sabato 24 gennaio 2015

Ripensare il lavoro


"Non si puo' sapere qual'e' il vero lavoro del contadino: se e' arare, seminare, falciare, oppure se e' nello stesso tempo mangiare e bere alimenti freschi, fare figli e respirare liberamente, poiche' tutte queste cose sono intimamente unite, e quando egli fa una cosa completa l'altra. E' tutto lavoro e niente e' lavoro nel senso sociale [nel senso attualmente corrente] del termine. E' la sua vita". E' un passaggio che amo molto da "Lettera ai contadini sulla poverta' e la pace" di Jean Giono, del 1938. Cio' che il brano ci mostra e' un'accezione dell'idea di lavoro nettamente diversa da quella che si e' ormai affermata in Occidente da un centinaio di anni a questa parte. Oggi noi vediamo il lavoro inscindibilmente come impiego ed inevitabilmente come legato al denaro. Il lavoro e' il mezzo attraverso il quale otteniamo il denaro e il denaro quello con cui otteniamo qualsiasi altra cosa. In pratica il lavoro e' il mezzo attraverso il quale noi convertiamo il nostro tempo, la nostra energia e le nostre capacita', in una parola, la nostra vita in denaro. Non a caso e' anche cio' che ci da' una collocazione sociale, che ci definisce sulla scala gerarchica del prestigio, dello status e del potere: siamo - ci consideriamo e veniamo considerati - a partire dalla professione o dal mestiere che svolgiamo, il denaro che a questo corrisponde ne misura il valore, la posizione. E quindi, potremmo dire parafrasando il linguaggio della finanza, il nostro "rating" e il nostro "spread" rispetto agli altri. Oggi la maggioranza delle persone - soprattutto i giovani credo, a parte alcuni piu' fortunati - hanno un rapporto di odio-amore con il loro lavoro (quando ce l'hanno): si sogna di poterne fare del tutto a meno, di liberarsene e dedicarsi solo a cio' che piace, ma anche si ha il terrore di perderlo. Pero' non e' sempre stato cosi': fino a che la vita delle persone non e' stata egemonizzata dal sistema industriale, il tempo non era diviso in lavoro e tempo libero. Se non esiste il "tempo libero" cosi' neppure esiste il "lavoro", ovvero lavorare e' parte integrante della vita, non ha orario e non ha uno scopo separato ed unico come quello di guadagnare denaro, passaggio obbligato per arrivare a tutto il resto. Oggi siamo di fronte ad una situazione di crisi di sistema, per cui il lavoro scarseggia, in entrambe le forme in cui si da' oggi. Si, perche' nel sistema attuale noi ci siamo ormai abituati a concepire il lavoro solo in due modalita' opposte e complementari: quella dell'imprenditore/datore di lavoro e quella del lavoratore dipendente (operaio o impiegato). Sembra non possa piu' darsi, questa fondamentale dimensione umana del lavoro, al di fuori di questa dicotomia. Eppure la vita del contadino rappresenta una modalita' diversa, che ha sempre accompagnato - come possibilita' oggi, come realta' maggioritaria ieri o tuttora altrove - la condizione umana. Il contadino parte da una base di risorse autonoma e limitata e, pur coltivandola costantemente, rimane dentro i limiti di crescita gia' intrinsecamente contenuti in tale base. Perche' le risorse a sua disposizione sono quelle date. E' decisivo, inoltre, che il valore di questa base di risorse, come la fertilita' del suolo, la salute degli animali, la durata di attrezzi, macchine e strutture, sia mantenuta ed a questo fine e' necessario trovare soluzioni e adattamenti ambientali anche ingegnosi che tengano conto degli effetti a lungo termine. Cio' e' molto diverso da un sistema in cui l'elemento del capitale finanziario disponibile (e, in linea di principio, indipendente da tutto il resto e sempre incrementabile) e' l'unico dal quale dipende tutto il resto e che puo' essere trasformato indifferentemente in qualsiasi altra cosa (comprandola). Percio' vediamo come, a differenza sia dell'imprenditore che dell'operaio/impiegato, il contadino non ha l'orizzonte della crescita e del profitto del capitale investito ne' vi e' legato: si muove bensi' in una forma di economia circolare che si limita a riprodurre il proprio sostentamento e le basi che lo permettono, dando luogo cosi' ad una forma di sussistenza sostenibile sia economicamente che ecologicamente. Si tratta in effetti di un modello di economia che funziona secondo principi estranei al sistema consumistico-capitalistico, pur vivendo nello stesso territorio che da esso e' dominato e regolato. E' chiaro che qui si sta parlando del contadino, intendendo con cio' una figura ben distinta dall'imprenditore agricolo che gestisce, direttamente o indirettamente, un'azienda agricola secondo un modello industriale o tendente ad esso. L'elemento della componente di autoproduzione ed autoconsumo come distintiva del modello contadino e' centrale per un discorso di risposta efficace alla situazione di crisi del sistema spostando la prospettiva verso una economia di sostentamento. Bisogna fare uno sforzo intellettuale ed uscire dalla visione delle cose profondamente acquisita per cui lavoro e' solo cio' che da' reddito monetario e lavoratore solo colui che e' inquadrabile in una univoca categoria professionale. Il contadino non era una persona che "faceva" il contadino con un determinato orario di lavoro e come una definizione professionale. Ne' era qualcuno che faceva esclusivamente quel mestiere e non sapeva fare altro: per necessita' o per inclinazione i contadini erano sempre anche un po' muratori, carpentieri, falegnami, artigiani, maniscalchi, boscaioli, meccanici, piccolissimi commercianti, intagliatori e talvolta pure cantastorie o musicisti. Integrare il lavoro agricolo, dedicato all'autoproduzione del cibo (ma anche di altri prodotti di base) ed alla produzione della parte che ne veniva venduta o scambiata, con occupazioni diverse che davano quella parte di denaro liquido necessaria a quanto non si poteva produrre da se', ha sempre fatto parte della realta' contadina. Oggi ci sentiamo dire da piu' parti che e' ora di dimenticarci l'idea del posto fisso e sicuro. Cio' significa - per la gente comune - il dover costantemente rincorrere corsi di formazione professionale (che spesso servono piu' a far lavorare chi li organizza che chi li frequenta) ed impieghi precari e a termine. E' una tendenza di lungo periodo che non accenna a diminuire, ne' e' realisticamente probabile che lo faccia, dal momento che la concorrenza commerciale dei Paesi emergenti e' forte e la crisi della domanda da noi e' strutturale, anche perche' - per quanto la pubblicita' faccia del suo meglio per spingerci a comprare facendoci sentire costantemente inadeguati e insoddisfatti con quel che abbiamo - e' ben difficile riprodurre di nuovo qui le condizioni che ci sono ora in Paesi in cui ancora la maggioranza delle famiglie sta appena iniziando ad accedere a tutti i prodotti tecnologici e del consumismo di massa. Allora, un recupero della dimensione contadina dell'economia domestica, in cui diventano la regola sia la molteplicita' delle attivita' che una parte di autoproduzione, che fa da base a tutto il resto, puo' diventare una possibilita' non a cui "tornare", ma con cui "reinventarsi" un'idea di lavoro. Oggi, che si puo' essere contadini per scelta, all'attivita' agricola, e' possibile accompagnare ogni sorta di lavoro, da quelli di livello piu' basso - come era anche una volta - a professioni di alto livello, passando, secondo i casi, per impieghi negli enti pubblici, attivita' artistiche, mansioni tecniche specializzate, da programmatori informatici e quant'altro. La base di autoproduzione e piccola vendita permetterebbe inoltre di estendere molto piu' di oggi l'impiego part-time ovvero di ridurre il tempo medio di lavoro retribuito per lavoratore, il che equivale a poter aumentare notevolmente (sebbene con questi limiti) i posti di lavoro. C'e' dunque un grande potenziale nell'agricoltura contadina di poter assorbire disoccupazione, ma non nel modo classico (ed oggi molto problematico) di creare "posti di lavoro", bensi' nel sostituire in misura rilevante questa fonte di sussistenza alla condizione di precarieta' di molte persone che, a monte dell'assenza di posti di lavoro, e' dovuta alla loro totale dipendenza dal trovarne per poter sopravvivere. Occorre pero' mettere da parte il punto di vista dell'attuale sistema economico orientato alla crescita del PIL, che e' il punto di vista delle aziende e del capitale investito, ed adottare quello delle persone comuni - ovvero quello che si potrebbe scoprire essere il proprio, nella maggioranza dei casi - che semplicemente devono vivere e che possono anche scegliere di collaborare reciprocamente in forme solidaristiche anziche' sentirsi in competizione perpetua, per giunta illudendosi che questa portera' alla fine (?) vantaggi per tutti (secondo la "religione" dell'homo oeconomicus). Qui mi riferisco soprattutto ad una agricoltura contadina come forma odierna di agricoltura di sussistenza in un Paese sviluppato ed, anzi, post-sviluppo, che si integra con altre fonti di reddito in un'economia composita che riesce a ridurre in modo significativo la dipendenza dalla sua componente monetaria e nella quale il contadino non vede se' stesso come figura professionale definita, bensi' come essere umano vivente che si basa in primo luogo sulla terra e cio' che questa, con il suo lavoro, gli da' e, secondariamente, sulle altre cose che gli riesce di fare per vivere. Ma non e' certo solo questa l'agricoltura contadina possibile oggi in Italia: ci sono molte aziende agricole che, pur avendo anch'esse le caratteristiche distintive elencate in precedenza, non hanno bisogno di altre fonti di reddito per sostentarsi. Un'agricoltura, pur sempre contadina e percio' su scala ridotta, che pero' non e' solo di sussistenza, ma professionale, e che sarebbe in grado di sfamare la popolazione nazionale, sebbene non in un sistema dominato dalla Grande Distribuzione Organizzata com'e' quello attuale: si tratterebbe di creare circuiti appositi di filiera adeguati alle produzioni contadine. Ma ci vorrebbero leggi e politiche che riconoscessero, in primo luogo l'esistenza, della specificita' dei modelli contadini di agricoltura e che altrettanto ne riconoscessero le molteplici ricadute positive a largo spettro, vantaggiose per tutti, sulla qualita' del cibo, sugli ecosistemi, sui territori, sul paesaggio, sugli equilibri idrogeologici, sulla biodiversita', sull'occupazione... Purtroppo, pero', la situazione cui ci troviamo davanti e' una in cui le politiche e le leggi attualmente vigenti sono concepite unilateralmente a misura del modello agricolo unico industriale e pongono pertanto enormi ostacoli a chi vuole vivere secondo queste forme altre di economia e trovare in tal modo - vuoi come fonte integrativa di sussistenza che come attivita' a tempo pieno - una risposta alla situazione di crisi in cui ci troviamo. Ci si trova di conseguenza confinati nell'ambito del "sommerso", della cosiddetta "economia informale". Ma se per quella "formale" dobbiamo intendere l'economia del modello unico, dominata dagli interessi delle grandi aziende e del capitale finanziario, quella "informale" potrebbe essere meglio definita come un'economia autoprodotta, autogestita ed autocontrollata a misura delle necessita' di base ed autentiche delle persone e delle comunita' direttamente coinvolte.....almeno finche' non ci saranno finalmente regole pensate per queste ultime e non per gli interessi di soggetti economici che gli sono estranei e che perseguono solo i propri fini di crescita dei profitti.

Nessun commento: