martedì 9 febbraio 2016

RIFLESSIONI SU CERTO AMBIENTALISMO CITTADINO


Una volta un amico mi parlava di sua madre che usava dirgli qualcosa sui fiori. Qualcosa tipo: “I fiori sono bellissimi, ma vanno solo guardati perché durano poco. Se provi a prenderli la loro bellezza svanisce ancor prima”. Naturalmente la frase conteneva una metafora che poteva valere per tutto ciò che c’è di bello nella vita o per la vita in genere: i momenti di felicità e soddisfazione sono fuggenti ed il corso delle cose va lasciato scorrere ed apprezzato per ciò che è, tentare di far prevalere la nostra ambizione di possesso ed appropriarcene rovina anche quel poco di bene che ci è concesso. Questa era un po’ l’idea. Non si può dar torto alla mamma del mio amico. Nondimeno, al tempo stesso, è evidente come il suo fosse un modo molto cittadino di vedere le cose – ed infatti aveva passato tutta la vita dentro Roma. Tra il conteplare il fiore senza alcuna interazione fisica ed il coglierlo uccidendolo nel tentativo di farlo proprio non sapeva immaginare una terza via: quella di coltivare dei fiori. Nel dire a suo figlio tutta la caducità nella bellezza dei fiori sottolineava il fatto che la loro stagione è breve, appena una settimana o poco più all’anno, diceva. E così ripeteva lui, che infatti non riteneva valesse la pena di tenerne in casa. Ma chiunque abbia una qualche esperienza di giardinaggio e conosca anche solo un poco le piante da fiore sa che se ne possono coltivare per quasi tutto l’anno, inverno compreso, scegliendo le varietà adatte ed effettuando le semine a rotazione. Certo, bisogna avere un rapporto fisico, pratico, lavorativo con le piante, la terra, maneggiarle, percepire i fiori come esseri viventi, precari, problematici e contraddittori come tutti gli esseri che vivono. Non che in città non ci sia la possibilità di coltivare dei fiori, ma è più facile dimenticarsene. Se si conoscono come oggetti da acquistare dal fioraio e mettere in vaso o come immagini appese al muro, metafore di bellezze ideali, può darsi si creda di apprezzarli ad un livello più alto, ma probabilmente non si ha proprio idea di cosa siano. Nel coltivarli, i fiori, si scopre la possibilità che abbiamo, quali elementi della Natura, di esserne compartecipi, parte in causa ed attiva, non padroni. Ma nemmeno privi della possibilità di interagire con gli altri elementi ed anche adattare il mondo cui apparteniamo, in certa misura, a nostra misura. Il che implica anche una responsabilità, naturalmente. Nella metafora della mamma del mio amico è contenuta l’annosa questione del rapporto degli umani con l’ambiente (termine equivoco e surrettizio usato spesso al posto di Natura pensando così di annettere anche questa all’ambito di pertinenza dell’agire umano ovvero di negare la sua esistenza di per sé). Il cosidetto ambientalismo ha preso le prime mosse come atto di allarme e di denuncia dei processi distruttivi di origine antropica che, con l’obiettivo di accaparrarsi ogni genere di risorse naturali a fini di profitto e di consumo, già da tempo stanno mettendo a rischio gli equilibri ecosistemici e con ciò – a più o meno lungo termine – la sopravvivenza stessa di molte specie viventi tra cui anche la nostra. La risposta tipicamente ambientalista a questo stato di cose è stata quella conservazionista per cui bisogna limitare il più possibile l’intervento umano sull’ambiente e proteggere le specie animali e vegetali a cominciare, ovviamente, da quelle a rischio di estinzione. Una tale posizione, in linea di principio ineccepibile, non ha però mancato di sconfinare a volte al di là di una misura che possa dirsi genuinamente eco-logica, come nei casi in cui si è preferito allontanare dai propri territori ancestrali popolazioni di cacciatori tradizionali per far posto a parchi nazionali (col relativo afflusso di turisti stranieri paganti in valuta forte) o in cui ci si oppone a generatori di energie rinnovabili per ragioni non sempre proporzionate al loro valore sull’ecologia globale. Ma, eccessi particolari a parte, i movimenti ambientalisti sono spesso stati sul limite – ed anche oltre – di una condanna tout-court quasi della presenza stessa degli umani nella Natura, come se tale presenza dovesse essere per definizione incompatibile. Come se non ci potessero più essere o perfino non ci fossero mai state forme di vita umana perfettamente integrate e sostenibili rispetto all’ambiente naturale che le ospitava. Ovviamente sappiamo che ciò non è vero altrimenti i pericoli di disastri biologici planetari causati dagli esseri umani che si presentano oggi avrebbero dato le loro conseguenze già molto tempo fa. Purtroppo è una caratteristica della nostra cultura occidentale moderna - segnata dalla pervicace abitudine ad un pensiero astratto, intellettualista, iperconcettuale, separato dall’esperienza empirica così come nella sua visione lo sono la mente dal corpo, il reale da ciò che non è nominabile, il bene dal male – che agli eccessi di una corrente di pensiero egemone ispirata a certi valori e ad una certa visione delle cose debbano inevitabilmente seguire quelli di segno opposto. Così ad un iperrazionalismo meccanicistico segue l’esotismo da figli dei fiori che poi fa posto ad un rozzo materialismo edonista e conformista da cui si passa alla manìa per le superficiali trasgressioni di costume seguite dal buonismo politically correct per poi passare al pragmatismo di uno pseudo-realismo che non vede al di là del proprio conto in banca fino alla “riscoperta” delle “cose naturali di una volta” da boutique e chiacchiere new age da centro benessere. Da una cultura scientista-positivista si finisce per dar credito e pari dignità a qualsiasi volgarizzazione di credenze tradizionali o irrazionalismo purché abbia un’aura esotizzante. E da una società patriarcale machista si passa ad una in cui il fatto stesso di esser maschi già è di per sé una mezza colpa a meno che non si abbia almeno una parziale tendenza omosessuale ed in cui la meritocrazia non c’è verso che passi in nessun campo, ma le quote rosa si. Purtroppo, nel corso di questo procedere per opposti sbandamenti, l’uso di un senso della misura sufficiente a cogliere il punto critico delle questioni, attenervisi e non andar oltre è raro come una chimera. Forse perché qui (in Occidente) siamo troppo infatuati di ideologie e mode culturali (come altrove lo sono delle religioni) per mantenere di fronte ad esse un criterio di ragionevolezza. Evidentemente ci servono – o così crediamo – ci troviamo un’identità, il senso che non troviamo nella vita ed allora ci buttiamo dentro a capofitto, eventualmente in senso antiideologico anche, ma sempre ideologicamente. Allora, per tornare all’ambientalismo, non si può non riconoscere che certe posizioni ultraconservazioniste abbiano portato più argomenti ai detrattori dell’ecologismo che ai suoi sostenitori. Penso a quelle che puntano il loro impegno sulla salvezza di un certo numero di individui di una determinata specie animale perdendo di vista il quadro ecosistemico complessivo e la portata della battaglia culturale amplissima che serve per proteggerlo o di chi vuol difendere determinati ecotopi in paesi poveri senza prendere in considerazione l’aspirazione di chi vi abita ad un minimo di sviluppo anche economico, L’emergenza che abbiamo di fronte – e ciò che più d’ogni altra questione dovrebbe starci a cuore se siamo degli ‘ambientalisti’ – sono i pericoli che minacciano il pianeta in quanto sistema ecologico, che minacciano i suoi equilibri funzionali. Questo sistema ecologico non ha nulla di buonista o di democratico, né è organizzato per essere una storia a lieto fine per nessuno: fatica e pericolo sono sempre presenti e la morte è invariabilmente l’esito finale nell’esistenza di ogni individuo a qualsiasi specie vivente appartenga. L’estinzione di intere specie, anche, è uno dei vari elementi che periodicamente fanno parte del quadro. Anziché corrispondere ai concetti umani di bene e di male, questo quadro trova la sua inconcepibile armonia in un equilibrio dinamico di proporzioni, di misure reciprocamente compatibili secondo una legge per la quale qualsiasi cosa può crescere solo fino a un dato limite ed è poi condannata a decadere. Alla lunga si vive solo se in rapporto organico e sostenibile col resto del mondo. Altrimenti, e più presto che tardi – sulla scala temporale del pianeta, ovviamente – si viene spazzati via senza tanti complimenti da uno di quegli “schiaffi di Dio” che, come diceva Giorgio Gaber, “appiccicano al muro” . Questa è la questione: per cui non si tratta di salvare i paesaggi che ci piacciono per andarli a vedere in vacanza o gli animali più amati dai nostri bambini. Si tratta di difendere in primo luogo le funzioni vitali degli ecosistemi in quanto questi sono la vita sul pianeta a prescindere da qualsivoglia scala di valori noi possiamo avere ed a prescindere da noi umani stessi in realtà. Per cui è nella loro salvaguardia che sta la nostra possibilità di sopravvivenza ed, alla lunga, anche di una vita degna di essere vissuta. Fin qui tutti d’accordo, spero – almeno, tra ecologisti. Ma, la cosa che non sembra essere chiara a molti è che, siccome l’essere umano c’è ed arrivato, piaccia o non piaccia, ad avere un peso decisivo nella sua interazione con quella che qualcuno chiama la biosfera, il punto centrale non è quello di difendere con disperate resistenze alcuni elementi (ognuno quelli che più toccano la sua sensibilità) di questa biosfera, ma quello di capire quale possa essere un modello duraturo di coesistenza umana con l’insieme della vita sulla Terra. Le forme di questa coesistenza non potranno essere qualcosa di (ex)stra-ordinario ed inusitatamente ‘buono’ che gli umani potrebbero illudersi di creare ex-novo sul pianeta – come un mondo dove violenza e sopraffazione, necessità, scarsità, dolore, fatica, malattia e morte siano scomparsi. Ciò non sarebbe altro che il modo per ripetere dei pericolosi disastri, pur con le migliori intenzioni. Negli equilibri che regolano la vita sulla Terra il punto centrale è un principio di misura: per noi umani (almeno per un bel numero – forse ancora ci staremmo tutti) c’è posto su questo pianeta. Ma ce n’è abbastanza, come diceva Gandhi, per i bisogni di tutti, non per l’avidità di alcuni. Qui sta l’armonia: il mio spazio finisce dove comincia il tuo. Così ciò che può prendersi l’essere umano trova un limite in ciò che davvero gli serve ed oltre il quale rimane abbondante spazio vitale perché gli ecosistemi funzionino e si riproducano. La soluzione starebbe nel considerarci, noi umani, proprio come elementi dell’ecosistema. Ma questo non può essere solo un’idea o una pia intenzione: deve tradursi in un modello economico, in un sistema di produzione e consumo armonico e sostenibile. Altrimenti sono solo chiacchiere: nuovi espedienti tinti di ‘verde’ per far ancora più business o, nella migliore delle ipotesi, velleitarismi romantici da anime belle. In attesa di venire a conoscenza di altre (e migliori?) soluzioni applicabili effettivamente su scala di massa, il neo-contadino cerca di costruire una dimensione di vita e di economia praticabile già qui ed ora e sostenibile in prospettiva. E’ fiducioso che il suo possa essere un modello valido perché ricalca – aggiornandolo – quello che ha dato da vivere agli esseri umani in ogni luogo del mondo per almeno dodici millenni – durante i quali, peraltro, gli stessi umani hanno avuto modo di esprimersi nella più inimmaginabile varietà e ricchezza di culture umane…… (nel caso qualcuno temesse un appiattimento culturale anziché vederlo in quello che sta uniformando questo mondo di consumisti massmediatizzati). Allora, se c’è oggi una specie davvero da proteggere, questa è quella dei contadini, che sono i veri custodi del mondo. In primo luogo quelli tradizionali dei paesi non ancora sviluppati che vanno aiutati con ogni mezzo a restare sulle loro terre e nei loro villaggi a continuare il lavoro dei padri. Questo significa permettergli di migliorare un poco le loro condizioni di vita lì dove si trovano: manca molto meno a loro per avere una vita dignitosamente accettabile e sobriamente godibile di quanto dovremmo decrescere noi per rientrare in limiti sostenibili – pur senza arrivare a farci mancare niente. E poi vanno sostenuti i contadini dei nostri paesi nel restare nelle campagne e quelli nuovi che le volessero ripopolare. I contadini però: non gli imprenditori agricoli con contributi a pioggia in modo assistenzialista dati (per fare solo un esempio) sul seminato senza neanche verificare che poi ci sia un raccolto. Intanto che si studiano innovative soluzioni tecnologiche o di ingegneria sociale, dato che la dimensione contadina è una possibilità collaudata ed aggiornabile, vantaggiosa non solo per chi la vive direttamente anche sul piano dell’occupazione, dell’ambiente, del cibo, del territorio, del clima, della biodiversità, del turismo ecc…ecc… perché non sostenere – o almeno evitare di creare ostacoli – a chi vuole praticarla? E perché, da parte degli ambientalisti non metterla al centro delle proprie proposte anche politiche?

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