La strage avvenuta nella sede del giornale satirico parigino Charlie Hebdo è stato un assassinio barbaro e vigliacco che non ha giustificazioni. Barbaro per essere il portato di una visione arcaica delle cose, per cui ogni onta va lavata col sangue. Vigliacco perché chi l’ha compiuto si è trincerato dietro la forza dei kalashnikov per colpire ed eliminare persone inermi ed ignare di quanto stava per accadere. Non si può dunque non condannare questo atto senza mezzi termini nella sua violenza e solidarizzare con le vittime che vi hanno perso la vita.
Questo è ciò che penso, e ci tengo a dirlo subito, anche per non essere frainteso (strumentalmente o meno) in ciò che segue. Perché questo episodio tragico è anche una occasione per fare alcune riflessioni sul mondo in cui viviamo e, da parte nostra come Occidentali, sull’Occidente, dato che, fra le parti in campo, è sempre una buona regola volgere il proprio sguardo critico alla propria, in primo luogo.
Ascoltando e leggendo opinioni e dibattiti oggi (il giorno dopo l’attentato) ciò che viene messo maggiormente in risalto, più che l’omicidio in quanto tale, è l’attacco alla libertà di stampa, si dice che dobbiamo difendere i valori dell’Occidente, dell’Illuminismo e con ciò della Democrazia, della Tolleranza, del Pluralismo: è intorno a questi che dobbiamo far quadrato e da più parti emerge la richiesta, rivolta ai musulmani “sedicenti” moderati, di una scelta di campo netta: denunciare coloro che stanno dall’altra parte, ovvero, di passare, loro, inequivocabilmente dalla nostra. Si richiede una prova di solidarietà verso il “laicismo” occidentale e lo si fa in nome della tolleranza e del pluralismo: specie da parte di chi ha sempre teso una mano “multiculturalista” viene ora chiesto in cambio un segno chiaro. E al tempo stesso si prendono le distanze dall’ottica dello “scontro di civiltà” (Huntington) come chiave per interpretare la contemporaneità: ci si mostra scettici sul prendere la differenza come un dato di fatto irriducibile – o non-riducibile a volontà ad un
melting-pot laicista e trans-culturale.
Ma non è invece proprio questa la via verso lo scontro delle civiltà? Pluralismo significa riconoscere sinceramente valore, dignità e diritti a culture diverse? Oppure avere pazienza con chi è considerato “civilmente difettoso ma in via di sviluppo” in attesa che prenda la “strada giusta” di diventare come noi? Essere in un mondo globalizzato in cui dobbiamo convivere pacificamente tra società/civiltà/culture diverse implica una misura di rispetto, ma per rispettare bisogna anche conoscere, capire e riconoscere gli altri in quanto
altri, irriducibilmente altri, diversi da noi: non diversi solo per aspetti estetici, folkloristici, superficiali, ma profondamente diversi in quanto facenti riferimento ad orizzonti di valori e significati divergenti. E pure, senza farli propri, anche dissentendo, averne rispetto, accettare di conviverci fianco a fianco (senza necessariamente doversi mischiare) ma senza crear motivi di offesa. Finché è possibile evitarlo, almeno.
Con questa solidarietà verso i nostri sacri valori della libertà d’espressione che sento in giro da dopo l’attentato, onestamente non mi sento molto solidale: mi colpisce come non si senta da parte di nessuno una sola parola che prenda in considerazione il punto di vista dei Musulmani, il fatto che la nostra libertà d’espressione ha offeso ripetutamente i sentimenti religiosi di milioni di persone toccando qualcosa (la figura di Maometto) che per loro è sacra ed intoccabile. Il che, per molti potrà anche essere una cosa assurda e retrograda, ma è una realtà.
Ciò, ancora una volta, non può giustificare in alcun modo quanto è avvenuto, ma è una realtà di cui non si può non tener conto in nome dei nostri valori di libertà e al tempo stesso dirsi pluralisti e contrari allo scontro delle civiltà.
Quali conseguenze ci sarebbero da parte di un qualsiasi Paese dell’Occidente esportatore di democrazia verso pubbliche prese di posizione ed azioni pesantemente ed offensivamente contrarie ai diritti umani, ad esempio sull’Olocausto o verso le Donne, negandone le più basilari dignità e diritti, cioè cose che costituiscono i nostri valori? Ci sarebbero certamente sanzioni penali ed a volte queste sono state tra le giustificazioni per interventi militari che hanno fatto parecchi morti, di cui moltissimi innocenti. Se ce n’era ragione dal nostro punto di vista, da altri punti di vista ce n’è altrettanta nell’impedire che alcune figure considerate sacre e simboliche dei valori a fondamento della propria forma di vita e di cultura vengano apertamente vilipesi. Dal punto di vista di altre persone e civiltà per impedire questo vale la pena morire. Ed ancor più uccidere.
E’ una cosa da pazzi? Per me personalmente lo è, ma è così. E per chi non ha né voce, né diritti, né potere, né cittadinanza per difendere il proprio modo di vedere, gli strumenti per contrastare ciò che è ritenuto offensivo, pericoloso ed inaccettabile non potranno essere le sanzioni legali, ma le vie estreme, eclatanti e disperate. Questa condizione di non riconoscimento, di messa ai margini, non è una giustificazione per uccidere nessuno, senza dubbio, ma è un dato di fatto e non uno trascurabile o che possa non essere preso in considerazione da chi vuol con-vivere in pace nel mondo globalizzato, che è quello in cui viviamo.
Allora la domanda è: per quale via possiamo andare verso un vero riconoscimento pluralista ed una convivenza pacifica nel mondo che il capitalismo ha globalizzato a prescindere dalla volontà dei popoli? Occorre un passaggio culturale evolutivo probabilmente; ma in quale direzione? La difesa unilaterale dei valori illuministi e laicisti dando in cambio a chi li subisce una facciata di tolleranza (che non è riconoscimento di dignità) e qualche occasione di lavoro-guadagno-consumismo da discount (restando ai margini, precari e sfruttati) non basta ed evidentemente non convince i destinatari che vedono benissimo come si tratti di un modello unilaterale in cui l’integrazione è adeguamento ed in cui il laicismo, il relativismo, il rifiuto del sacro – sul quale invece si basa la loro cultura - è un credo sempre più obbligatorio.
Molti, in Occidente, lo chiamano progresso e perfino si illudono che dal resto del mondo la gente venga a farsi sfruttare qui per accedere a questo paradiso di diritti e civiltà, anziché per quei quattro soldi che gli danno; che altrove non aspettino altro che un esercito a stelle e strisce che, dopo averli affamati con un bell’embargo, entri a conquistare le loro città per portarvi la democrazia dei Mac Donalds.
Ma ci si rende conto di quanto chiuso all’interno della nostra realtà ed autoreferenziale sia il dibattito su queste cose? Di quanto sia lontano dalla visione del mondo propria della parte maggioritaria delle popolazioni che lo abitano? Questa che vuol presentarsi come la soluzione che l’Occidente ha da offrire e che gli altri devono sostenere, pena l’esser confusi coi terroristi, non è una prospettiva plurale e paritaria, bensì l’arroccamento di un Occidente incapace di dialogare davvero, di convivere senza pretese di supremazia o, peggio ancora, l’inizio della resa dei conti globale che metterà fine a queste pretese, in modo simile, forse, a come avvenne per l’Impero Romano…..ma con conseguenze sulla scala che possiamo aspettarci oggi.
Ci serve un’idea diversa di evoluzione, di libertà e di convivenza che sia genuinamente pluralista ovvero che lasci spazio a modelli diversi e l’unico modo per permettere questo è accettare un principio di misura e di limite: cose sulle quali l’Occidente odierno ha quantomai da (re)imparare.
Nel caso della libertà di espressione: è stata una grande conquista dell’Occidente essersela guadagnata attraverso tante battaglie, un punto di forza sul quale abbiamo da insegnare, senz’altro. Ma dobbiamo obbligatoriamente credere che avere una libertà debba significare che sempre e in qualsiasi condizione esercitarla sia un bene? E che autolimitarsi deliberatamente questa libertà equivalga a perderla? Equivalga a lasciare il campo a chi vorrebbe togliercela? Avere la libertà di fare qualcosa ma – a ragion veduta e liberamente – rinunciare a farla, contenere volontariamente questa facoltà, siamo sicuri che è un tornare indietro a quando non ce l’avevamo? O non potrebbe essere un passaggio evolutivo superiore, nel senso che viene proprio in seguito al progresso tecnologico e civile che ha portato all’ottenimento di queste libertà?
Se invece di continuare a produrre e consumare senza fine per rendere disponibili a tutti (o sempre di più a qualcuno?) ogni sorta di beni di consumo (spesso inutili e quasi sempre inquinanti), ci astenessimo dal proseguire su questa linea perché capiamo che ha conseguenze nefaste e disastrose per tutti e cercassimo un’altra linea di evoluzione, anche economica, con valori ed obiettivi più a misura d’uomo, più egualitari, più olistici, vorrebbe dire che ci metteremmo dei limiti e rinunceremmo a fare qualcosa che è nelle nostre possibilità. Ma staremmo con questo regredendo? O sarebbe un passaggio più avanzato dal punto di vista (non dello “sviluppo” ma invece) dell’evoluzione?
Se non fosse per una questione legata a come è strutturato il sistema ed al punto di “colonizzazione dell’immaginario” a cui siamo arrivati, questo oggi sarebbe possibile ed accettabile alla generalità della popolazione, proprio grazie al livello di sviluppo a cui siamo arrivati. Sarebbe, dopo esser usciti da una condizione di carenze attraverso un periodo di eccessi, arrivare ad una condizione di equilibrio che beneficerebbe non solo noi come umani di Paesi ricchi, ma anche il resto del mondo, sia in senso degli altri popoli che degli altri esseri viventi. Mentre quella dello sviluppo è unilateralmente una linea di accrescimento di un dato elemento o di una data società, quello evolutivo è un percorso di realizzazione di condizioni migliori complessive sia per il dato elemento/società che in relazione al contesto nel quale è inserito e di cui in qualche modo è parte.
Per tornare alla libertà di espressione, se sappiamo di convivere con persone che hanno un senso del sacro mentre noi non ce lo abbiamo più, che ad esempio sono estremamente sensibili quanto alla figura di un certo profeta che tanti secoli fa ha iniziato a diffondere la loro religione: è così un problema scegliere di indirizzare la propria satira su un simbolico jihadista non meglio identificato o anche su un riconoscibile capo jihadista contemporaneo, ma non proprio su Maometto? Con ogni probabilità l’effetto sarebbe molto diverso: non sarebbe una cosa gradita, ma non sarebbe su qualcosa di intoccabile (per tutti i musulmani, non solo per gli integralisti). Si rinuncerebbe per questo ad esercitare la propria libertà di critica? O si tratta invece di non preoccuparsi più di tanto di entrare nel merito delle differenze tra una cosa ed un’altra dal punto di vista altrui? Di colui che si dice di voler includere ed accettare? Non vuol dire in fondo che si sta e si vuol rimanere del tutto all’interno di un’ottica occidente-centrica e non uscirne pretendendo di essere proprio per questo gli alfieri del pluralismo e del relativismo culturale, quando invece ciò che si offre è solo la via obbligata dell’assimilazione culturale (in una cultura che peraltro non è nemmeno più sé stessa in quanto essa stessa travolta dal sistema consumista che ha generato)?
L’accettazione del limite anche culturale della propria civiltà porterebbe ad accettare realmente di convivere in pace e perciò con rispetto a fianco di altre civiltà, culture, visioni del mondo senza bisogno di confronti che debbano necessariamente arrivare ad una sintesi (che vorrebbe presentarsi come multiculturale senza poterlo né volerlo essere). Basterebbe adottare una visione biodiversa in cui abbiamo il nostro spazio, nessuna missione civilizzatrice verso nessuno, e lasciamo agli altri il loro, lasciandoli essere
altri. Eviteremmo così inutili comportamenti provocatori e forse, semmai, ci riuscirebbe di dare anche qualche buon esempio talvolta.
Ma questo è difficilmente concepibile per i paladini del sedicente laicismo pluralista, per i nuovi crociati dell’Occidente, unica vera civiltà del progresso (ditelo alla fine!). Perché per loro la questione sta proprio qui: accettare un limite oltre il quale si sceglie di non poter andare non è possibile. Il limite di lasciar definitivamente spazio di sopravvivenza a culture irriducibilmente altre, basate sul senso del sacro, su qualcosa visto come non soggetto alla Storia ed alle opinioni umane, sarebbe rinunciare alla visione/vocazione universalista dell’Occidente moderno. E, sia detto di passaggio, ciò corrisponderebbe anche ad ostacolare la coazione cronica ad espandersi propria del capitalismo che lo porta necessariamente ad occupare tutti gli spazi vitali/economici. Accettare limiti sarebbe un sacrilegio. Perché anche quella dell’Occidente, della Modernità, del progressismo è una Guerra Santa e già si sente, a partire da questa vicenda, chi chiede che sia definitivamente bandita ogni forma legale di protezione di cose o simboli ritenuti sacri da qualsivoglia comunità. E’ questo il punto per chi negando lo scontro di civiltà non fa che prepararlo: la laicizzazione obbligatoria di tutte le società, la riduzione di tutte le identità e le convinzioni non compatibili strettamente nell’ambito del privato, che in una società di massa è sempre più omologato ed irrilevante. L’epoca della fine del senso del sacro è anche quella della massima libertà individuale, ma una libertà che è al tempo stesso la massima in-differenza = irrilevanza. Delle tradizioni? Si, ma anche delle opinioni, delle visioni del mondo, della biodiversità, dell’indipendenza e dell’autonomia culturale. Delle persone comuni, in definitiva, e delle comunità umane.
Sarebbero gli integralisti islamici i difensori di questa indipendenza e biodiversità? Certamente no! E senza dubbio la soluzione non è quella di restaurare protezioni legali per simboli “sacri” o dare spazio ad oscurantismi vari.
Si tratta piuttosto, se ci si dice pluralisti, di avere l’onestà di un comportamento conseguente e comprendere che l’avanzamento di una civiltà si misura su un piano evolutivo, nel saper abbandonare la strada ripetuta di insistere a ripetere i propri stessi modelli all’infinito affinché vincano su tutti gli altri. Capire che frutto di un raggiunto livello di potere, di benessere e di diritti civili può anche essere invece il riconoscimento teorico e pratico della realtà e del valore del limite, della parzialità della propria visione. E la libertà di scegliere ciò che è più opportuno ed utile verso la coesistenza pacifica di realtà diverse. A volte è la libertà del fare.
Per chi è in posizione di vantaggio molto spesso quella di non fare.
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