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Qualche tempo fa ho riincontrato una vecchia conoscente, figlia di amici di famiglia, che non vedevo da quando eravamo bambini. Le ho chiesto cosa facesse ora e, guardandomi con un’aria tra l’ironico ed il rimproverante, mi ha risposto”io lavoro”. L’espressione voleva significare la sua scarsa considerazione per il tipo di economia che mi sono scelto – di cui sa per sentito dire – in cui solo lavori a termine, occasionali e saltuari, concorrono ad integrare monetariamente la mia forma di sussistenza di base che definisco come ‘neo-contadina’ e dunque fatta in ampia misura da autoproduzioni ed in parte svincolata dal denaro. Questa persona è impiegata come grafica pubblicitaria presso un’azienda, il che significa che passa la sua giornata essenzialmente seduta davanti ad un computer in un ambiente riscaldato d’inverno e con aria condizionata d’estate. Con tutto il rispetto per chi svolge questo tipo di occupazioni, devo confessare i miei dubbi sul fatto che in esse ci sia più fatica che nelle mille diverse attività che compongono la mia giornata, dallo spostare pietre, al tagliare legna, al vangare e zappare, potare alberi tutto il giorno in cima ad una scala, lavorare con trattore ed attrezzi vari….sempre fuori in tutte le stagioni. Questa persona però intendeva dirmi che lei si guadagnava da vivere lavorando…e io no.
La Costituzione italiana dice che la nostra è una Repubblica “fondata sul lavoro”. Ma l’esempio appena citato serve a mostrare come, nel senso comune, il valore non sta nel fatto in sé di lavorare, bensì in quello di percepire uno stipendio: nel fare un’attività per la quale si ottengono in cambio dei soldi. Se c’è un salario è lavoro altrimenti non lo è, questo è il punto. Un po’ come quando, nelle statistiche degli organismi internazionali sui paesi “in via di sviluppo”, il contadino quasi autosufficiente del villaggio di montagna è considerato più povero del manovale occasionale e perfino del ladro o del mendicante nello slum alla periferia della città perché, a differenza di questi ultimi, per la sua sussistenza non fa quasi alcun uso del danaro contante ed è perciò del tutto escluso dall’economia capitalista. L’idea è forse che il fatto di partecipare a questa sia già in sé un contributo al progresso dell’umanità, ma direi che i disastri ecologici e non solo a cui siamo di fronte dovrebbero far pensare piuttosto il contrario: che il contributo stia invece nel sotrarre una persona in più a questi meccanismi, al consumo del territorio e delle risorse naturali e nel rapportarsi con la Natura in modo equilibrato e sostenibile, come fanno appunto gli abitanti dei villaggi tradizionali.
Ma, a ben guardare, neppure è l’aver soldi o ricchezze il vero valore fondante nella nostra società: molto di più questo sta nel fatto di spenderli. Se si ha la possibilità di spendere – e lo si fa – lì davvero si acquistano status e considerazione.
Non a caso le imposte si applicano in modo molto più pesante quando le proprietà sono mantenute nella loro forma statica, conservativa: le case - gli immobili per l’appunto – vengono tassate pesantemente mentre i patrimoni finanziari (fondi vari ecc…) non devono neppure essere dichiarati. In questa fase terminale del capitalismo sempre più accelerata, finanziaria, virtuale e con sempre meno rapporti con l’economia reale-produttrice/conservatrice di beni utili, i soldi, la capacità di spesa, i mezzi devono muoversi, partecipare al vortice del mercato: se seguono ritmi più lenti, più prudenti, se tendono a risparmiarsi e mantenersi (né disperdersi né accrescersi) bisogna fargliela pagare, come in un parcheggio a pagamento. Non basta che ti sei comprato una macchina, questa deve continuare a (far) circolare (denaro), anche quando sta ferma.
La capacità di spesa ed il suo esercizio è il fondamento della dignità della persona, del suo apprezzamento sociale (potremmo dire del suo rating, perché no? Del resto segna lo spread che c’è tra lui ed i suoi simili) ed infatti è la cosa che molti ostentano, perfino quando non ce l’hanno veramente, perfino quando per questo sono costretti a indebitarsi. Le società umane si basano su valori culturali, di status, come le melodie del pifferaio magico di turno dietro al quale i più si accodano danzando fino ed oltre il precipizio.
Nessuno spot è stato più berlusconianamente rappresentativo della nostra epoca di quello in cui tutti i passanti ringraziavano il “signor Rossi” che se ne andava in giro con la borsa della spesa piena di acquisti, come un eroe (forse neanche più borghese, ma nazional-popolare) che aveva contribuito al benessere del Paese: non a caso, non con il suo lavoro (lo spot non ci dice mica come li ha fatti i soldi, né a molti ciò interessa più nulla, neppure se lo dovessero votare), ma con la sua spesa.
La busta della spesa, simbolo del consumatore, potrebbe degnamente sostituire il tricolore nazionale come nuova bandiera, aggiornata ai tempi (potremmo suggerirla per la Padania eventualmente, quando si farà). E la si potrebbe fare comunque in tre colori, gli altri due a significare altri due sensi per cui il simbolo della ‘busta’ rappresenta ciò che è fondante davvero in questo paese: la ‘busta paga’ come elemento di ricatto che tiene insieme la pace sociale, e la ‘bustarella’ che continua ad oliare e far girare tutto il sistema nel suo intreccio tra istituzioni e mondo degli affari.
Ma il processo è in via di perfezionamento: non basta ormai una comune capacità di spesa; lo spread sociale aumenta e mentre i ricchi si arricchiscono c’è una fascia della popolazione (mondiale da sempre, ma vieppiù anche qui da noi) che rimane ai margini e sotto al minimo sufficiente per essere rilevante. Ci si preoccupa di tassare i ricchi perché sarebbero questi a far girare l’economia anche per gli altri. Per questa nicchia sociale di massimo livello tutti devono preoccuparsi, anche perché, sebbene i loro profitti resteranno privati, le loro eventuali perdite sarebbero socializzate, e questo non è interesse di nessuno. Nel sistema capitalistico giunto a questo livello di sviluppo non è la popolazione di un paese nel suo insieme che serve a mantenere in salute l’economia: il problema diventa, al contrario, mantenere in vita la parte più debole della società in modo che tiri avanti senza crear troppi problemi e troppa spesa. Senza richiedere troppe risorse che sarebbero destinate allora a fini pubblici mentre i beneficiari non potrebbero comunque costituire un target rilevante di consumatori.
La colpa della gente normale è evidentemente quello di sapersi accontentare – oltre un certo limite - di vivere in condizioni normali o il realismo di capire che non si può esser sempre tutti in competizione e sempre tutti vincenti. Tutt’altro.
Basta dunque che questa fascia di popolazione a basso reddito sopravviva e guardi la televisione; continui a credere nei miraggi consumistici come orizzonte mentale, ma anche si accontenti perché tanto dovrà farlo comunque. Importante è che si continui a credere di star tutti nella stessa barca, che gli interessi di chi ha creato il debito sovrano e di chi deve pagarlo siano comuni.
In queste settimane sto lavorando come avventizio presso un’azienda agricola per la raccolta dell’uva. Assunzione in regola e tariffa oraria legale accettata dai sindacati a livello territoriale. Regione ‘rossa’ del centro Italia, non siamo al Sud. Sapete quant’è? Quattro virgola sei (4,6) euro netti l’ora: la “bellezza” di 37 euro al giorno per otto ore (5+3) ininterrottamente a raccogliere uva, in piedi o piegati, con il sole o con il fango e, se piove, si aspetta che smetta sotto un riparo di fortuna anche un paio d’ore…naturalmente non pagate. Tranne uno spagnolo, un indiano e un macedone, i miei quaranta colleghi di lavoro sono tutti italiani e ce ne sono diversi sopra i sessant’anni che vivono di queste occupazioni da tutta la vita.
I vendemmiatori sono generalmente persone che sanno mantenere il buonumore; ieri c’era parecchio fango per terra e qualcuno scherzando diceva: “…e a noi invece ci hanno ‘affondato nel lavoro’”. Una battuta azzeccata in un senso anche molto più generale.
sabato 24 settembre 2011
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