Trovo che l’intento della proposta di un dialogo tra le diverse culture sia lodevole, ma propongo un dubbio: non sarà che il problema e’ che, prima che riescano sinceramente a dialogare e riconoscersi reciprocamente, le culture intanto siano scomparse? Esistono ancora le culture? E per quanto ancora? Sono, questo nostro modo di vivere e le sue espressioni, una cultura?
Intendo cultura in senso etno-antropologico, non solo l’insieme delle varie espressioni artistiche, musicali, dell’abbigliamento, del modo di preparare e consumare il cibo ecc…., ma soprattutto l’essere, queste cose tutte insieme, intessute in una visione del mondo, in un sentimento del mondo inclusivo dell’insieme sociale, radicato in un modo di vita – quello concreto, reale, in cui effettivamente si vive – in cui i vari membri di una società, come tali, complessivamente si riconoscono.
Se penso che queste sono sempre state le caratteristiche delle culture dei popoli cosiddetti “altri” (con un eufemismo di moda che vorrebbe forse essere neutro, ma che e’ palesemente culturalmente autoreferenziato) - che sarebbe forse meglio dire tradizionali - ho forti difficoltà a chiamare la nostra una cultura.
Se penso che i molteplici tratti di ogni cultura tradizionale sono (erano?) radicati in una determinata forma economica di produzione/consumo e in un determinato rapporto con l’ambiente naturale comuni a più o meno tutte le persone di una comunità. Che tali modelli economici facevano sì che tutti si sentissero di condividere necessità, speranze e problemi simili. Che la comunanza nelle forme della pratica e delle idee costituiva la base per il senso di appartenenza ad un determinato tipo di soluzione all’”enigma” dell’esistere, del vivere, ovvero ad una identità culturale,….ho forti difficoltà a chiamare la nostra una cultura.
Noi, dalla ricerca della soluzione dei nostri problemi, anziché accomunati, siamo divisi: ognuno per se’ dato che in fondo non si tratta in realta’, il piu’ delle volte, di risolvere veri problemi, ma di ottenere superfluo da aggiungere al superfluo. Precisamente cio’ che chiamiamo sviluppo e che fa si’ che non ci sia aspetto della nostra vita che non sia in modo piu’ o meno diretto o evidente strettamente legato al denaro. E questo piu’ che mai vale per le espressioni piu’ convenzionalmente culturali: qualsiasi tipo di espressione e’ lecito, non ci sono tabu’ di sorta che potrebbero essere infranti. Tranne il fatto che bisogna che ci sia un’audience ovvero che quella data forma di “cultura”, per quanto trasgressiva, antinomica, e per quanto “deviante”, sia vendibile (o che qualcosa di vendibile gli si possa abbinare, almeno, come nella pubblicita’), altrimenti non trova il modo di comunicare, e chi non comunica non esiste, pare (….forse perche’ non e’ consumabile).
E questo denaro che e’ l’elemento regolatore del nostro sistema non e’ certo la merce di scambio del mercato della piazza che passa di mano in mano tra i prodotti delle stesse mani. Niente affatto: non e’ altro che una convenzione in cifre quantomai immateriale, quantomai neutra, uguale identica per tutti (salvo il fatto di poterlo avere o meno).
Al punto che il rapporto si ribalta: davanti a questo tutt’altro tipo di mercato siamo tutti noi ad essere indifferenti, indistinguibili dal punto di vista del denaro. Lontani, nel nostro ruolo di comuni consumatori, dai meccanismi che regolano i suoi flussi quanto e’ lontana l’origine del cibo preconfezionato che compriamo gia’ pronto dal modo in cui passiamo la nostra quotidiana giornata lavorativa nel guadagnarci i soldi per comprarlo.
E’ per questa distanza e per questa indifferenza, questa mancanza di radici (per atrofizzazione, non perche’ non ce ne fossero), che non credo possiamo chiamare la nostra attuale moderna occidentale una cultura : sistema credo sia la parola adatta.
Nel confronto con altre culture, ci possiamo anche presentare come quella che le ha conosciute e studiate tutte, che sa ridefinire se’ stessa di volta in volta come positiva, razionale, laica, democratica, attenta ai diritti umani ( qualche volta verrebbe anche da ridere), in rapporto alle altre. Possiamo illuderci di avere di una certa imparzialita’ paritaria in questa ridefinizione. Possiamo ritenere di presentarci come il modello al quale le altre culture stanno tendendo ad assomigliare (rischiando di venir travolte in quanto tali da una tale tensione).
Ma se all’incontro volessimo approcciarci onestamente, credo dovremmo trovare la misura di una realistica umilta’: che vada anche un po’ oltre il livello paritario, almeno dove possiamo riconoscere di aver perso qualcosa per strada ed aver qualcosa da imparare : l’umilta’ dovuta a chi, per quanto imponente, si riconosce ormai ridotto a sistema e sa di trovarsi davanti a chi e’, con tutte le imperfezioni del caso, ancora, e forse per poco, una cultura.
martedì 24 luglio 2007
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