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Oggi c’è un’attenzione crescente all’argomento dei beni comuni, anche sull’onda dell’esito dei referendum su acqua e nucleare (esito che speriamo venga rispettato – il che, come sappiamo, non è affatto scontato). Ci si torna ad occupare direttamente dei beni comuni di fronte alla deriva in cui versa la politica dei partiti, i quali appaiono più attenti a conservare privilegi ed a favorire interessi particolari privatistico-clientelari o come si usa dire “di casta” che a svolgere il proprio ruolo di rappresentanza delle istanze popolari.
Fino a qualche tempo fa i beni comuni potevano essere popolarmente identificati con i beni pubblici ovvero con i beni dello Stato. Per gran parte del secolo da poco conclusosi siamo vissuti nella dicotomia pubblico-privato secondo cui lo Stato faceva da contraltare agli interessi particolari, speculativi e principalmente del grande capitale privato e curava, almeno in parte, la difesa dell’interesse popolare o della collettività genericamente intesa.
D’altra parte lo Stato ha anche sempre avuto la funzione di garantire la proprietà privata. Col tramontare del periodo in cui in Europa aveva trovato spazio una politica almeno parzialmente socialdemocratica, ha preso il sopravvento una visione neoliberista e con essa assistiamo al dominio della finanza globalizzata non solo sull’economia reale, ma sulla politica e sulla sovranità nazionale. Il progressivo venir meno di ogni limite a questo dominio ci ha portato al punto di crisi strutturale in cui siamo adesso che non solo l’idea di beni pubblici o comuni è stata relegata in una sorta di archivio della preistoria politica – come già era avvenuto per gli usi civici e le comunanze agrarie – ma lo Stato stesso si è trasformato in esecutore e garante degli interessi del grande capitale internazionale abdicando al proprio ruolo di salvaguardia degli interessi nazionali e della popolazione. Si è affermata un’idea che ha del paradossale: cioè che lo Stato debba vedere sé stesso come una sorta di azienda e che debba non regolare e controbilanciare le tendenze destabilizzanti e sperequative del mercato al fine di una qualche giustizia sociale, ma che deve addirittura mimarle favorendo la competizione. Viviamo in un mondo in cui la trasformazione in merci della terra, dell’acqua, dell’aria, della biodiversità – dalle quali tutti dipendiamo - è diventata una cosa acquisita e in cui, tanto per fare un’esempio, in Bolivia, dopo la privatizzazione dell’acqua, il fatto che la gente raccogliesse acqua piovana per bere, veniva considerata una pratica di concorrenza sleale da parte della multinazionale statunitense Bechtel, che aveva acquisito i diritti, e pretendeva che la polizia dovesse impedirla con la forza (cosa che ha dato luogo ha giornate di scontri in tutto il paese e poi finalmente ad un cambio di governo – oggi la Bolivia, insieme all’Ecuador, è l’unico paese al mondo che ha ripristinato i beni comuni fra i luoghi del proprio diritto costituzionale).
In un tale contesto diventa piuttosto difficile definire cosa siano i beni comuni, dato che da un lato non può essere più sufficiente la loro definizione in termini di proprietà pubblica nel senso di statale, regionale, comunale (anche perché questi enti sono pronti a vendersi tutto)… mentre dall’altro rimane la necessità di presidi legali/istituzionali che li salvaguardino da ogni appropriazione arbitraria e dall’abuso per interessi privatistici. Anche per questo la ridefinizione dei beni comuni diventa una questione che investe una critica complessiva e potenzialmente radicale all’insieme del modello economico-politico-culturale oggi dominante.
Nel tentativo di abbozzare qualche traccia di definizione possiamo dire in primo luogo, con Alberto Castagnola della Città dell’Altra Economia di Roma che :
“La condizione essenziale per i beni comuni è quella dell’accesso “libero” ma limitato, cioè sottoposto al rispetto di misure protettive funzionanti che ne garantiscano la permanenza nel tempo; solo a questa condizione l’uso delle risorse naturali è sostenibile, perché coloro che le usano sono interessati alla loro conservazione” Alberto Lucarelli, Professore ordinario di Istituzioni di Diritto Pubblico ed Assessore Comunale ai Beni Comuni del Comune di Napoli – probabilmente l’unico Comune in Italia ad essersi dotato di un assessorato ai Beni Comuni - nel suo libro “Beni comuni, Dalla teoria all’azione politica” (Dissensi, 2011) ci dà questa definizione:
“ si tratta di beni che, al di là della proprietà che è tendenzialmente dei poteri pubblici, assolvono per vocazione naturale ed economica all’interesse sociale, servendo immediatamente non l’amministrazione ma la stessa collettività in persona dei suoi componenti.
Sono beni che appartengono a tutti i consociati e che l’ordinamento deve tutelare e salvaguardare anche a beneficio delle generazioni future. Più che il titolo di proprietà (appunto pubblico o privato), rileva per questi beni la funzione e l’individuazione dei diritti; rileva la situazione di fatto, piuttosto che il titolo formale, risulta appunto più importante, per la tutela effettiva del diritto, il momento possessorio e la fase gestionale, piuttosto che il titolo di proprietà del bene. (…)
“In questo senso, le istituzioni pubbliche ancorchè in possesso di un titolo di proprietà, sarebbero più tutori di interessi e diritti della collettività, piuttosto che proprietari esclusivi di un bene; titolari di un potere dispositivo limitato sul bene che, salvo eccezioni, non li consentirebbe di orientarlo al mercato, attraverso gestioni di natura privatistica. Il pubblico, laddove proprietario di beni, non sarebbe legittimato a “fare affari” attraverso essi. (…) Le istituzioni pubbliche sarebbero tenute a servire i beni comuni, in quanto beni propri dei cittadini”. Così Lucarelli.
Vorrei personalmente aggiungere che non si riconoscerà mai abbastanza l’inestimabile valore anche economico dei beni comuni, soprattutto di quelli dati dalla Natura (terra, acqua, aria, foreste, biodiversità, strato fertile del suolo, equilibrio climatico, assetti idrogeologici…): nell’Occidente tecnologizzato e specialmente da parte di chi vive in città si è abituati a dare troppe cose per scontate, ma dobbiamo sempre tenere a mente che senza queste cose che sono gratuite solo perché sono al di là di ogni prezzo, tutta la nostra ricchezza non sarebbe nulla e tutte le nostre acquisizioni tecnologiche nemmeno sarebbero possibili. Invece, incuranti di tutto ciò, noi ci preoccupiamo di questioni come il pareggio di bilancio della cosidetta “azienda Italia” e della nostra capacità di pagare gli interessi alle banche d’affari internazionali mentre qui ciò che non è più in equilibrio è il bilancio del carbonio e del metano nell’atmosfera, la percentuale di specie in rapida estinzione, la quantità d’acqua dolce disponibile sul pianeta, il tasso di desertificazione, la paurosa riduzione della vita negli oceani, il dilavamento dello strato fertile dei suoli ecc… Forse ci toccherà presto imparare che sobrietà non è solo l’ultima parola di moda nei talk show televisivi, ma è l’unico modo realistico di non perdere per sempre le cose più importanti che abbiamo.
Oggi, e giustamente, stiamo parlando molto di legalità. Quando trent’anni fa da Roma sono arrivato in campagna in Umbria ed ho occupato un casolare abbandonato, ho compiuto un’azione illegale. Ma, se guardo agli oltre cento casolari demaniali che, nel territorio della stessa Comunità Montana (Monte Peglia e Selva di Meana - TR) non sono stati occupati e che oggi sono crollati e in molti casi ormai ricoperti dalla vegetazione, sinceramente non posso dire di essere pentito di quest’azione illegale. Se penso ad alcune persone che ho visto passare un pezzo di vita su questa montagna, arrivati con un passato di emarginazione e tossicodipendenza, e a come li ho visti trasformarsi e rinascere grazie a questa scelta di vita, non posso certo dire di essere pentito se ho partecipato a creare un’oasi di alternativa.
Anzi, se posso dire una cosa dal profondo del cuore, sinceramente mi augurerei di vedere ancora oggi a decine, a centinaia, a migliaia di giovani che volessero sottrarsi ad una vita prefabbricata, alla scelta obbligata del consumismo, alla partecipazione involontaria ad un modello economico distruttivo, al ricatto della precarietà e della disoccupazione venendo ad occupare terreni e casolari abbandonati e a vivere in campagna. Sinceramente di veder gente che avesse oggi questo coraggio ed anche un po’ questa giovanile avventatezza, non potrei che essere felice.
Semmai mi dispiace che ancora nessuno, nelle amministrazioni pubbliche, abbia pensato a predisporre strumenti legali adeguati a rendere praticabile – e non eroica - una scelta del genere. A renderla una delle possibilità esistenziali e professionali disponibili per un giovane.
D’altra parte, quando, circa trent’anni fa, mi sono unito al fenomeno delle occupazioni sul Monte Peglia avevo vent’anni. Oggi vedo anche un altro aspetto che mi era meno chiaro allora: l’importanza della difesa della legalità, di regole giuste (e possibilmente semplici, ispirate alla logica e comprensibili da tutti) necessarie per vivere in una società ordinata dal diritto anziché dal potere.
A volte ci sono delle obiezioni che qualcuno ci fa e che ci portiamo dentro per anni cercando di dargli una risposta che sappiamo esserci, ma che solo lo svolgersi dei fatti ci dirà. Il punto è sostanzialmente questo: se la mercificazione di un bene pubblico che avviene con la sua vendita a un privato è un comportamento indebito da parte dello Stato, non lo è anche la sua occupazione, un’appropriazione spontanea per farne il luogo della propria scelta di vita? O il vostro atto è una proposta, un segnale, l’inizio di qualcosa che ha anche un senso che va al di là di voi? Cioè, vale la pena affidarvi sia pure un casolare in stato di abbandono – allora senza luce e spesso quasi senza strada - e dei terreni incolti e marginali, ma che appartengono alla collettività o non si tratta anche qui di un diverso tipo di arbitrio, di un’appropriazione indebita?
Credo sia onesto farsi questa domanda e condividere con voi le risposte che ci sentiamo di dare. Naturalmente dobbiamo parlare di noi stessi, fare un po’ un bilancio della nostra esperienza, con l’umiltà del caso, ma anche con la consapevolezza che non stiamo parlando di fumosi progetti pieni di belle intenzioni: noi nelle case del Peglia ci viviamo da trent’anni e portiamo avanti, nel bene e nel male, uno stile di vita ecosostenibile secondo le intenzioni con cui siamo partiti, nelle difficili condizioni pratiche, economiche, legali e di rapporti con le istituzioni che ci siamo trovati davanti per tutto questo tempo.
In questi trent’anni nelle “nostre” case è sorta una casa laboratorio, il Cerquosino dell’associazione Artemide che svolge una vasta gamma di attività culturali e di recupero sociale in collaborazione con istituzioni ed altre associazioni italiane ed europee; sono attive quattro aziende agricole dedite all’allevamento, certamente di dimensioni molto piccole, ma di ancor più piccolo impatto ambientale. Oltre a ciò attraverso questa realtà in questi anni sono passate centinaia di persone da tutta Italia che hanno avuto l’occasione di sperimentare direttamente la praticabilità di una vita e di un’economia assolutamente ecosostenibili ed una forma di socialità mutualistica e solidale. Diversi altri nuclei familiari sono venuti ad abitare da parecchi anni in zona comprando ed affittando per unirsi alla realtà di queste case del Peglia. E’ forse poco, ma è una cosa reale e che dura da trent’anni in una zona molto avara di opportunità di lavoro e, purtroppo, dobbiamo dirlo, a fronte di un atteggiamento da parte delle istituzioni a dir poco scoraggiante in cui è stata accordata una condizione di legalità solo per dieci anni su trenta e comunque senza prospettive di continuità o di un futuro su cui investire o potersi permettere dei progetti. In un tale contesto crediamo sia già veramente molto l’aver resistito fino ad ora nel mettere in pratica idee – a cominciare dal biologico fino alla decrescita - che oggi hanno cittadinanza nel dibattito pubblico, ma che noi facevamo concretamente nostre già trent’anni fa quando erano considerate a dir poco risibili o di cui non si parlava affatto.
D’altra parte bisogna anche dire, ce ne fosse bisogno, che pur mantenendo un bene come pubblico, se non lo si vuole lasciare al degrado e all’incuria, bisognerà pur scegliere di affidarlo a qualcuno e non a qualcun altro, perché non ci capiterà mai di incontrare la signora “Collettività” e di poterglielo consegnare.
Ma la migliore risposta alla questione se le nostre occupazioni sono state una valorizzazione, una proposta, un’esperimento a cui vale la pena di dare spazio o viceversa un arbitrio equiparabile alla vendita dei beni comuni ai privati sta nel ribaltare la prospettiva di chi ci pone l’obiezione.
In primo luogo bisogna saper riconoscere che chi occupa un bene abbandonato lo fa perché ci vede un valore, un valore che altri non vedevano, quindi gli
dà valore. Si tratta di un fenomeno che avviene spontaneamente da parte di elementi della società che hanno idee diverse e cercano soluzioni alternative a problemi comuni a tutti – vuoi esistenziali, vuoi occupazionali, vuoi di sostenibilità ambientale…- e le vogliono sperimentare anche se privi di risorse finanziarie ed anche se estranei ad una logica d’impresa e di profitto.
Ora, crediamo che l’amministrazione pubblica dovrebbe non solo eseguire i vari programmi europei o governativi di sviluppo sociale, ma anche saper cogliere, coltivare e favorire le istanze di cambiamento – almeno quelle costruttive - che spontaneamente la società trova da sola. I beni pubblici sono la ricchezza materiale a disposizione per dare spazio e possibilità a queste sperimentazioni. Certo che da parte delle amministrazioni occorre avere uno sguardo vigile e capacità di distinguere tra chi è serio e chi non lo è, ma ci vuole pure la capacità di avere una visione ampia e lungimirante, di propositività ed ascolto.
Possibile non venga in mente ai politici e agli amministratori locali e della Regione Umbria di aver perso un’occasione nell’aver avuto qui per trent’anni un gruppo di persone caparbiamente convinte nella loro scelta di vita, con idee diverse e curiosamente così in sintonia con quelle che via via andavano raccogliendo un crescente consenso presso una sempre crescente minoranza di persone nel nostro paese? Non era forse il caso – visto che tanto poi, ci hanno comunque lasciato qui fino ad ora – di aprire un dialogo in positivo, offrire una possibilità, proporre forme di collaborazione, dare spazio e fiducia e vedere quali sinergie con altre realtà locali e non solo ne sarebbero venute fuori? Non era possibile riconoscere la potenzialità delle numerose tematiche implicite in quella scelta di vita, in termini di agricoltura, di alimentazione, di salvaguardia del paesaggio e del territorio, di turismo rurale sostenibile, di recupero sociale, di occupazione…. Non erano in grado questi politici ed amministratori di riconoscere, dietro la scarsità di mezzi e possibilità degli occupanti, l’indicazione di un dito che punta alla luna?
Questo sarebbe l’atteggiamento di un’amministratore che si percepisse custode temporaneo di un bene nell’interesse della collettività. Ma ciò a cui assistiamo, purtroppo è la cecità di chi ragiona solo in termini di sviluppo, di produzione, di bilanci finanziari e, dopo decenni di immobilismo ed assoluta mancanza di immaginazione e creatività, non sa far di meglio che trovare la soluzione definitiva della dismissione. Vendere tutto: o hai i soldi per comprare o te ne vai. E così si lava le mani dalla responsabilità di una gestione intelligente; si arroga indebitamente la posizione del proprietario e con ciò la facoltà di vendere ciò che non gli appartiene.
Per di più neanche si tratta, nel vendere, di una strategia in alcun modo lungimirante né progettuale: solo di fare cassa, e solo per ripianare in misura molto limitata ed una tantum dei disavanzi contabili. A livello nazionale si calcola che, con la vendita del Demanio, saranno raccolti circa 6 miliardi di euro, una cifra irrilevante a fronte di un debito pubblico di circa 1800 miliardi e mentre se ne spenderanno oltre 20 per imporre la TAV in Val di Susa dove gli abitanti hanno mostrato più che chiaramente di non volerla e più di 30 per comprare cacciabombardieri di nuova generazione. Una volta che questi beni demaniali, che sono beni pubblici, che appartengono a tutti noi, saranno stati venduti, saranno andati e per sempre sottratti ad un uso pubblico. Inoltre la legge 183 del 12 novembre 2011 (sostanzialmente la finanziaria per il 2012), che decide la vendita del Demanio, all’articolo 7 prevede, per quanto riguarda i terreni agricoli e fin da prima di metterli effettivamente in vendita, la possibilità che ne venga in seguito cambiata la destinazione d’uso (indicando pure i termini per il recupero dell’incremento di valore da parte dello Stato): nel paese dei condoni e del cemento selvaggio non credo sia necessario aggiungere altro. Non basta: per almeno alcuni dei beni immobili demaniali da alienare si parla, all’articolo 6, di trasferimento a società di gestione del risparmio e fondi d’investimento immobiliare, specificando che il solo trasferimento dei beni da parte di Regioni, Province e Comuni a tali società e fondi equivarrà al riconoscimento del valore corrispondente nella quota di riduzione del debito pubblico che è il fine della vendita da parte degli enti territoriali.
Una tale perdita definitiva di territorio e beni pubblici per puri motivi di contabilità e sottomissione ad accordi europei in materia di bilancio, sui quali (da Maastricht in poi) i cittadini non sono mai stati interpellati, crediamo possa essere considerata niente meno che un abuso del mandato democratico conferito dai cittadini. Queste sono questioni che andrebbero almeno sottoposte a referendum. Lo Stato non può arbitrariamente passare da custode del bene pubblico a proprietario e arrogarsi così il diritto di vendere ciò che non gli appartiene.
Ciò avviene, peraltro, nel contesto di una progressiva virtualizzazione generale di ogni elemento della nostra realtà. In questo caso assistiamo ad un processo in cui lo Stato si dematerializza, spostandosi sempre più verso uno status convenzionale a cui non corrisponde più alcuna realtà concreta, materiale, che dia un senso di appartenenza e, appunto, di
bene, di ricchezza comune. Viene meno la possibilità concreta e rinnovabile di alternative e soluzioni anche sperimentali ai problemi costituita da questa ricchezza. Nel caso di un vasto territorio come il Monte Peglia, ad esempio, al di là di chi momentaneamente vi abiti, oggi possiamo ancora vederla davvero come bene comune: montagna di nessuno, montagna di tutti. Non si tratta dell’anarchia del “chi arriva se la prende”: questo sarà piuttosto il caso nel momento in cui la si metterà all’asta, quando il miglior offerente sarà semplicemente chi paga di più. Si tratta invece di concepire regole che non lascino un bene nell’abbandono, che lo rendano disponibile per chi lo vuol vivere, ma con precisi criteri di rispetto.
La virtualizzazione dell’aspetto anche materiale dello Stato corrisponde alla sua progressiva convenzionalità, opinabilità, sostanziale irrilevanza, indifferenza nella coscienza delle persone, al non-riconoscimento reciproco verso e da parte dei cittadini, corrisponde al crescente distacco di questi dalle leggi e dalle istituzioni.
C’è chi pratica l’azione diretta occupando/recuperando un casolare in cima a un monte e vivendoci in semplicità per trent’anni… ma cosa sapranno dire i nostri politici ai giovani precari, disoccupati, disperati delle periferie metropolitane quando la crisi non permetterà più alle famiglie di sostituirsi alle funzioni di wellfare che lo Stato italiano non ha mai svolto? Guardiamo le banlieu in Francia, la rivolta di Londra, le bande neonaziste in Svezia e aspettiamo quando sarà il turno, per esempio, delle tifoserie italiane… Attenzione, perché quelli non lo capiscono il politichese.
Vent’anni di berlusconismo ci hanno abituato ad una pretesa dicotomia tra libertà e legalità. Che è precisamente l’opposto della democrazia. Ma tra una concezione unilaterale ed egoistica della libertà individuale e troppe leggi spesso oggettivamente lontane dalle esigenze reali delle persone, a mediare e fare sintesi ci dovrebbe essere la politica. Una politica intesa nell’accezione migliore di questa parola, che sappia, specialmente a livello locale dove gli è anche più possibile, interpretare la realtà in divenire ed interagirvi proficuamente.
C’è bisogno di una visione lungimirante e che questa ci sia o meno da parte dell’amministrazione pubblica non è un elemento collaterale o “ambientale” della questione se un elemento di rottura come quello delle occupazioni del demanio rurale sia arbitrio o proposta di cambiamento, ma è proprio l’elemento decisivo e discriminante che fa la differenza. Se l’amministrazione è capace ed ha la volontà politica di coglierne l’aspetto propositivo-costruttivo, di vedere la luna cui il dito indica, allora potrà trattarsi di un’iniziativa con possibilità di svilupparsi ed esprimersi collegandosi ed integrandosi costruttivamente con le altre realtà virtuose della zona. E’ se questa occasione verrà data che l’arbitrio si farà progetto, altrimenti non potrà che rimanere nello stadio della resistenza – e sarà già molto – e restare incompreso elemento di rottura, purtroppo abbastanza sterile.
Ma bisognerebbe saper volare un dito più in alto di ciò che, francamente, siamo abituati a vedere.
Che una logica di brevissimo periodo – quale è quella che informa attualmente la politica – sia del tutto disastrosa e insostenibile risulta ormai chiaro da tutte le evidenze disponibili. Credo che dovremmo ascoltare le parole di Ugo Mattei (“Beni comuni, un manifesto”, Laterza 2011), giurista e professore di diritto internazionale che si è occupato ampiamente di Beni Comuni:
“Dovrebbe essere palese che un governo più coerente con la fenomenologia dei beni comuni si deve fondare su istituzioni capaci di coinvolgere coloro che sono disinteressati all’accumulo di proprietà privata e di potere politico e, al contrario, sono gratificati proprio dalla cura del comune. Istituzioni, cooperative, fondazioni, associazioni , assemblee, consorzi tra enti locali, comitati, insomma gruppi che pongano in essere autentiche dinamiche democratiche – più o meno informali e conflittuali – prive di fini di lucro, costituiscono gli assetti istituzionali più adatti a governare i beni comuni”.
Agli amministratori temporanei della cosa pubblica, dei nostri beni comuni, vorrei ricordare che questi beni non hanno solo un valore economico, finanziario, sarebbe criminale vederli solo come degli assegni circolari: sono possibilità di vita e di evoluzione, per le persone e per la società.
Che se ne rendano conto!! E che ce ne rendano conto.