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Con buona pace del neo-tribalismo di convenienza in salsa lumbàrd e di chi ci crede, il tanto strombazzare di federalismo ormai da diversi anni in Italia più si concretizza e più si sta rivelando un altro dei tanti modi di vendere all’opinione pubblica ogni nuova fregatura come una conquista.
L’ultima in ordine di tempo è questa del cosiddetto “federalismo demaniale” che dà la possibilità alle amministrazioni locali di scegliersi le proprietà dello Stato più remunerative, prenderle in possesso e “valorizzarle”.
Inutile dire che in questa nostra “civiltà” dove si “guarda al risultato” (e nella fattispecie tocca pure farlo di fretta dato che molti comuni si sono indebitati un bel po’ con i fondi derivati ed altre gestioni irresponsabili del denaro pubblico) il termine “valorizzare” significa banalmente “trasformare in soldi liquidi”: il nostro “valore” per eccellenza. Soldi che, date le circostanze, ci sono forti ragioni per temere che saranno destinati alla spesa corrente.
L’idea di federalismo, a noi ingenui, può far pensare a decisioni politiche più partecipate, ad una gestione delle risorse più attenta al contesto locale, alle caratteristiche del territorio, al restituire dignità e futuro alle tradizioni e alla storia, alle peculiarità di un luogo. Può far pensare che i cittadini si sentiranno più padroni e compartecipi di ciò che sta nel posto in cui vivono e che è un “bene pubblico” e che gli sarà più possibile controllare l’uso che gli amministratori ne fanno.
Ma in realtà sembra che il demanio sia destinato ad essere ridistribuito su base federalista solo perché avvenga un passaggio: tra chi vende ciò che non è suo e chi compra ciò che non era destinato ai tornaconti privati. Che questa sarà una partita di giro con cui lo Stato centrale taglierà fondi alle sue amministrazioni decentrate in cambio del valore degli immobili e che questo sia fatto passare come una riforma federalista – ma non è chiaro, una volta che gli immobili saranno venduti cosa sostituirà i contributi statali (sarà probabilmente la volta del federalismo fiscale e allora si dirà che qualcosa avete avuto – chi? – ed ora bisogna pur dare). C’è infatti da aspettarsi che le Regioni e i Comuni con ogni probabilità (s)venderanno la parte del demanio che gli verrà trasferita per fare cassa con una rapidità che sarà regolata solo dalle fluttuazioni di mercato nel valore degli immobili ed una lungimiranza che avrà come orizzonte probabilmente giusto lo scadere del mandato dei politici eletti, in una proliferazione di cambiamenti di destinazioni d’uso e piani regolatori in cui il conflitto d’interessi finalmente non sarà più un privilegio esclusivo di chi si trova ai vertici delle istituzioni per usarle in un’ottica imprenditoriale, ma si sarà “democraticamente” diffuso rendendosi accessibile anche ai livelli più bassi del potere. Una liberalizzazione del privilegio per acquisire il quale basterà una certa quotazione all’interno di una lista civica locale magari “civetta”.
Non ci facciamo mancare niente neanche in provincia.
Sembrano esserci due tendenze in atto apparentemente opposte ma complementari. Da un lato il potere è sempre più pesantemente pervasivo, si appropria del territorio e ne fa quel che vuole accaparrandosene la proprietà perfino di diritto ed assegnandolo ai suoi vassalli locali che si siano guadagnati una nicchia all’interno della sua geografia clientelare di privilegi in subappalto. Dall’altro lo Stato come nome collettivo che rappresenta la società sempre più diventa leggero fino a volatilizzarsi (altro che “liquido” – piuttosto “in liquidazione”) insieme con le ragioni che i cittadini hanno di aver fiducia nelle istituzioni. Lo Stato è un qualcosa che, insieme a leggi, regole, sistemi di equilibrio tra poteri ed istituzioni, ha anche un aspetto materiale, ciò che viene appunto definito i “beni comuni”: edifici, terreni, risorse naturali, ecosistemi, pezzi di storia e di cultura; roba solida, ma anche possibilità di progetti nuovi, di usi di interesse pubblico. Questo anche è lo Stato. Questa ne è una parte che si vede e che dà un senso di appartenenza reciproca: apparteniamo ad un luogo che è collettivo e che ci appartiene collettivamente. Queste sono risorse, potenzialità che, è vero, hanno un costo spesso in passivo se stanno lì dimenticate, ma che, gestite in modo intelligente e date in affitto, in concessione, in comodato d’uso o in altre forme - dove opportuno anche a condizioni agevolate - per lunghi periodi su progetti validi e verificabili, possono essere l’occasione con cui la società produce gli anticorpi con cui rispondere alle crisi che rischiano di minarla. L’affidamento di almeno una parte del demanio a gruppi di cittadini che abbiano progetti da costruirvi sopra potrebbe veramente dare senso al decentramento della proprietà pubblica sia per la scelta appropriata dei gruppi ed i progetti che per la loro verifica, cose entrambe meglio realizzabili in un contesto locale. Le amministrazioni regionali potrebbero dotarsi di leggi apposite (rimando per un esempio e un approfondimento in merito a questo a http://www.ecofondamentalista.it/bozzaproplegge.htm ) e, pur non essendo questo sufficiente – come in tutte le cose umane - ad escludere errori ed abusi, in ogni caso rimarrebbero proprietarie dei beni (il che sarebbe un loro dovere dato che lo sono per conto della totalità dei cittadini) e potrebbero comunque mantenerli come patrimonio comune per utilizzazioni future a beneficio di tutti – e, visto che parliamo, tra i vari beni in questione, di territori che sono anche ecosistemi, non solo degli esseri umani né solo di quelli attualmente viventi.
Sappiamo bene invece che ciò che rischiamo di vedere di qui a breve sono ulteriori cementificazioni, centri commerciali, speculazioni edilizie e “grandi occasioni di sviluppo”… per i furbi di sempre e gli amici degli amici (ce ne fosse ancora bisogno).
Dai tempi delle enclosures nell’Inghilterra del XVIII secolo, alla abolizione di fatto degli usi civici nell’Italia moderna, alla ancora recente privatizzazione delle grandi compagnie di servizi strutturalmente essenziali in un paese sviluppato, all’esternalizzazione attuale di tutto il possibile da parte delle amministrazioni pubbliche (pulizie, manutenzioni ecc…) c’è un processo di virtualizzazione dello Stato e di progressiva astrazione del (e dal) significato di bene pubblico, ma con ciò anche di bene comune. Non si percepisce che, per questa via, queste diventano sempre più nozioni teoriche, senza presa sulla coscienza delle persone mentre sempre più il furbo è chi si accaparra di più a spese altrui: prende, consuma e getta.
Non avevamo ancora sviluppato quella un tempo mitizzata virtù “nordica” da “popoli sviluppati”, efficienti, degni della modernità che è il “senso dello Stato”
che non ci è parso vero di poter seguire il modello americano/anglosassone del fanatismo per le privatizzazioni ed il mercato, in quanto portatori di una dinamicità tanto ammirata quanto è fissa e statica la nostra ammirazione per il loro sistema – che intanto già sta rivalutando il ruolo dello Stato. Ma noi ce ne accorgeremo tra un po’: andiamo piano, c’è ancora rimasto qualcosa da privatizzare. Il tempo dello Stato arriverà quando bisognerà salvare le imprese, del resto, anche in questo gli americani son già più avanti di noi.
Chi sinceramente può dire che la privatizzazione/liberalizzazione, ad esempio, delle comunicazioni telefoniche abbia portato questi grandi benefici rispetto a prima? Che i costi siano effettivamente scesi grazie alla concorrenza tra i gestori? Quali miglioramenti reali ci sono stati che non siano dovuti al progresso tecnologico che ci sarebbe stato comunque? Non è forse piuttosto che fanno alla fin fine tutti le stesse offerte e noi dobbiamo pagare, con la bolletta, anche le cifre enormi che spendono in pubblicità per tirarci ognuno dalla sua parte mentre oggi attraverso internet si potrebbero pagare le telefonate pochissimo?
Noi viviamo in Italia, in una delle società più culturalmente vecchie e ferme e più socialmente statiche del mondo, altro che dinamismo del privato.
Questo che viene spacciato per “federalismo demaniale” è solo l’ultimo specchietto per allodole che vende illusioni di cambiamento all’opinione pubblica e vende la sostanza potenzialmente e pubblicamente utile dello Stato.
In franchising, presso le succursali locali del potere.
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