia reale non tiene il passo con le esigenze di vorticosa accelerazione di quella finanziaria e che nuovi concorrenti sul piano della produzione si fanno temibili, il mondo reale si rivela troppo piccolo per le esigenze del capitale ed occorre inventare una nuova risorsa, solo apparentemente virtuale, come nuovo terreno di sfruttamento e di colonizzazione su cui proiettare gli effetti delle azioni attuali.
Non nel futuro, ma proprio il futuro.
Quando si fa girare l’economia su presunzioni virtuali e le risorse finanziarie vengono spese su scommesse (per quanto complesse e raffinate) non si sta facendo solo uno spreco e correndo degli enormi rischi, ma soprattutto lo si sta facendo sulle spalle di chi subirà le conseguenze di questi giochi e si troverà a vivere nel mondo che questi trucchi ed i loro fallimenti sono destinati a creare. Niente affatto il mondo che segue naturalmente la sua strada guidato dalla “mano invisibile della domanda e dell’offerta”, ma il mondo come sarà dopo che l’ultima occasione per impiegare utilmente la ricchezza disponibile sarà stata perduta.
Gli investimenti dell’economia virtuale sono su scenari proiettati su un futuro più o meno prossimo, ma si tratta di scenari che ripetono negli schemi di fondo il presente e soprattutto il passato recente degli anni della crescita, del boom dei consumi e delle tecnologie di massa, dell’energia a buon mercato, dell’ideologia sviluppista e dell’ordine mondiale Nord-Sud. Schemi di un mondo che sta scomparendo a vista d’occhio, ma che è purtroppo l’unico che la maggior parte degli investitori e degli economisti sa vedere o anche solo immaginare.
Con questa mancanza di immaginazione si stanno gettando nel pozzo di una crisi vera sempre più prossima le risorse finanziarie utili a costruire un futuro possibile. Proiettando in avanti modelli economici che non potranno più funzionare e speculando su queste prefigurazioni si consumano le risorse finanziarie ed il tempo a disposizione che potrebbero fare una ricchezza reale e praticabile nei decenni a venire. In questo modo invece tale ricchezza viene di fatto estratta “a monte”di quello che sarà il futuro, impoverendolo.
Si sta comprando virtualmente qualcosa che non ci sarà vendendo quello che avrebbe potuto esserci .
Ragionando su queste cose ero rimasto indietro ed, una volta raggiunto il gruppo, ritrovai gli stessi due che continuavano a parlare. Ora guardavano la collina di fronte a noi e discutevano del piano forestale regionale che ancora non era stato fatto per stabilire quali appezzamenti erano adatti al taglio boschivo e quali no.
Davanti a i nostri occhi c’era la costa di un rilievo basso, ma molto ripido, sul quale era stato effettuato un disboscamento quasi totale su un suolo aspro e roccioso in cui era evidente la precarietà del sottile strato di terreno fertile che lentamente era riuscito a formarsi nel lungo corso del tempo: bastava guardarlo per sapere che pochi anni di piogge sarebbero bastati a portarlo via.
Ma noi siamo gente evoluta: non può certo bastarci ciò che si capisce col buon senso.
Per bandire gli ogm o il nucleare bisogna prima aver dimostrato che possano creare disastri incontrollabili, anzi, li devono aver già provocati – che poi è l’unico modo per dimostrarlo: quando è troppo tardi.
E per salvare un bosco dobbiamo aspettare la valutazione d’impatto ambientale.
Per gli avventurieri della finanza, invece, eroi del nostro tempo a cui dobbiamo tutto – ovvero il continuare a girare dell’economia consumistica - è garantita tutta la libertà e l’impunità:
compresa quella di giocare alla roullette russa con il futuro. La pistola puntata sui nostri cervelli.
Domenica scorsa ho partecipato ad una camminata in collina con un gruppo di escursionisti. Dopo un po’, rimasto in coda al gruppo per godere meglio i suoni del silenzio nel bosco, fui attratto tuttavia da un discorso tra i due partecipanti che appena mi precedevano. Il dialogo verteva sulle preoccupazioni che destava in loro l’andamento dell’economia globale. Non erano certo degli economisti, ma mi colpì una domanda sulla quale continuai a rimuginare per buona parte del percorso: “si dice economia virtuale, ma da dove viene questa ricchezza? Da dove li tirano fuori i soldi che poi realmente ci fanno sopra?”.
Mi rendevo conto che la questione veniva posta in modo abbastanza rozzo – o così l’avrebbe certo giudicato un addetto ai lavori . D’altra parte mi sembrava che la sostanza del quesito non mancasse di una certa ragion d’essere: se c’è un’economia, se c’è chi vende e chi compra, chi spende, investe, acquista e guadagna, chi paga, chi perde, se c’è ricchezza che si crea, vuol dire che c’è qualcosa che dà origine a questo, qualcosa che passa di mano in queste transazioni, una sostanza di questi scambi.
Si dirà, certo, che si tratta in realtà perlopiù di ricchezza finanziaria, monetaria, e che il denaro è in ultima analisi una convenzione il cui valore di scambio alla lunga è legato alle condizioni dell’economia reale, quella produttiva. In questo senso i profitti dell’economia virtuale sarebbero una sorta di abbaglio momentaneo, speculazioni di corto respiro, il lancio di una scommessa destinata a cadere nel vuoto di una crescita presunta, ma della quale non ci sono più i presupposti né le condizioni ambientali.
Credo anche io sia così. Eppure, se su queste scommesse c’è chi gioca molto denaro, se c’è chi le vende e chi le compra queste scommesse, e si tratta di persone tutt’altro che sprovvedute quanto a movimentazione di capitali, e non appartenenti ad una nicchia marginale nel mondo finanziario, bensì alla tendenza che si è affermata a livello mondiale, mi sembra un po’ superficiale fermarsi a credere che tutta questa virtualità sia davvero basata sul nulla. Se così fosse la cosa sarebbe durata già abbastanza a lungo. E la crisi del 2008 sarebbe dovuta essere sufficiente ad imporre un’inversione di rotta.
Cosa sia, dunque, questa miniera dalla quale effettivamente si estrae ricchezza nell’era dell’economia virtuale è stata la domanda che ha continuato a ronzarmi in testa per il resto della camminata.
Qual è la materia dello scambio quando si muovono masse di capitali sulle probabilità di tenuta o di recessione (/crisi/fallimento) delle economie più fragili tra quelle dei paesi sviluppati? Quando si condizionano le loro capacità di far fronte ai debiti proprio esprimendosi a favore o contro queste stesse capacità (e giocando in borsa conseguentemente o, meglio, preventivamente)?
Qual è l’oggetto della speculazione quando si alza o si abbassa ad arte il valore commerciale previsto di materie prime o di prodotti agricoli dei paesi “in via di sviluppo” ancor prima che questi vengano effettivamente prodotti e decidendo della sopravvivenza o della fame per milioni di persone?
Qual è la ricchezza veramente persa quando “scoppiano” le bolle finanziarie per aver artificiosamente gonfiato le aspettative di crescita e di profitti in determinati settori dell’economia?
Cosa è che viene ipotecato quando le risorse disponibili per gli investimenti vengono indirizzate verso speculazioni virtuali e scommesse finanziarie anziché sul trovare risposte alternative (sociali, tecnologiche, nella ricerca, nella ridistribuzione, nell’occupazione, nel risparmio, nella conservazione…) alle conseguenze minacciose del modello economico che ha dominato il mondo finora e che continua a dominarlo avvelenandolo e minando perfino i presupposti del proprio stesso funzionamento?
La risposta che mi son dato è che l’oggetto di sfruttamento da cui estrae profitto questa economia è tanto virtuale quanto reale, ed è il Futuro. Le nostre possibilità di futuro e la sua qualità.
In una economia evoluta in cui la pianificazione è essenziale ed ogni progetto di portata significativa necessita di ingenti capitali il futuro è materia di investimento e pertanto esso stesso trattato già ora come una risorsa, un oggetto attorno al quale ruotano soldi così come lo sono il petrolio, il ferro o le armi.
Il Sistema capitalista-consumista nel corso degli ultimi secoli si è espanso come un tumore arrivando ad occupare tutto il pianeta e tutte le nicchie possibili per le attività economiche intese in termini di profitto. Durante questo processo si è alimentato di varie risorse il cui sfruttamento è stato centrale per ogni nuova fase di crescita: l’oro, la seta, le spezie, gli schiavi, i territori e le popolazioni delle colonie, il ferro, il petrolio, il capitale movimentato nel prestito internazionale…. e sempre con l’ausilio degli eserciti e delle mille forme dissimulate di propaganda. Ora che tutti gli spazi sono occupati, che l’economia reale non tiene il passo con le esigenze di vorticosa accelerazione di quella finanziaria e che nuovi concorrenti sul piano della produzione si fanno temibili, il mondo reale si rivela troppo piccolo per le esigenze del capitale ed occorre inventare una nuova risorsa, solo apparentemente virtuale, come nuovo terreno di sfruttamento e di colonizzazione su cui proiettare gli effetti delle azioni attuali.
Non nel futuro, ma proprio il futuro.
Quando si fa girare l’economia su presunzioni virtuali e le risorse finanziarie vengono spese su scommesse (per quanto complesse e raffinate) non si sta facendo solo uno spreco e correndo degli enormi rischi, ma soprattutto lo si sta facendo sulle spalle di chi subirà le conseguenze di questi giochi e si troverà a vivere nel mondo che questi trucchi ed i loro fallimenti sono destinati a creare. Niente affatto il mondo che segue naturalmente la sua strada guidato dalla “mano invisibile della domanda e dell’offerta”, ma il mondo come sarà dopo che l’ultima occasione per impiegare utilmente la ricchezza disponibile sarà stata perduta.
Gli investimenti dell’economia virtuale sono su scenari proiettati su un futuro più o meno prossimo, ma si tratta di scenari che ripetono negli schemi di fondo il presente e soprattutto il passato recente degli anni della crescita, del boom dei consumi e delle tecnologie di massa, dell’energia a buon mercato, dell’ideologia sviluppista e dell’ordine mondiale Nord-Sud. Schemi di un mondo che sta scomparendo a vista d’occhio, ma che è purtroppo l’unico che la maggior parte degli investitori e degli economisti sa vedere o anche solo immaginare.
Con questa mancanza di immaginazione si stanno gettando nel pozzo di una crisi vera sempre più prossima le risorse finanziarie utili a costruire un futuro possibile. Proiettando in avanti modelli economici che non potranno più funzionare e speculando su queste prefigurazioni si consumano le risorse finanziarie ed il tempo a disposizione che potrebbero fare una ricchezza reale e praticabile nei decenni a venire. In questo modo invece tale ricchezza viene di fatto estratta “a monte”di quello che sarà il futuro, impoverendolo.
Si sta comprando virtualmente qualcosa che non ci sarà vendendo quello che avrebbe potuto esserci .
Ragionando su queste cose ero rimasto indietro ed, una volta raggiunto il gruppo, ritrovai gli stessi due che continuavano a parlare. Ora guardavano la collina di fronte a noi e discutevano del piano forestale regionale che ancora non era stato fatto per stabilire quali appezzamenti erano adatti al taglio boschivo e quali no.
Davanti a i nostri occhi c’era la costa di un rilievo basso, ma molto ripido, sul quale era stato effettuato un disboscamento quasi totale su un suolo aspro e roccioso in cui era evidente la precarietà del sottile strato di terreno fertile che lentamente era riuscito a formarsi nel lungo corso del tempo: bastava guardarlo per sapere che pochi anni di piogge sarebbero bastati a portarlo via.
Ma noi siamo gente evoluta: non può certo bastarci ciò che si capisce col buon senso.
Per bandire gli ogm o il nucleare bisogna prima aver dimostrato che possano creare disastri incontrollabili, anzi, li devono aver già provocati – che poi è l’unico modo per dimostrarlo: quando è troppo tardi.
E per salvare un bosco dobbiamo aspettare la valutazione d’impatto ambientale.
Per gli avventurieri della finanza, invece, eroi del nostro tempo a cui dobbiamo tutto – ovvero il continuare a girare dell’economia consumistica - è garantita tutta la libertà e l’impunità:
compresa quella di giocare alla roullette russa con il futuro. La pistola puntata sui nostri cervelli.
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